La resa dei conti

di

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Studiammo ogni singola mossa. Nulla fu lasciato al caso. Mi venne a trovare un martedì sera, facendosi precedere da un messaggio, lasciato nella mia cassetta delle lettere. Abitavo, allora, in una stradina buia e umida dei Lincoln’s Inn Fields.

Studiammo ogni singola mossa. Nulla fu lasciato al caso. Mi venne a trovare un martedì sera, facendosi precedere da un messaggio, lasciato nella mia cassetta delle lettere. Abitavo, allora, in una stradina buia e umida dei Lincoln’s Inn Fields. Ero appena uscito dal pub di Tommy Mappamondo (famoso per dare informazioni stradali non richieste, sempre sbagliate), ed ero piuttosto nervoso: stavo per rifilare una patacca di orologio a un turista medio-orientale (un coreano non troppo alto), per una cifra che mi avrebbe garantito qualche giorno di pasti caldi. Dal nulla, era spuntata la moglie del coreano, una lottatrice di sumo con la quale non era il caso di mettersi a discutere, e s’era portata via il marito ubriaco, urlandogli addosso frasi incomprensibili che mi avevano fatto rabbrividire.
– Hai bevuto poco, eh? – mi chiese Tommy, convinto che, diversamente, avrei trovato il cuore di affrontare l’armadio. A parole, s’intende.
– Conosco la strada di casa – risposi.
Il biglietto nella cassetta, impeccabilmente confezionato, recitava il disegno di uno steccato oltre il quale si librava un goffo “meow” accanto a una bara e, sotto, due numeri: “1” e “9”. Le sette di sera. Non feci a tempo ad aprire la porta di casa che mi ritrovai i suoi passi inconfondibili battere contro le scale di legno dell’ingresso.
– Sali ed entra – dissi rivolgendomi ai due puntini di luce fiammeggianti che spuntavano sotto un cappello di feltro. Obbedì. Si sedette con calma, dopo essersi guardato attorno.
– Vuoi qualcosa da bere? Ho solo qualche avanzo di whisky scozzese.
Annuì. Andai in camera da letto, dove avevo il mio piccolo scrittoio; trassi da un cassetto la mezza bottiglia e due bicchieri sudici. Versai e tornai da lui.
– Allora? Hai un piano?
Si abbassò il bavero del trench e, dopo una lunga pausa, tolse le mani dai guanti; ne infilò una in tasca e ne tirò fuori una tabacchiera. Si fece una sigaretta, la portò alla bocca e l’accese. Una lunga tirata, e mi fissò. Cazzo se aveva un piano!
L’idea, che toglieva il sonno a me e il senno a lui, ormai da molti anni, era quella di rendere giustizia ai suoi “Era una notte buia e tempestosa…” respinti al mittente. Ne avevamo fantasticato più volte, immaginando supplizi da protomartire cristiano per quel maledetto mentegatto che era il direttore editoriale della Rivista. Sospingevamo spesso questi propositi davanti a una birra, che riuscivamo a sgattaiolare dalle mani prive di memoria, non solo stradale, di Tommy Mappamondo. Con parole lente e precise mi partecipò quanto aveva architettato: si trattava di mettere al rogo i locali della Rivista. Nessuno ci avrebbe mai fatto entrare nel prestigioso edificio di Tottenham Court Road, perciò la sua idea, semplice e geniale come un tramezzino al cetriolo, era quella di aspettare il Carnevale: io avrei dovuto travestirmi da palo, per segnalare eventuali presenze sospette e garantire la fuga; lui si sarebbe messo addosso una scatola enorme, che avremmo disegnato in modo da rassomigliare a un libro. Così, nessun sorvegliante avrebbe mai sospettato nulla, e sarebbe stato sufficiente un fiammifero per attuare la nostra giusta vendetta. Restava da decidere quale libro raffigurare, ma fin da subito non fummo d’accordo. Ci demmo appuntamento da Tommy, la sera dopo, per sciogliere l’ultimo dettaglio. Spense la sigaretta nel bicchiere di whisky, e se ne andò.
