Nella stanza dell’hotel c’è silenzio assoluto, non arriva neanche il rumore della pioggia dietro i vetri.
Si respira solo l’emozione, se ne sentirebbe il rumore se l’avesse, dei pochissimi giornalisti a cui è concesso il privilegio di incontrare Daniel Day Lewis: il presidente Abraham Lincoln di cui il film di Stephen Spielberg racconta gli ultimi anni di vita.
È una bella e rara occasione questa che viene loro offerta: ognuno lo incontrerà da solo e ci sarà tempo e agio di parlare.
Un palpito di attesa finché la porta della stanza si apre e Daniel Day Lewis entra con il passo svelto e il sorriso aperto. Tende la mano come un padrone di casa che si scusi per aver fatto attendere il suo ospite troppo a lungo.
Nessun rumore verrà a disturbare l’incontro, la sua assistente ha già predisposto la seduta: niente poltrone o divani in cui sprofondare. Ma una sedia dallo schienale rigido dove Daniel Day Lewis si siede sollecito ed insieme guardingo, concentrato.
Se in America ha già risposto tante volte alle domande che gli vengono fatte, non lo dà a vedere.
Fissa lo sguardo sul suo interlocutore, come se dal suo viso traesse indicazioni sulla vera natura della domanda, poi nel rispondere rivolge lo sguardo dentro di sé.
Il suo corpo slanciato, elegante nei pantaloni blu e camicia grigio scuro, sembra contenere una vastità di mondo di cui le sue parole potranno rimandare solo un’eco. Quel mondo interiore costruito negli anni emana con forza da dentro di lui. Nonostante la cordialità ed il sorriso c’è un’aura quasi sacra che lo circonda e lo protegge.
Sono forse i due premi Oscar, è il Golden Globe appena vinto, sono le voci che circolano sul suo conto, o la sua eccentricità indefinibile che però traspare da ogni dettaglio: dallo sguardo che posa attorno, come un radar azzurro che scandagli, dal riso che sembra salirgli su dalle viscere e scuotergli il corpo prima di uscire dalle labbra. O la cresta dei capelli alla Samuel Beckett.
O il suo inglese divino che suona come una musica nelle nostre orecchie straniere.
O forse è il personaggio, Abraham Lincoln che ancora alligna dentro di lui.
E di Lincoln, del suo personaggio, gli chiedono.
“Lei ha rifiutato a lungo il ruolo che Spielberg le offriva. Cosa l’ha spinta poi ad accettarlo?”
Gli occhi azzurri sono rimasti fissi sull’interlocutore e ora cercano un punto, qualcosa dentro di lui dove poggiarsi.
“Sentivo di non essere adatto. Non ero sicuro che fosse un’impresa possibile. In parte dipendeva anche dalla sceneggiatura iniziale. Molto vasta. Mi sentivo intimidito, come un bambino, alla presenza di Lincoln. E nel nostro lavoro questo non va bene. Bisogna essere audaci.
Poi è successo qualcosa: ho sentito dentro l’urgenza di dare vita a quel personaggio. Per ogni ruolo che interpreto devo sentire una spinta. Un’attrazione gravitazionale. E non è una cosa che mi succeda spesso.”
Nel suo sorriso c’è qualcosa di impacciato ed insieme di risoluto. Come chi è costretto a spiegare una verità fin troppo ovvia.
Lo dirà anche in seguito quando gli chiederanno: “Perché tanta attesa tra un film e un altro? Sappiamo che ha una relazione difficile con il suo mestiere”
Lo sgomento di Daniel Day Lewis, da impeccabile inglese, si manifesta solo nel corruccio dello sguardo stupito.
“Non ho affatto una relazione difficile con il mio mestiere. Semplicemente tra un ruolo e l’altro devo ricaricarmi e tornare a contatto con la vita. A voi può sembrare che io lavori e poi scompaia, ma io non scompaio mai a me stesso. Se facessi un film dopo l’altro cosa avrei da offrire? Uno impara dal lavoro interno che fa su se stesso. Se non ci fossero pause, a quale conoscenza del mondo attingerei come attore?”
Ogni personaggio interpretato resta dentro di lui e occorre del tempo per metterlo da parte.
“Posso dedicare due anni e mezzo e anche tre ad ogni lavoro. Non sento la pressione del tempo. Purché qualcosa meriti la pena non importa il tempo che richiede. Se la curiosità è viva vuol dire che c’è ancora lavoro da fare.
