Ad occhi chiusi

di

Data

Nel letto, alle mie spalle, in quella cornice di fiori dorati, fra quei lampassi dove, di notte, sbocciavo nuova Maria Antonietta di oggi, avevo appena lasciato tutto ciò che volevo da che lo avevo incontrato.

Nel letto, alle mie spalle, in quella cornice di fiori dorati, fra quei lampassi dove, di notte, sbocciavo nuova Maria Antonietta di oggi, avevo appena lasciato tutto ciò che volevo da che lo avevo incontrato. E ora tiravo su la lampo, cercando di strizzarmi in quel minimale tubino nero dove camuffavo la mia esuberanza, nel tentativo di contenere l’esplosione.

Ero sempre stata una di quelle che sogna a colori, ma vive in bianco e nero, per paura di inciampare in accostamenti troppo audaci.

Da quando era arrivato, lui mi aveva insegnato il molteplice. Anche l’eccesso. Che il bianco e il nero non bastano. Non bastano mai. Ma, più di tutto, lui mi aveva insegnato a non contenermi. E lo aveva fatto esattamente accendendomi. Sempre, proprio quand’ero sul punto di spegnermi. Di lasciar perdere, pur di non ritrovarmi coinvolta.

“Non capisco” – disse.

“Cosa c’è da capire? E’ semplice: ti sto lasciando.”.

E, intanto, continuavo a cercare le scarpe. Non so perché, ma hanno la capacità di svanire sempre nei momenti meno opportuni. Come se, proprio ciò che ti serve ad andare, volesse costringerti a restare.

Non provai nemmeno, a voltarmi. Avevo sempre evitato accuratamente di schiantarmi. Lui diceva ch’era come andare a venti all’ora con una Ferrari. Un oltraggio, secondo lui.

Ai suoi occhi, dovevo starmi stretta. Abbastanza.

Così, non aveva mai resistito alla sfida di lasciarmi espandere. Per poi infrangere.

“Appunto! Non hai mai lasciato nessuno.”.

“Beh, vorrà dire che potrai vantare un primato.” – mi voltai di scatto, scagliandogli contro il mio sorriso più spigoloso, mentre finalmente infilavo l’ultima scarpa.

“Banale!”.

“Cosa?”.

Mi poggiai sul bordo del letto, ai suoi piedi, mentre mettevo gli orecchini.

“Devo stare calma.” – mi ripetevo. Come se non fosse accaduto nulla. Nulla d’importante. O che meritasse un cenno d’imbarazzo. Cercavo di dargli a bere una certa indifferenza, quel distacco che può venire solo da una vicinanza che non ci tocca. Quando chi ci è vicino non può farci né bene, né male, perché del tutto indifferente.

Mi guardò un attimo. Sapeva bene di non potersi mai fidare di me. Di quello che dicevo o facevo.

Il nostro amore era stato sempre all’insegna della non fiducia. Bugiardi di professione, uno di fronte all’altra, nudi solo nella consapevolezza di non esserlo mai. Nella certezza che quello che dicevamo o facevamo si scollava a perfezione dai modelli dei nostri pensieri.

Continuava a fissarmi, mentre fumava. Con la solita aria di quando non mi prendeva sul serio. Con la solita aria di sempre. Aspettava solo che facessi la prima mossa. Paziente, come il cacciatore che attende la sua preda in silenzio. Sapeva bene che non potevo girare l’angolo. Non dinanzi al suo silenzio. Non ci ero mai riuscita.

Anche questa volta, non potei evitare di stare al gioco. E di fare la mia parte. La trappola era lì, ad attendermi. E non potei evitare di cadervi dentro.

Dovevo iniziare a sporcarmi le mani. Lasciarmi invischiare nella mia vita.

“Cosa, è banale?”.

“Il primato che voglio! Per la prima volta, voglio essere banale.”.

“Cosa intendi? Non capisco…”.

“Cosa c’è da capire? E’ semplice: non voglio essere lasciato. Come tutti gli altri. Non voglio fare eccezione, voglio essere banale. Voglio essere io, a lasciarti.”.

“Bene, fallo! Potevi dirlo prima, che era solo una questione di orgoglio ferito… Tanto io non ci tengo, è meglio così…”.

“No! Forse, non hai capito. Voglio essere io, a lasciarti!”.

“Ho capito! Fallo! Fallo pure!”.

“No! Non hai capito niente. Il come e il quando, lo decido io.”.

Mi guardava fisso negli occhi.

Stava per spegnere la sigaretta. Gliela sfilai dalle dita, mentre con l’altra mano mi ciondolavo nell’ultima collana che mi aveva regalato mia madre, un lungo filo di sfere di osso nero, sfaccettate e irregolari, come me. “E’ vittoriana!” – disse, di ritorno dall’ultimo viaggio a Londra, quando aprii il pacchetto che conteneva la sua ultima conquista. Avevo solo bisogno di qualche tiro, giusto un paio, per caricarmi della stessa intraprendenza di quell’epoca che portavo al collo, ciondolandomi. Solo qualche tiro, giusto un paio. Perché ci vuole davvero intraprendenza, per demolire in un solo istante ciò che si è sempre sognato.

