Indosso pantaloncini colorati e una maglia che mi sta larga, è quella del fuoriclasse della squadra. Oggi non c’è, si è infortunato, siamo solo undici e gioco anch’io. È la mia giornata. Calpesto il terriccio fangoso del campo e sento che i tacchetti hanno una bella presa, sono pronto. Guardo Nizzi. Siamo già d’accordo, appena gli arriva il pallone mi fa un cenno col braccio, proprio come un vaffanculo e lancia su di me.
Mi libero dell’avversario e vado dritto in porta. Poi dovrò fargli i compiti di greco. Dal campo strizzo l’occhio al mister, a quell’incompetente che dice che corro col culo basso, che assomiglio a una papera che sculetta. Magari non alzo le ginocchia, ma la proprietà di palleggio, l’eleganza, la rapidità di pensiero e la parola ardita? Su quella non mi batte nessuno, è per quello che mi chiamano il Dottore. Tira un’aria fresca e mi sento in forma. Entro in campo e saluto l’arbitro che ha già il fischietto in bocca.
Strizzo l’occhio anche a lui, è meglio entrare in intimità con chi comanda. Pochi secondi dopo la partita inizia e mi allargo sulla destra. Butto un occhio al difensore che mi marcherà, sembra un uomo delle caverne. Fronte stretta, naso schiacciato e pelo che esce dalla maglietta. Il baffo folto unito al fisico massiccio regalano allo spettatore l’emozione di trovarsi nel paleolitico. Scommetto che gli manca la parola audace. Abbasso lo sguardo e vedo che mi fa un gesto con le mani, usa i due pollici e gli indici. Prima li tiene vicini e poi li allontana con le braccia che si allargano. Lo guardo bene in faccia mentre mi dice “Ti faccio un culo così”. Mi sbagliavo, non se la cava poi tanto male, pochi concetti, ma semplici e chiari. Faccio un passo indietro cercando con lo sguardo Nizzi che sta dall’altra parte del campo. Ho bisogno di dirgli che il piano è annullato.
Fischio per farmi notare proprio quando gli arriva il pallone. Non si volta, quell’illetterato. Dimenandomi provo a dirgli no con entrambe le braccia. Lo vedo annuire e subito dopo sento il toc del suo scarpino contro il pallone. La palla si alza in aria per attraversare tutto il campo. Viene diretta verso di me. Cazzo. Mi volto e vedo il cavernicolo che inizia a correre, anche lui verso di me. Non come la palla, lui sorride. Continua a farmi dei gesti inequivocabili e precisi. C’è poco da dire, ci sa fare con la comunicazione. Ho paura che lo scontro fisico gli piaccia, che cerchi solo me. Il pallone sibila in aria, rimbalza una sola volta e si ferma in mezzo ai miei piedi. A questo punto un improvviso borbottio intestinale mi avverte che dovrei andare in bagno, devo liberarmi del pallone. Stringo le chiappe e penso a Epicuro, posso rimuovere il bisogno terreno.
Scappo col pallone tra i piedi lontano da quella creatura. Sculetto, destra e sinistra si avvicendano. Non posso allentare la presa e non posso rallentare la corsa. Il mio intestino non me lo perdonerebbe e forse nemmeno Epicuro. Destra e sinistra, destra e sinistra. Vado sempre più veloce e mi rendo conto di non cavarmela affatto male. Poche sculettate dopo, il bestione mi arriva addosso come un tir. Prima di atterrare sento un puzzo inconfondibile. Capisco che nell’urto qualcosa è andato perso all’interno dei miei pantaloncini colorati. Aspetto il fischio dell’arbitro che non arriva, allora mi alzo di scatto e grido “oh, arbitro! Arbitro!”.
Quello mi si avvicina solo per dire “voi checche non mi piacete” e fa continuare il gioco. Sento la voce del mister che dice a Nizzi “Lo dicevo che corre come una papera”. L’energumeno mi si avvicina e ripete il suo gesto con la precisione che solo la pratica garantisce. Quelle dita tozze, seguite dalle mani, si separano trascinate da braccia pelose e solo quando raggiungono una distanza significativa lasciano spazio alle parole, “Ti faccio un culo così”. Mi guarda dritto negli occhi mentre sento che qualcosa scivola lungo la mia gamba sinistra, all’altezza del ginocchio si stacca per cadere a terra. Arrossisco avvertendo ancora lo stesso puzzo, non ho il coraggio di abbassare gli occhi. Non voglio vedere cosa c’è tra i miei piedi. Lo scimmione il coraggio ce l’ha e sorride guardando il frutto della sua comunicazione. Mi si avvicina solo per aggiungere “Sarai il mio capolavoro”.
È un attimo. Risentimento, irritazione e rancore mi sorprendono in mezzo al campo. Il sorrisetto stampato sul volto davanti a me li trasforma in orgoglio. Riprendo la posizione in campo col piglio del campione. Poco dopo c’è ancora Nizzi col pallone tra i piedi, lo vedo alzare lo sguardo per cercarmi. I movimenti intestinali sembrano placati e mi metto a correre sorprendendo il mister che dice “e quello che fa?”. Il pallone arriva preciso come un orologio, rimbalza pochi metri davanti a me. Dietro la palla posso vedere la porta. Non vedo il cavernicolo e non capisco dove sta anche se mi grugnisce parole che non voglio ascoltare. Penso solo a segnare il mio primo gol. Tre rimbalzi dopo sono sulla palla mentre lo sento attaccarsi alla mia maglia, la numero 11.
Tira come un indemoniato, ridacchia. Temo il peggio e d’istinto allargo il gomito per colpirlo. Mulino il braccio come un randello mentre la maglia si allunga per frenare la mia corsa. Sul punto di cadere in terra lo sento dire “dove pensi di andare cacasotto?”. Uno strattone e piroetto con eleganza verso la testata sul naso che mi fa crollare al suolo. Dopo quella lotta durata pochi rimbalzi di palla, non ricordo più niente della partita. Dicono che parlavo di Epicuro, di papere e di scimmie mentre l’ambulanza mi portava via. Nizzi racconta a tutti che l’arbitro ha fischiato rigore e abbiamo vinto grazie al mio naso rotto. Il gol lo ha segnato lui ed è felice così, anche se il giorno dopo ha preso 4 in greco.