Quando riapro gli occhi sono in una cella frigorifera, nudo, appeso a testa in giù, con i polsi legati dietro la schiena e sto per morire. Almeno non sono solo, siamo in parecchi qui, tutti appesi a testa in giù come prosciutti. Ogni parte del mio corpo è intorpidita, tremo. Tremiamo tutti.
Il freddo non mi fa sentire il dolore alle caviglie, o ai polsi, o dovunque dovrebbe farmi male adesso.
Il freddo, quello vero, è un tipo di dolore speciale, un dolore che copre tutti gli altri, uniforme su tutto il corpo, dalla pelle fino alle ossa. Spero di svenire, magari per il sangue al cervello. Se sono fortunato presto arriverà il primo ictus. E’ di ictus che si muore quando si sta appesi a testa in giù per troppo tempo, e grazie al fatto di essere in una cella frigorifera l’ipotermia dovrebbe fare il resto. Quello che mi preme di più è morire presto. Morire prima che vengano ad aprirmi in due il torace.
L’appeso accanto a me emette una specie di lamento. Mi giro a guardarlo. A guardarla, è una ragazza. Il seno giovane le rimane sodo e compatto anche se è rovesciato, è la prima cosa che noto. Il pube perfettamente rasato è la seconda. Ha i capelli biondi e la faccia dipinta di verde, ah, la conosco anche. Si, l’ho già vista oggi, proprio oggi, poco distante da qui. Mi ha sfasciato la macchina con un bastone, perché avevo suonato a una mucca.
Ho girato la curva e la mucca era lì, in mezzo alla strada, intenta a brucare un ciuffo d’erba che spuntava dall’asfalto spaccato. Ho inchiodato.
A proteggere la mucca, sui bordi della strada, c’erano una ventina di Puri armati di bastoni e sassi.
I Puri, ovvero quelli che erano vegani anche prima del virus, si dipingono la faccia di verde, imparano una serie di slogan a memoria e sono sempre parecchio incazzati. Li capisco, erano convinti che l’epidemia che impediva a l’uomo di nutrirsi di carne, derivati e alcool, avrebbe trasformato il mondo in un posto migliore, non nella fogna che è adesso. Hanno cominciato a dipingersi dopo i primi scontri, durante la “grande mattanza”, quando i governi cominciarono a ordinare l’abbattimento della maggior parte dei capi di bestiame. Era stato necessario, le bestie non erano più produttive, erano diventate solo un costo e la più grande crisi della storia era già cominciata, ma questo i Puri non potevano accettarlo.
Come non hanno accettato il fatto che io abbia suonato il clacson per cercare di far spostare la mucca a cui facevano la guardia.
Una pietra grossa come un uovo mi ha aperto una crepa su tutta la metà sinistra del parabrezza.
“Vigliacco!” ho sentito gridare. Poi la ragazza, quella che adesso è appesa accanto a me, si è avvicinata urlandomi contro “i bovini sono quasi istinti stronzo, che cazzo suoni!” e ha cominciato a percuotere a mazzate il cofano della mia macchina. Da lì a poco anche i suoi compagni si sono uniti alla festa colpendo e urlando insulti più o meno comprensibili.
