“La vita è una guerra totale, amico mio, e nessuno ha il diritto di fare l’obiettore di coscienza” diceva il saggio Moustache del capolavoro di Billy Wilder “Irma la dolce” (1963) . Si era fatto crescere i baffi solo per non dover cambiare l’insegna al locale che aveva ereditato, ma poi erano diventati il suo segno distintivo, tanto da farne il personaggio più amato del quartiere, il deus ex-machina, capace di riportare l’ordine con una storiella e un buon bicchiere di vino. Perché forse la sua saggezza derivava proprio da quei baffi neri, da quello stesso vezzo mascolino che era in grado di trasformare il timido e imbranato Jack Lemmon protagonista del film, nel suo alter ego, il milionario affascinante Lord X. “Ma quella è un’altra storia”, come avrebbe detto Moustache. E se per Billy Wilder i baffi sono un segno di maturità e fiducia in se stessi, per altri possono rappresentare paure e insicurezze. E’ quello che accade a Marc, il protagonista del film “La Moustache” (2005), tratto dall’omonimo romanzo di Emmanuel Carrère, quando un giorno decide di tagliarsi i baffi, che ha portato per più di vent’anni: una scelta dettata dalla quotidianità, che non dovrebbe comportare nessun problema, se non fosse che amici e parenti non notano la differenza, anzi, negano che li abbia mai avuti. Un banale fraintendimento si trasforma, in un dramma di pirandelliana memoria, gettando Marc in un abisso di dubbi e angosce. Comincia a chiedersi chi fosse quell’uomo che ha visto allo specchio finora, e, soprattutto cosa vedono le persone che lo circondano. I baffi, dunque, non rappresentano le stesse cose, né tantomeno sono tutti uguali, come ci ricorda Lucien Edwards con il suo libro “The Moustache Grower’s Guide”: oltre 100 pagine di stili differenti, personaggi famosi, aneddoti, e consigli su come mantenerli e curarli. Perché a volte la vanità maschile nasconde molto altro.