A rispondere a questa domanda ci aveva provato François Truffaut quando, nel 1959 decise di raccontare la storia di un bambino nel film “I 400 colpi”.
Interrogato dalla psicologa sul perché raccontasse bugie e si cacciasse sempre nei guai, il piccolo Antoine, protagonista del film, rispondeva: “Beh, mento… Mento ogni tanto, sì… spesso. Se dicevo la verità non mi credevano”.
Meglio mentire che disubbidire, dunque. Meglio essere ciò che non si vuole se lo scopo è compiacere gli adulti. Meglio soffrire che ribellarsi alle regole sbagliate di una società imperfetta. Stig Dagerman, scrittore svedese morto suicida nel 1954 a 31 anni, conosce bene la solitudine dell’infanzia: sa cosa vuol dire essere un bambino senza genitori che cerca rifugio dalle angherie della vita nella scrittura. Cresciuto dai nonni nella fredda campagna svedese, impara che quasi mai la vita va come dovrebbe andare e che, forse, disubbidire è il solo modo per capire ciò che è incomprensibile.
Si comincia presto ad abbellire la realtà, scrive Dagerman nella raccolta “Perché i bambini devono ubbidire?” ( Iperborea): per renderla più interessante, certo, ma anche per sopravvivere e dimenticare. È quello che fanno tutti, ogni giorno, quando lottare contro la vita diventa troppo doloroso e difficile. In questo collage di racconti e ricordi i bambini sono soli e fragili. Non possono far altro che inventarsi una vita diversa, sognando un futuro migliore, sempre troppo lontano. Eppure Dagerman non smette di disegnare un riscatto dell’umanità, proprio attraverso l’infanzia: in un paesaggio duro e arido come l’America senza tempo di Steinbeck , i bambini sono l’unica speranza che resta a un mondo pieno di ingiustizie, l’unica possibilità di cancellare soprusi e violenze, l’unica possibilità di sfuggire alla morte.