Ho aspettato che finissero, rannicchiato sul sedile, coprendomi il viso con le braccia, sperando che dopo la macchina non sarebbero passati a me. Volevo solo che si spostasse, la mucca, volevo solo passare. Alla fine si era spostata, probabilmente spaventata da tutte quelle grida più che dal mio clacson. Quando la strada fu libera e i Puri avevano esaurito le forze e le scuse per distruggermi la macchina, mi lasciarono passare. La macchina era ridotta male ma camminava ancora. Per un momento ho pensato di tornare a casa, dopotutto mi ero ripromesso che non avrei più messo piede al Titti-Twister e quello poteva essere un segno che avrei dovuto mantenere la promessa. Effettivamente se fossi tornato indietro in quel momento adesso non starei morendo. ma mentre mi decidevo ho incrociato un gruppo di uomini con il viso dipinto di rosso, andavano dritti nella direzione dei puri e anche loro sembravano piuttosto incazzati. Quelli con la faccia dipinta di rosso sono del Fronte di vendetta dei carnivori. È un gruppo nato dopo l’epidemia, sono convinti che il virus lo abbiano sviluppato i Puri per farci diventare tutti come loro, è per questo che cercano vendetta. Detto tra noi, io dubito che siano stati dei coglioni con la faccia dipinta di verde a cambiare per sempre il corso della storia umana. Comunque adesso tornare indietro significava rimanere coinvolto in uno scontro dal quale difficilmente sarei uscito illeso, quindi ho deciso di continuare.
Credo di aver perso di nuovo i sensi, o forse no. Fatto sta che adesso il seno giovane e compatto della mia vicina di morte è diventato luminoso e intermittente. Magari è l’effetto del primo ictus che arriva o che è appena passato. Dio, spero sia così.
Cercando di razionalizzare è molto facile che la vista di quelle giovani tette si sia confusa con il ricordo dell’insegna del Titti-Twister qui fuori, ovvero due enormi e sfacciate poppe fucsia che si accendono e si spengono.
Quando sono entrato la spogliarellista sul palco stava facendo il numero della sigaretta con le gambe spalancate. Già visto. Un gruppo di uomini eccitati le urlava complimenti che sembravano insulti sorseggiando sidro analcolico e sgranocchiando snack alla carota.
Io vado dritto verso il privè. Un buttafuori dall’aspetto smunto mi si para davanti. Ha l’aria di essere stato grosso e spaventoso un tempo, ma è uno di quelli che non si è adattato, come me, la bulimia post epidemia ci si legge in faccia, siamo lo spettro di noi stessi. Gli dico la parola d’ordine: “Meglio una zucchina in culo che nello stomaco.”
Annuisce “cinquecento euro” dice, è aumentato, ma pago senza battere ciglio.
Anche dopo aver pagato mi dico che questa volta non arriverò fino in fondo. Questa volta il mio buon senso prevarrà, a un certo punto mi dirà di fermarmi. Ma continuo a camminare.
Il privè non è che uno stanzino vuoto che nasconde la porta per la “vomitoria”.
Dalle scale il puzzo è già insopportabile. C’è odore di fumo, carne bruciata, vino rappreso e vomito. Soprattutto vomito. Il mio analista mi ha detto che se avessi avuto delle ricadute, proprio come adesso e fossi tornato in questo posto, avrei dovuto focalizzarmi su questo odore. Assaporarlo, rendermi conto di quanto sia disgustoso. Devo ammettere che quando mi spiegò come fare mi convinse in pieno, pensai addirittura di essere guarito. Dovevo solo lasciare che il fetido puzzo della vomitoria mi disgustasse. Ma una volta qui ho capito subito che il disgusto fa parte del fascino di questo posto, per chi è malato come me toccare il fondo fa parte del gioco, è importante, è necessario. Si, sarei andato fino in fondo, buon senso un cazzo, volevo farlo con tutto me stesso.
La vomitoria sorge sulle ceneri di quello che era il bordello clandestino del Titti-Twister. È un lungo corridoio sul quale si affacciano qualche decina di stanze. Quelle occupate hanno una luce rossa accesa, quelle libere una luce verde. In fondo al corridoio c’è la cella frigorifera, quella dove sono ora. Mi ero sempre chiesto da dove venisse la carne. Ormai è quasi impossibile trovarne e qui ce n’è sempre. Adesso lo so. Adesso sono io quella carne.
Ho perso i sensi. Questa volta ne sono sicuro. Se sia stato un ictus o no non ne ho idea, non so che si prova ad averne uno. So che ho la testa pesante, so che la vista è annebbiata, so di avere delle allucinazioni.