Il giorno appresso entrò nel pub quasi di nascosto, fece un cenno a Tom e si sedette al tavolo dove lo stavo aspettando da qualche minuto. Mi ero arrovellato tutta la notte sulla scelta del titolo, concludendo, la mattina presto e solo per l’avidità di prendere sonno, per un libro di cucina. Il solo con una trama degna di entrare in quell’opificio di luoghi comuni letterari che era la Rivista. Capii subito che non aveva la minima intenzione di travestirsi da libro di cucina. “Quei libri non camminano da soli!”, sembrava ripetermi silenziosamente, indugiando di tanto in tanto fra il boccale e la tabacchiera. Ne convenni. Ma quali alternative avevamo? Tirò fuori dal taschino della giacca un foglietto di carta. C’era scritto “Moby Dick”.
– Impossibile! – cercai di ribattere. – Ti scopriranno non appena metterai il naso fuori di casa.
Non disse nulla. Trasse dallo stesso taschino un altro foglietto: “Le anime morte”.
– Questa poi!
Dopo due ore di discussioni serrate e di foglietti, concordammo di dipingere il cartone di bianco, con sopra una casa padronale avvolta nell’edera e la scritta, pienamente percettibile, “Casa desolata”. Eravamo fieri di quella scelta. Studiata, snervante, ossessiva, come le ceneri che sarebbero rimaste di tutta la carta inutile ammassata nei locali della Rivista. L’appuntamento era per il giorno di martedì grasso, alle sei del pomeriggio, nel giardino dietro al pub di Tom Mappamondo.
Arrivammo con i travestimenti e subito ci rendemmo conto che c’era una piccola crepa nel piano: Tom ci avrebbe forse notati, perché nel giardino del pub teneva i fusti vuoti delle birre che, con ritmo almeno giornaliero, doveva sostituire con quelli pieni. In effetti, non passarono che pochi secondi e fu lo stesso Tom a toglierci ogni dubbio:
– Ma dove caspita andate con quelle maschere?! – disse uscendo dalla porticina sudicia con un fusto attaccato a ciascuna mano. Ci fu uno sguardo d’intesa: fulmineo, acchiappai Tom da dietro e, mentre il mio compare lo teneva fermo, gli legai le mani e poi lo colpii con il mio travestimento da palo. La sua testa emise il caratteristico bonk del vuoto torricelliano. Lo mettemmo in una cassa con dei fori, che portai di corsa alla stazione di Charing Cross, dove furtivamente riuscii a imbarcarla sul treno delle 18.23 per Lancaster. Tom ci avrebbe messo almeno un mese solo per capire dove si trovava: c’era tutto il tempo per attuare il piano e scappare in qualche paese dove poter chiedere asilo letterario.
Mi piazzai all’angolo di Tottenham Court Road, dove arrivammo senza alcun problema, mischiati a una folla sonante di vampiri, cowboys, politici, coriandoli, draghi e poliziotti divertiti. Aspettai che il mio amico S. superasse la guardia sonnolenta di un sorvegliante prossimo alla pensione, al quale diede a bere di essere un libro che doveva essere recensito sulle pagine della Rivista. Lo lasciai e corsi nel retro dell’edificio vittoriano che di lì a poco doveva bruciare come un eretico su una pira; avevo preparato, il giorno prima, un paio di materassi che dovevano attutire il colpo, una volta che l’inquisitore, completato il suo gravoso uffizio, si sarebbe gettato da una finestra.
Attesi lunghi minuti, mentre alle mie spalle risuonavano le canzoni, le voci, i rumori di un corteo festante. Lo vidi apparire, improvvisamente, dietro a una tenda, al secondo piano dell’edificio. Spostai i materassi sotto quella finestra, che si aprì un attimo dopo, e lo vidi gettarsi a peso morto. Riuscì a centrare un bidone della spazzatura, sconciandosi un buon numero di ossa. Scavai per riportarlo alla luce e, quando emerse imbrattato di pomodori, istintivamente gli chiesi se si era fatto molto male.
– Ho dimenticato i fiammiferi – rispose ricadendo nella mondezza.

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