Penso di essere tra quegli ultimi che hanno dovuto imparare a scrivere usando pennino e calamaio.
Le punte delle dita della mano destra erano perennemente blu, avevi voglia a strofinarle forte con il sapone e l’acqua calda: al massimo ti diventavano azzurrine. Gran colore anche quello, comunque. L’inchiostro se ne stava in una ciotolina nera incastonata nel banco e ne sentivo l’odore mentre scrivevo. Era un odore acre, acidulo, che per me è stato quello che per il mio compagno di banco era, invece, la colla Coccoina: praticamente una droga, mi piaceva da morire.
Ma era la carta assorbente la causa della vera e propria dipendenza. Prima di passare a scrivere sulla pagina successiva, le facevi bere tutto l’inchiostro che restava a galla sul foglio del quaderno e non solo ne imprigionava per sempre gli effluvi, ma li avrebbe irradiati per giorni e giorni, impregnando di sé: il cassetto, la cartella o qualsiasi altro luogo dove l’avresti messa. Ho sempre pensato che chi si è inventato il sistema di far provare i profumi spruzzandoli sulle striscette di carta, deve aver avuto la mia stessa esperienza.
Se mi piace scrivere, quindi, è soprattutto grazie all’odore dell’inchiostro.
Neanche l’attrazione ipnotica del foglio scherza, ma è l’inchiostro il vero motivo.
Il resto sono dettagli. Perché dedicarsi alle parole, per esempio, piuttosto che ai numeri? Bè, non mi avete mai visto, sofferente, alla lavagna (nera) alle prese via, via negli anni in un gorgo di crescente imbarazzo con aritmetiche, algebre e trigonometrie che non so risolvere. Il fastidio del gesso che si infilava sotto le unghie e che nel palmo della mano si impiastricciava con il sudore, pesava, poi, anche più del quattro.
La parola è più semplice, con l’abitudine la possibilità di errore contenuta, te la scrivi insieme ad altre sul foglio di un quaderno. Che è bianco e piccolo. Non ci guarda dentro nessuno.
Mica gliele devi leggere a qualcuno le cose che scrivi.