So che tutte le facce della gente appesa accanto a me sono dipinte di verde e immagino che siano tutti quelli che mi hanno distrutto la macchina oggi. Ma adesso ogni faccia si è accesa e brilla, sembrano tutti uomini lampadina e questa è chiaramente un’allucinazione. MI rendo conto che io sono qui per sbaglio. Gli altri sono tutti Puri, io no di certo. Io sono qui per colpa di quella maledetta lampadina guasta.
Mentre cercavo una stanza libera mi sono accorto che la settima lampadina sulla sinistra era verde. Avevo il mio secchio vuoto in mano, preso all’ingresso ed ero pronto a cominciare, così aprii la porta.
Ma la stanza non era vuota. C’era una donna dentro, sulla quarantina, pallida come la morte, con un secchio davanti pieno per metà e piatti di resti sul tavolino. “E’ rotta.” Mi ha detto pulendosi la bocca con il dorso della mano. “La lampadina è rotta, rimane sempre verde. Però tranquillo, ho finito.”
Aspettai con ansia che si alzasse, prendesse le sue cose, il suo secchio pieno per metà di vomito. Forse avrei dovuto richiudere la porta, dopotutto quello era un momento piuttosto intimo. Però era anche così affascinante. Non avevo mai visto qualcun altro immerso in quel momento, proprio quello in cui ti odi di più, quando la brama è passata ed è rimasto solo il rimpianto. Lei era a disagio, lo sentivo, ma io rimanevo lì a guardare, ipnotizzato dai quei suoi movimenti lenti, privi di forza, da quella spossatezza quasi erotica.
Se ne andò senza guardarmi negli occhi. Era il mio turno.
La stanza aveva tutto quello che mi serviva, un piccolo frigo, una piccola brace, una ventola di areazione, un tavolino con sopra delle bottiglie di vino rosso senza etichetta. Nel frigo c’erano diversi tagli di carne imbustati sotto vuoto. Credevo fosse maiale, adesso so che non è così. Ho preso una braciola, la più alta che ho trovato, delle fette di guanciale e di pancetta, qualche salsiccia. La cottura è importante, deve essere tutto pronto allo stesso tempo, per mangiare ho solo una manciata di minuti, poi il mio stomaco mi chiederà il conto.
Ho messo le salsicce per prime, poi il guanciale e la pancetta, dopo un po’ la braciola.
Mentre cuoceva mi sono versato un bicchiere di vino e l’ho lasciato sul tavolo.
Mi sono apparecchiato con cura e ho sistemato il secchio davanti a me.
Era tutto pronto, le mani che brandivano coltello e forchetta tremavano un po’ per l’emozione, un po’ per la paura. Adesso dovevo concentrarmi, il trucco è non pensare al dopo. Ho Tagliato un pezzo di guanciale, ho chiuso gli occhi, un bel respiro e in bocca.
Il grasso mi ha riempito la bocca e poi si è sciolto. Non ho dovuto masticare neanche, assaporavo con la lingua, il palato, con le guance addirittura. Ero commosso lo ammetto. Ho Mandato giù un sorso di vino che purtroppo non era all’altezza della carne, bustine, i vigneti ormai sono tutti chiusi, il vino vero è più raro della carne. Poi è stato il turno di una salsiccia che avevo arrotolato in una fetta di pancetta. Adesso il sapore era più deciso ma si sposava alla perfezione con la patina di grasso che mi avvolgeva la bocca. Masticavo con calma, non avrei fatto in tempo a finire tutto ma ogni cosa che mangiavo volevo godermela.
Mangiavo con gli occhi chiusi, con il respiro calmo, mangiavo con la mente, mangiavo con l’anima.
Le prime contrazioni arrivarono dopo il secondo boccone di braciola.
