E’ sempre difficile raccontare una storia: bisogna saper osservare il mondo, intuire cosa nascondono un luogo, un gesto, una parola; avvicinarsi alla realtà in punta di piedi e poi, fare una scelta. Non è detto che sia la scelta più ovvia, né, tantomeno, la più semplice. Ma per raccontare delle buone storie spesso bisogna essere coraggiosi e saper percorrere strade che pochi (o forse nessuno), hanno voluto percorrere. E in un’epoca malata di quell’ ipervisività profeticamente teorizzata da McLuhan, sottrarre l’immagine al racconto, è puro coraggio. Docusound, nato dalla collaborazione tra il regista Matteo Bellizzi, Fabrizia Galvagno, Andrea Vaccari e l’Unione italiana ciechi e ipovedenti del Piemonte, “è un contenitore di storie radiofoniche, di storie sonore”. Precisa Bellizzi:“Noi l’abbiamo chiamato audio racconto della realtà, un’espressione che mi piace molto perché mette al centro la parola racconto, che per noi è molto importante.” Non si guarda nulla, ma si ascolta tutto. Più di cento anni di cinema, sessanta di televisione e abbiamo perso la capacità di sentire: eppure è una istinto innato, che affonda le radici nell’oralità della Storia, nei racconti epici, nell’infanzia fatta di storie raccontate prima di dormire, nella radio. “Il racconto sonoro è un linguaggio duttile” sottolinea Bellizzi “che si riesce a sposare con tante tecnologie diverse, soprattutto con l’innovazione, con gli smartphones e altro. La radio è destinata a diventare qualcosa di più di quello che è attualmente: è uno strumento che negli anni non ha fatto degli scatti in avanti così rivoluzionari come ha fatto, ad esempio la televisione, che diventa sempre più interattiva, sempre più a misura di epoca. La radio, invece, si basa sul principio antico di una voce che passa attraverso delle onde e arriva agli ascoltatori”.
Basta un rumore, un respiro, un’inclinazione della voce e si è subito dentro un mondo. Ci sono voluti secoli per affinare lo sguardo, ma bastano pochi minuti per rimettersi in ascolto: con le storie di Docusound nessuno schermo ci protegge, nessun colore ci distrae. Siamo solo noi e i suoni di una cucina, di una città, di un carcere. Un’eccezione per chi è abituato a guardare voracemente ogni cosa, la quotidianità per chi non può vedere. “L’aneddoto che raccontiamo sempre riguarda il momento in cui ci si scambiava un po’ di notizie con i ragazzi dell’unione ciechi, che ci chiedevano cosa facevamo: noi rispondevamo – i documentaristi – . Ovviamente c’era la volontà di condividere le esperienze: con alcuni di loro abbiamo visto dei documentari che avevo prodotto e mi rendevo conto che c’era questo forte problema della non traducibilità di certi momenti per il mondo sonoro, per il loro mondo. Alla fine dell’ascolto di questi documentari video abbiamo pensato potesse essere interessante pensare a dei racconti già di nascita sonori. In più abbiamo detto”perché non imparate a farli voi?” Abbiamo cominciato, ancor prima di Docusound, ad incontrarci con questi ragazzi e a fare delle prove, delle registrazioni per vedere se fosse possibile costruire un racconto della realtà solo con i suoni. Loro sapevano benissimo che si sarebbe potuto fare perché tutto il loro mondo, la loro vita è dentro i suoni, tutta la loro comunicazione è sonora e sensibile. Noi invece dovevamo imparare ed è stata la scoperta di un mondo: per noi il suono era gregario del video“. Nessuna immagine, dunque: solo suoni, parole, rumori, musiche. E qualunque cosa l’orecchio umano riesca a percepire. Si spinge Play e in un attimo ci si ritrova immersi in una realtà diversa, apparentemente inaccessibile, fatta di storie multiformi, di luoghi inesplorati, di gente incontrata per caso, che ha mille cose da dire, da ricordare. “Il nostro filo rosso, come documentaristi, sono le persone, le storie e in più la soggettività che cerchiamo di mettere in gioco: non essendo giornalisti, non avendo una formazione giornalistica, puntiamo molto sulla prospettiva, sul punto di vista, raccontare storie con una chiave di lettura molto precisa, che spesso è la chiave di lettura dell’autore, oppure del personaggio che ti porta a scoprire una realtà”. Ma tra tante storie raccontate ce n’è una che è rimasta nel cuore più delle altre: ” Io personalmente direi il carcere minorile. Per me è stato l’ingresso in una realtà che diversamente non avrei mai approcciato. In questo caso è stato un ingresso veramente in punta di piedi, molto fluido, molto disteso nel tempo: ho avuto modo di passare molto tempo con i ragazzi. In più, l’anno scorso abbiamo prodotto Radioferrante, la prima webradio all’interno di un carcere minorile. E’ stato un percorso lungo.Se mi metto a guardarlo mi sembra un viaggio molto ricco, fatto di grandi tappe: è stata la prima volta in cui la ricchezza del repertorio umano tradotto in suoni mi è sembrata anche superiore a certe ricchezze che avevo ottenuto con l’immagine”.
Sì, raccontare storie è sempre difficile, ma Docusound ci riesce benissimo.