Su questo mi sono confrontato con Stephen (Spielberg) e anche per lui è lo stesso.
Quando finisco un film sento ancora dentro un enorme appetito. Mi sembra strano che mi dicano: ecco ora abbiamo finito. Ed è bene che sia così, che ci sia ancora fame di sapere, e non subentri mai la noia.”
Al personaggio di Lincoln ha cominciato a lavorare un anno prima dell’inizio delle riprese.
“Ma avrei potuto prepararmi ancora per 5 anni” dice ridendo. “Puoi lavorare vent’anni e non essere certo di riuscire a fare ciò che vuoi. Ho letto tantissimo su Abraham Lincoln e ad un certo punto ho capito che era un uomo accessibile. Che era possibile arrivare a lui”.
“E quali tratti in comune ha scoperto di avere con il suo personaggio?”
Daniel Day Lewis si ritrae.
“Sarebbe davvero presentuoso da parte mia tracciare delle somiglianze. Per ogni personaggio, all’inizio del lavoro, cerco di individuare delle affinità, delle zone comuni. Quindi devo averlo fatto anche per Lincoln, ma ora l’ho dimenticato” dice ridendo.
La giornalista incalza. Suvvia qualcosa ci sarà anche di negativo.
Daniel Day Lewis si presta a quel gioco improvviso.
“Forse il senso dell’ironia…” azzarda.
“Forse anche… il silenzio?” suggerisce la giornalista.
“D’accordo il silenzio.” annuisce Day Lewis “La capacità di riflessione, certo, ma io non possiedo la sua enorme capacità logica”.
“E la solitudine?” Rilancia la giornalista
“D’accordo, la solitudine” dice lui. E subito aggiunge “E anche che fosse padre di figli maschi”.
Qualcosa di Lincoln c’è in questa stanza. Qualcosa di inafferrabile nell’atmosfera. Come se fuori della porta non ci fossero agenti e assistenti, ma consiglieri e vice presidenti e i giornalisti fossero i tanti questuanti che Lincoln riceveva e a cui elargiva le sue storie, sorta di metafore.
“Lincoln era un grande narratore ed io non lo sono. Però ho un lato irlandese e l’Irlanda è la terra delle storie. Lincoln raccontava storie illustrative. Avevano sempre uno scopo. A volte servivano a divertire, altre volte erano un diversivo. La gente si recava da lui in udienza, ascoltava le sue storie e quando se ne andava si accorgeva di non aver avuto tempo di chiedere ciò che era venuta a chiedere” – sorride malizioso Daniel Day Lewis.
E con orgoglio, pieno di ammirazione per l’abilità e l’intelligenza sublime del suo personaggio. Le sue parole rivelano l’appetito, la fame di Lincoln che ancora lo possiede. E lo studio accurato e la ricerca a fondo.
“Lincoln era un uomo di grandissima umanità. Era un uomo molto ambizioso e allo stesso tempo un padre devoto. Una cosa insolita per i tempi e insolita in parte anche adesso.
“È difficile raccontare come preparo un personaggio” ha detto poco fa. “C’è una parte di documentazione, di lettura, di contemplazione. Una parte oggettiva e poi d’un tratto si varca una linea misteriosa, indefinibile, e si entra nella zona soggettiva, si entra nell’inconscio dell’altro”. Lo ha detto con umiltà sapendo che è impossibile arrivare a capire.
“Lincoln era incapace di esercitare l’autorità di padre. Incapace di dare disciplina. Il figlio piccolo, lo vediamo nel film, era libero di scorrazzare dove voleva. Creava il caos alla Casa Bianca”.
Daniel Day Lewis sorride per qualcosa che solo lui e Lincoln possono sapere.
“Love makes the links that chain the child to the father.” In questo lui credeva: solo l’amore crea un vincolo indissolubile tra padri e figli. Lincoln credeva che il suo compito di padre fosse quello di amare. Aveva perso quell’opportunità con il primo figlio, a causa del lavoro, e non voleva perderla di nuovo”
Nel corso delle interviste ricorre spesso il riferimento ai tre figli che vivono con lui a New York: il primogenito nato dalla relazione con Isabella Adjani e i due figli avuti con la moglie Rebecca Miller. Sarebbe bello tornare in Italia, come nell’anno trascorso a Firenze da apprendista ciabattino, ma ora i figli studiano e non è possibile sradicarli. I figli vanno protetti dalla celebrità del padre. E dalle voci create dalla stampa.