Provai a mandare giù anche quello, l’ultimo disperato tentativo di sentirlo scendere in gola. Ma ormai l’acido aveva già cominciato a risalire. Mi sono buttato in ginocchio e ho afferrato il secchio, dallo stomaco stava arrivando uno tsunami di succhi gastrici e carne semi-digerita. Le contrazioni erano più violente delle l’ultima volta, ogni getto mi lasciava senza fiato e troppo poco tempo passava tra uno e l’altro per riuscire a respirare. Sentivo le gambe molli e anche la forza sulle braccia mi stava abbandonando. Ci furono altri tre getti abbondanti, acidi, violenti. È in questo momento che ti penti, quando è troppo tardi, quando ci sei dentro, quando non hai più fiato. Il quarto getto sembrava fosse l’ultimo, ormai usciva solo una specie di succo verde dolciastro, lo stomaco doveva essere vuoto, visto che il secchio invece era pieno. Ho aspettato che la testa smettesse di girare e ho provato ad alzarmi. Un altro getto, il quinto, il più violento, mi è partito da in fondo alle viscere e mi ha trascinato di nuovo giù nel secchio, stavolta la faccia è finita nel vomito che mi è entrato nel naso, ho sentito le forze abbandonarmi, mi sono lasciato andare, sono svenuto.
Mi sveglia il rumore della porta della cella frigorifera che si apre. Non riprendo subito conoscenza, anzi credo di perdere i sensi più volte, rimango cosciente qualche secondo ogni volta ma poi svengo di nuovo.
La prima volta riesco solo a vedere gli uomini dipinti di rosso entrare, saranno cinque o sei, con dei camici bianchi e dei coltellacci da macellaio. La seconda sento le urla, i rumori sono coperti dallo battere incessante delle mie tempie nel cervello ma li sento, i Puri che strillano e vedo il sangue a terra. La terza sento odore di viscere e merda ma la vista è quasi del tutto oscurata. Alla quarta però riesco a vedere uno dei rossi vestiti da macellaio davanti alla ragazza che mi ha sfondato la macchina.
“Fai prima me” cerco di dirgli, non ce la faccio più. Ma non credo di avere più saliva in bocca e esce una specie di rantolo.
Però lui si gira e viene verso di me. Adesso che mi sta così vicino riesco a vederlo meglio, sta scuotendo la testa. “Cristo santo, tu non dovresti neanche essere qui” dice. Mi fa male al collo guardarlo in faccia, è troppo alto, guardo davanti a me, guardo il coltello che tiene in mano, lungo il fianco, accanto al grembiule lercio di sangue.
“Ma che cazzo ci facevi ancora nella stanza? Pensavamo non ci fosse più nessuno”
“La luce verde” dico, ma ancora mi esce qualcosa di incomprensibile dalla bocca.
“Come?” dice lui e si accovaccia avvicinandomi il suo faccione rosso.
“La lampadina” ripeto, “è rotta”, provo a deglutire, “rimane verde”.
Lui si rialza e urla a qualcuno più forte che può in mezzo a tutti quei lamenti.
“Cazzo ma la luce della sette è ancora rotta? Ma porca troia, guarda che cazzo di casino per una lampadina.”
Poi si riabbassa, mi guarda negli occhi e sbuffa.
“Mi dispiace bello, ma sei uscito proprio mentre portavamo dentro i Puri, non possiamo lasciarti andare lo capisci? Non con quello che sai adesso”
Annuisco, lo capisco, ma mi viene da piangere.
“Senti, facciamo così, un colpo in testa va bene? Non senti niente, e sti cazzi se la carne viene più dura che col dissanguamento, per te facciamo un eccezione va bene bello?”
Non aspetta che gli risponda, si rialza e urla più forte di prima, “La spara chiodi, portatemi una cazzo di spara chiodi.”
Ma mentre lo dice sento qualcosa nella testa che si rompe, delicata, gentile, la luce diventa rossa, poi marrone, poi tutto è nero.
Eccolo, penso, allora è questo che si prova quando arriva.