Io sono un uomo che ha sognato di essere Enzo Ferrari

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“Come è stata la sua vita?”, gli chiesero. “Io sono un uomo che ha sognato di essere Enzo Ferrari” rispose. E non si è mai svegliato. L’immagine che ho di...

“Come è stata la sua vita?”, gli chiesero.  “Io sono un uomo che ha sognato di essere Enzo Ferrari” rispose.

E non si è mai svegliato.

L’immagine che ho di Ferrari è una foto epifanica che emerge dalla nostalgia e dall’infanzia, e forse sporcata dal disincanto dell’età adulta.

Ho sette/otto anni e sono seduto a terra, sotto la televisione, a veder la Qualifica di Formula Uno. La telecamera si sposta nei box, e inquadra un uomo anziano, capelli bianchi e occhiali scuri, seduto su una sedia molto alta; un’espressione severa; circondato da meccanici con la tuta rossa; l’unico fermo e calmo mentre tutti si muovono di fretta.  Mio padre dal divano mi ripete, per l’ennesima volta, che quello è Enzo Ferrari, colui….  E mentre mi racconta per la millesima volta la vita del Drake, dal nome del corsaro Francis Drake e non dall’immaginifico drago come taluni pensano, io provo disagio alla visione di quel Grande Vecchio serio, lontano e irraggiungibile. Un Vecchio che immagino come un pistolero antico ma non stanco seduto sotto la veranda di una baracca di legno, il tramonto alle spalle, la linea dell’orizzonte sopra la testa, e l’ombra lunga che si stende sotto, in un deserto ocra, ricorsivo, spazzato da un vento che mi ruggisce nelle orecchie , un Vecchio con gli occhi che non vedono nulla perché hanno già visto tutto, e la pistola – lo so, se ne sente la puzza, e questa puzza non mi piace – è  ancora fumante.
In realtà non so se il ricordo sia autentico, o sia la cristallizzazione in un’unica fotografia di tanti frammenti, né sono certo non sia stato inquinato dall’embricarsi di età e consapevolezze diverse che, con la complicità maliziosa di letture e articoli, interviste, la visione di video e il fagocitare di ogni altro genere di informazioni, abbiano cambiato il passato, modellandolo su una figura dualistica che contrappone il manager e l’uomo, l’eroe e il cattivo.

Perché Enzo Ferrari come manager è stato un eroe. Corrispondente sportivo per la Gazzetta, voleva essere un grande pilota, corse alcune gare per l’Alfa Romeo, ma non aveva il talento per essere un campione. Decise di assemblare auto sportive, sulla falsariga dei garagisti inglesi. Vendette casa per comprare due Alfa Romeo da corsa, appiccicarsi sopra lo stemma avuto dalla vedova dell’avviatore Francesco Baracca, il Cavallino Rampante, e vincere gare con Nuvolari che bastonava le potenti Auto Union e Mercedes del Führer in terra di Germania, e partecipare, dalla seconda gara del primo mondiale di Formula Uno, il Gran Premio di Montecarlo, a tutte le altre fino ad oggi, vincendo più di chiunque altro. Ma a differenza dei garagisti inglesi, Ferrari voleva di più. Appassionato di tecnologie, si circondò degli uomini migliori per costruire auto di serie, e non auto popolari per un popolo italiano uscito dalle macerie della guerra, bensì auto da sogno, che costavano quanto un condominio, per pochi privilegiati. In molti gli diedero del pazzo, all’epoca, oggi però, il prestigio, la storia sportiva che tutto il mondo gli riconosce, ed è notizia di questi giorni che riviste specializzate hanno incoronato il marchio Ferrari come il più influente al mondo, non possono che dargli ragione. Tuttavia, la vittoria più grande non è dato dalla Borsa o da qualche economista con il sigaro in bocca e il bicchiere di whisky in mano, né è data dai successi ai Gran Premi e dai titoli di giornale: è dato dal bambino, un bambino qualunque in qualunque parte della Terra, che sente un rombo alle spalle, e prima ancora di voltarsi urla: “Ferrari!” Non urla Porsche. Non urla Mercedes. Non urla Honda. Urla Ferrari. E se girandosi trova una Ferrari, si ferma a guardarla a lungo, più a lungo che qualunque altra auto.

Diverso è il giudizio come uomo. Non l’ho mai apprezzato. Un uomo, come disse Villoresi, incapace di dire grazie (al pilota che vinceva con le sue auto). Perché dava il merito ai suoi motori, che venivano prima di tutto (e tutti). E infatti, Ferrari mai perdonò Lauda di essersi rifiutato di correre l’ultimo Gran Premio sotto la pioggia, consegnando il mondiale ad Hunt, alla McLaren, e l’astio crebbe fino alla separazione.  Incapace di empatia, Ferrari, per una diversa veduta di idee, cacciava collaboratori, facendo terra bruciata intorno a loro. Una cattiveria e aridità che sembravano essere rappresentate, allegoricamente, dalle sue labbra schiuse e storte, e dalla fronte spaziosa. Ma forse il mio giudizio è troppo duro. In fondo, io Ferrari non l’ho mai conosciuto di persona, nell’intimità; e le mie informazioni sono mediate. Magari la sua crudezza, quell’espressione del volto che sembrava esaltare un dolore e una solitudine, un disprezzo per la vita altrui e altrui idee, forse era solo una posa per allontanare gli scocciatori. Come fece con Berlusconi, quando, giovane e ai primi successi economici e con il Milan, consigliò il Drake di ritirarsi dalla Formula Uno, per poi chiedere una parziale scusa al telefono: ma Enzo Ferrari gli suggerì di dedicarsi agli affari propri, che di auto non capiva nulla, e gli chiuse il telefono in faccia senza concedergli tempo di replicare. E poi, e poi dovrei essere più indulgente per una ragione che spesso ho finto di non vedere, una ragione che me lo fa sentire vicino come non avrei mai sospettato: l’amore per i pazzi. Perché Ferrari amava, come me, i piloti che guidavano con il cuore e le cui gesta possono essere tramandate solo con l’inverosimile. Perché Ferrari amava Nuvolari. Amava Villeneuve. E amava il mio idolo, Nigel Mansell, che a lungo corteggiò, senza successo, e il Leone d’Inghilterra approdò a Maranello solo dopo la morte del Drake. Un peccato. Perché Ferrari non avrebbe mai permesso, a Prost naso storto, di mettere contro il mio idolo i meccanici, e forse, per vincere un mondiale, non si sarebbe dovuto aspettare Schumacher. E una persona così, che ama i pazzi, li ama perché ha dentro un fanciullino che sogna, e i sogni, si sa, soffocano dove c’è (solo) cattiveria.

Enzo Ferrari nacque a Modena il 18/2/1898 o forse il 20 febbraio, ché la sua nascita è avvolta nel mistero, e morì 14 agosto 1988, sempre a Modena: città natale che mai abbandonò, e nel cui letto di casa tornava a dormire ogni notte. Un mese dopo la sua morte, la Scuderia Ferrari ottenne una inattesa e non pronosticabile doppietta al Gran Premio di Monza. Un miracolo. Forse propiziato proprio da lui, e allora, mi vien da chiedergli un favore.

Senta Ferrari, perché non fa un miracolo anche per questa Italia? Non vede che in questo nostro Paese che lei amava, nessuno può sognare di essere Ferrari? Non è la cosa più triste che abbia mai visto? Ci pensi, su. Con stima, un suo non tifoso.

Una volta chiesero a Ferrari quale fosse la sua vittoria più bella.

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