Lui continuava a guardarmi dritto negli occhi. Come chi sta per stringere un patto e aspetta solo l’assenso dell’altra metà. Solo un mio sorriso, a firmare quel patto.

“Mi dispiace, ma questo non è possibile.” – gli risposi, alzandomi dal letto.

“E perché no?”. Sorrideva.

“Perché, per stare insieme, bisogna essere in due, a volerlo. Mi sembra chiaro, no?”.

“Certo. E non ne ho dubbi.”.

“Di cosa?”.

“Di volerlo. E che tu lo vuoi.”.

“Per quanto mi riguarda, mi sa che sei proprio fuori strada…”.

Cercai di tagliare corto, prima di incartarmi nella mia incapacità di sincronizzare i movimenti nei momenti di nervosismo, mentre facevo la spola tra il comodino e il cassettone in cerca del cellulare e continuavo a cercare la borsa, che era proprio lì, di fronte a me, sulla sedia, dove la buttavo di solito.

“Non credo proprio. Sei solo codarda.”.

“Solo perché non ti voglio più?”. Sorrisi con aria di sfida.

Ormai, avevo la borsa sulla spalla e il cellulare in borsa. Tutto il resto, non so dove. Ma avrei avuto modo e tempo di trovarlo, pensai. Potevo andare. Dovevo farlo. O non sarei più stata capace di chiudermi alle spalle la porta di una stanza che contenesse la sua presenza. Né di aprire quella dove la sua assenza mi avrebbe sommersa.

Non avevo mai lasciato nessuno, fino a lui. Non perché non mi fossi mai stancata di nessuno, prima che il nessuno di turno si stancasse di me. Anzi, ero stata sempre io, l’elemento volubile della coppia, quella che, all’improvviso e senza alcun motivo, non voleva più saperne. Eppure, non avevo mai lasciato nessuno.

Semplicemente, mi ero sempre lasciata lasciare. E non perché mi mancasse il coraggio o la forza di ferire. Non mi ero mai posta questo problema. E non me lo stavo ponendo neanche allora. Allora che ero certa, dentro di me, che avrei colpito dritto al cuore. E non solo al suo. Del resto, non poteva mancarmi il coraggio di fare qualcosa che facciamo tutti, ogni giorno, anche senza accorgercene. Far soffrire è comune, diffuso, banale. Più di quanto possiamo pensare. No. Non era per questo.

Semplicemente, mi ero sempre fatta lasciare, perché non avevo mai ritenuto valesse la pena fare. Muovere anche un solo dito per qualcosa che non ci interessa.

Fino ad allora, mi ero sempre solo messa in attesa. Ad aspettare che il nessuno di turno avesse interesse a disfarsi di me. Perché, per tutti i miei nessuno, non provai mai neppure questo interesse. Non avevo mai sentito il bisogno di lasciare qualcuno che, se c’era o no, per me era uguale.

Lui lo aveva capito prima di me.

“Magari non mi volessi più! Il guaio è che mi vuoi più che mai.”.

“Credi?”.

“Ne sono certo… E quello che più ti preoccupa è non sapere se durerà. O, almeno, se durerà abbastanza.”.

“E abbastanza per cosa? Sentiamo…”.

“Per averne abbastanza.”.

Rimasi in silenzio, con la borsa ancora addosso, a guardare fuori dalla finestra.

Mi affacciai sull’errore. Ed ebbi una visione nitida. Lui era lì, a un passo da me. E mi chiedeva di accorciare la distanza. Di restare. Mi chiedeva coraggio. E mi chiedeva. Mi chiedeva.

Fino ad allora, avevo sempre pensato che bastasse prevedere gli errori, per evitarli. Come vedere una nuvola in cielo, prima di uscire di casa, e mettere l’ombrello in borsa. Basta prevedere, pensavo, per non bagnarsi all’improvviso. E lasciarlo adesso era il mio ombrello in borsa. Per i giorni a venire, quelli di pioggia.

Non ho mai sopportato la pioggia. Mi ha sempre colta impreparata. Di sorpresa.

Ebbi la certezza che avevo sempre sbagliato – che, a volte, non basta prevedere un errore, per poterlo evitare – solo in quell’istante. Quando chiusi gli occhi e mi ci buttai dentro.

Mi voltai, poggiando a terra la borsa. A riposo.

Lui era lì, in silenzio. E mi chiedeva. Mi chiedeva.

Guardai in faccia l’errore. Mi chiedeva di farlo. Di non tirarmi indietro. D’iniziare a sbagliare.

E iniziai dalle scarpe. Togliendole.

E’ incredibile come, alle volte, proprio ciò che ti serve ad andare ti costringa a restare.

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