“Ecco vede” dice Day Lewis d’un tratto “Avevo letto tante volte la sceneggiatura di In the name of the father e non avevo trovato qualcosa che mi spingesse ad accettare il parte che mi offrivano.
Poi d’un tratto quella frase “This is my name” mi è arrivata al cuore. È risuonata dentro di me. Per quella frase ho accettato la parte.
Quella frase esprimeva il bisogno di proteggere il proprio nome, la propria reputazione. Una cosa così fragile la reputazione… D’un tratto appaiono delle bugie sulla stampa e capisci che quelle bugie saranno per sempre, per sempre legate al tuo nome e a quello dei tuoi figli.”
Si intravede un dolore sincero e profondo nei suoi occhi mentre parla di quelle bugie, riferite forse all’Adjani o a chissà quale parte della sua vita. Solo una giornalista si avventura a mettere il piede nel territorio del privato e il viso di Daniel Day Lewis si irrigidisce. C’è uno sgomento che neppure l’educazione può mascherare. Ci sono cose di cui semplicemente non si parla.
Come ad esempio dell’anno trascorso a Firenze.
“È stato un anno bellissimo. Io e mia moglie lo ricordiamo spesso. Ma non ne parlo mai”. Sorride, tace poi subito aggiunge: “E poi cosa è possibile davvero sapere di me? Pensa che la stampa può sapere qualcosa? Di qualcuno? Possiamo sperare che ci conoscano i nostri amici, i nostri parenti. Ma per il resto cosa si può sapere?”
Per un istante c’è una sorta di furia trattenuta nella sua voce. Una furia lontana, antica. Poi torna a sorridere. Gli piacciono le domande dei giornalisti italiani soprattutto delle donne e abbassa la guardia.
“Avevo paura certo che la mia interpretazione potesse deludere. Cosa c’entro io nato e cresciuto in Inghilterra con il presidente Lincoln? Avevo paura di dissacrare un mito americano. Io devo tanto all’America. Ho una moglie americana. Tre figli che studiano in America. In un lavoro creativo ogni volta che fai qualcosa è come se lo facessi per la prima volta. E allora torna la paura. Per un attore è sempre la prima volta.”
Di Lincoln non finirebbe mai di parlare.
“Avevo paura sì, ma poi ho scoperto tante cose. Lincoln è stato accusato di tutto. Di essere un razzista ed un grande emancipatore. Ha usato la corruzione per giungere ad un fine più alto. In lui coesistevano qualità contrapposte. Non era un razzista ma era un uomo del suo tempo, determinato dal suo contesto. Il sistema creato dai padri fondatori aveva già in sè i germi della distruzione: la questione della schiavitù era stata messa a tacere per evitare i conflitti interni e fare fronte comune contro gli inglesi. Speravano che un giorno la questione si sarebbe risolta da sola. Ma certo non poteva essere così.”
Gli chiedono “Lincoln appare come un grande statista, ma dal film non esce certo il ritratto di un santo”
“Certo. E scoprire che fosse un essere umano pieno di conflitti me lo ha reso più vicino.
Sapeva chi era. Conosceva se stesso. La self knowledge è una delle qualità più interessanti per me di un essere umano. E questa qualità inoltre gli permetteva di non giudicare. E credo che sia importante non farlo, soprattutto quando si ha molta autorità è importante non giudicare in modo troppo duro”.
E ora il tempo si è concluso.
È atteso in Senato insieme a Spielberg.
“Come è la sede del Senato? È un bel posto?” – chiede all’ultima giornalista lui che ama l’italia ed è felice di questa opportunità.
“Sì è un bel posto” – risponde la giornalista mentre rimette a posto le sue cose e come parlando tra sè aggiunge “La gente che c’è dentro invece purtroppo no, non è bella per niente.”
E Daniel Day Lewis si dimentica per un istante di dove è. Della stanza protetta e ovattata. Della fretta e dell’appuntamento. E ride. Quel suo riso che sale da dentro e lo scuote tutto. Un riso festoso, sincero, pieno di complicità.
La stessa risata di Lincoln. Quando raccontava le sue storie, per proteggere se stesso e gli altri dalla stupidità degli uomini.