Enzo La Marca si dedica al teatro da circa vent’anni. Una passione nata dall’esempio imprescindibile dei suoi zii, Aldo e Carlo Giuffrè. Nel corso degli anni ha preso parte a diversi spettacoli diretti e interpretati dagli zii, come per esempio La Fortuna con la Effe Maiuscola di E. De Filippo e A. Curcio; in tournée per quasi 500 repliche, lo spettacolo è stato poi registrato per la rassegna Palcoscenico di Rai2.
Attualmente Enzo è parte stabile della Compagnia Maschere Vive di Ascoli Piceno, fondata insieme a suo fratello Emilio. Ma il teatro non è la sua unica passione, c’è anche la scrittura. Nel 1987 scrive Caffè e sigarette, premiato al concorso Città di Alanno nell’ambito della sezione narrativa, e nel 2010 scrive Lucia metteva diamanti nel caffè, insignito del premio letterario nazionale La fonte-città di Caserta per le opere inedite.
Fino a che punto i tuoi zii hanno influenzato la tua curiosità artistica?
Molto. Vedendoli sulla scena sognavo di poterli emulare. Sono stati decisivi nella mia scelta di dedicarmi al teatro.
Quando lavori alla creazione di un personaggio ricorri all’esempio artistico di qualcuno?
L’esempio degli zii è imprescindibile. Lavorando per anni al loro fianco ho appreso l’importanza di essere misurati nell’interpretare qualunque personaggio, evitare quindi la ricerca di facili effetti, facendo gesti o ammiccamenti di troppo, anche se si sta recitando una farsa, non bisogna eccedere, mai trascendere. Misura e ‘realtà’ soprattutto. L’ho imparato da loro, che l’avevano a loro volta imparato da Eduardo. E di fronte a un nome simile non credo sia possibile rifarsi ad altri esempi.
Nelle tournée teatrali che hai realizzato in tutta Italia hai riscontrato differenze nelle reazioni del pubblico?
Recitando per lo più in commedie brillanti con i Giuffrè la differenza tra le varie regioni d’Italia la si può riscontrare nel fragore delle risate. E devo dirti che grandi differenze non ve n’erano. Ovunque ridevano moltissimo, un po’ meno forse alle ‘prime’ nelle grandi città, dove ci sono quei signori un po’ snob che frequentano le sale teatrali più per dovere, si direbbe, che per piacere.
Quale palcoscenico ti ha dato maggiore soddisfazione?
Ho avuto le maggiori soddisfazioni da tutti quei palcoscenici sui quali mi trovavo ad agire con ruoli di primo piano. I ruoli cioè che generosamente mi affidava il solo Aldo (questo vorrei sottolinearlo), e quindi ricordo con gioia i palcoscenici del Teatro delle Muse di Roma, del Politeama di Napoli, della Pergola di Firenze, del Metropolitan di Catania, ed altri ancora.
Adesso sei in tournèe con Il figlio ritrovato, ti ritieni soddisfatto del risultato ottenuto?
Certo. Devo confessarti che prima di iniziare avevo molti dubbi sulla riuscita di questo spettacolo. Io interpreto un ruolo da protagonista che per anni è stato di mio zio Carlo, e temevo di non saper reggere il confronto con lui. Con la compagnia abbiamo dovuto affrontare platee esigenti e avvedute come quella del Pala Partenope di Napoli, tanto per fare un esempio, e si recitava proprio un testo napoletano, sebbene non in dialetto stretto. Insomma motivi per farsela sotto non mancavano. Risultato? Risate a crepapelle e lunghi applausi scroscianti. E senza voler mancare di rispetto a nessuno, potrei dire che dopo essere stati ‘corsari’ a Roma, e soprattutto a Napoli, affrontare altri palchi faceva ridere noi, stavolta.
Dai tuoi inizi ad oggi il teatro e il suo pubblico sono cambiati?
Quando iniziai, nei primi anni ’80, c’era ancora molto interesse intorno al teatro. I mass-media se ne occupavano frequentemente, e molti attori di teatro erano noti al grande pubblico. Oggi non è più così; solo marginalmente si sente parlare di teatro in televisione, e quasi sempre in ore impossibili. E poi se entri in una sala noterai che a riempirla sono per lo più persone d’una certa età. Ai giovani il teatro interessa poco o niente. Peccato, perché uno spettacolo ben fatto potrebbe piacere a tutte le età.
Ti dedichi sia al teatro che alla scrittura. Come concili queste due passioni?
E qui, mia cara Giulia, metti proprio il dito nella piaga. Pensa che cerco persino io stesso di evitarmela questa domanda, se per caso mi sfiora la mente, figurati dare una risposta! Ti dirò che avere due propensioni come queste è un po’ come avere una doppia identità. Cosa diavolo sono esattamente? Un attore o uno scrittore? O meglio ancora, cosa vorrei essere? Eppure non sono due attività proprio inconciliabili; entrambe hanno a che fare con la creatività, ed entrambe rispondono all’esigenza di raccontare qualcosa. A volte mi sembrano lontanissime tra loro quando mi dedico all’una piuttosto che all’altra. Credo addirittura che quando iniziai a scrivere stessi covando inconsciamente il rifiuto del teatro e del suo mondo. Tante volte infatti mi sono detto che l’attore lo faccio per sopravvivere, così come farei qualunque altro mestiere, e lo scrittore, purtroppo, solo per passione.
Nei tuoi due romanzi hai utilizzato la prima persona che sembra metterti a nudo dinanzi al lettore. Come mai questa scelta?
Sia l’uno che l’altro li scrissi rispettivamente sotto l’influenza diretta, si può dire, di due autori da me prediletti: Jack Kerouac, per quanto riguarda “Caffè e sigarette”, il quale credo che abbia sempre scritto in prima persona, e Giuseppe Berto, per quanto riguarda l’altro, il cui libro più noto “Il male oscuro” (che io avrò letto non meno di otto volte!) è una lunga confessione sulla modalità delle sedute psicoanalitiche, ovviamente in prima persona anch’essa, e che trasuda humor da ogni pagina, se non da ogni riga. Insomma nell’un caso e nell’altro avevo fatte mie le ispirazioni di quei due scrittori, e non potevo sottrarmi all’esigenza (nemmeno tanto nascosta) di imitarli.
“… è questo che faccio durante il giorno, perché io devo comunicare, devo sapere, devo vedere, devo chiarire ogni cosa sulla mia vita…” (dal capitolo 16° di Caffè e sigarette). Sei riuscito nel tuo intento?
Era l’86 quando lo scrissi, avevo 28 anni ed ero tutto imbevuto di Kerouac e un po’ in generale delle culture della ‘Beat generation’, e questa frase, o se vuoi, questa ‘sparata’ è tipica di quella cultura. V’è da dire inoltre che venivo fuori da uno stato depressivo sofferto nei mesi invernali di quell’anno, ma adesso era primavera e io avevo bisogno di ‘esplodere’, proprio come fa la bellezza della natura dopo il lungo inverno. Una tirata del genere esprime in pieno l’urgenza che avevo in quel momento. Sono riuscito nel mio intento? Non saprei… dopo tanti anni penso che in fondo non ci sia questo gran bisogno di vedere, sapere, chiarire eccetera eccetera. L’importante era che allora lo gridassi.
Forse non del tutto, ma ancora oggi sento, talvolta con forza, il bisogno di comunicare qualcosa, e di farlo scrivendo. Oltre a quello di chiarire se, per esempio, devo sentirmi più un attore o più uno scrittore, o nessuno dei due. Credo come via d’uscita che l’attore lo faccio per sopravvivere.