Non ho neanche un’Adriana

di

Data

– Che cazzo ci sto a fare qua sopra? – pensò Daniel, mezzo accecato dai flash e dalle urla della folla. – Mi sono scelto proprio un bel modo...

– Che cazzo ci sto a fare qua sopra? –  pensò Daniel, mezzo accecato dai flash e dalle urla della folla. – Mi sono scelto proprio un bel modo di merda per lasciare questo schifo di mondo.

Poi gli venne in mente che era proprio un pensiero da western di bassa lega, e sorrise riaprendo le ferite sul labbro e mostrando i denti macchiati di sangue. Sputò nella tazza e bevve il fondo di un energy drink caldo e zuccheroso.

La testa ronzava di continuo e le immagini si facevano via via più sfuocate, con il passare dei minuti. Quella bestiaccia nonché campione in carica invece, sembrava fresca come una rosa e non mostrava alcun segno di cedimento.

– Perché… credevo davvero di poterlo abbattere quando ho accettato l’ingaggio? Non ero d’accordo col mio agente che bastava che resistessi quattro round prima di finire al tappeto, cercando di non farmi ridurre la faccia in poltiglia? Ma di round ne sono già passati sei, io sono inspiegabilmente ancora in piedi e il mio avversario sembra parecchio contrariato per aver dovuto già combattere due round in più di quelli stabiliti. Quindi, che cazzo ci sto a fare ancora qua sopra? Tendenze suicide forse?

Un’improvvisa fitta alla tempia destra interruppe il flusso dei suoi pensieri, riportandolo sul ring, mente e corpo. In quel momento sentì in lontananza il gong e fece due passi verso il centro per iniziare il settimo round…

 

Quando si risvegliò dallo stato di semi-incoscienza, ci mise alcuni secondi per rendersi conto che era seduto sul suo sgabello all’angolo, il sopracciglio  destro cadente come un sipario sull’occhio pesto e un ronzio sempre più forte nel cervello. Non era stato ancora atterrato quindi, niente male.. La voce del suo maestro gli giunse alla spalle e si voltò lentamente.

– Cazzo, Denny, guarda come sei ridotto, al posto della faccia hai un enorme bistecca al sangue e se continui così ti farai ammazzare. Abbiamo già raggiunto il nostro obiettivo, non complicare le cose. Posso gettare la spugna in qualsiasi momento, lo sai.

A quelle parole si riscosse, rifiutò con decisione scuotendo la testa e si voltò nuovamente verso il ring. Il samoano lo stava fissando immobile come una statua. Gli unici segni di vita erano i rivoli di sudore che gli scorrevano lungo il petto vigoroso e il fuoco che gli bruciava negli occhi.

– Bella cazzata, Denny. – riflettè con finto distacco. – E adesso come la tiriamo giù la montagna?! Com’era quel detto su Maometto che sfida una montagna? Boh, vabbè, tanto non ho speranze e poi come Rocky non valgo una cicca, non ho neanche un’Adriana a tifare per me. Per una volta potrei dar ascolto al maestro, finirla qui e tornare a casa quasi tutto intero con le tasche piene.

Mentre stava per voltarsi nuovamente per fare un cenno di resa al maestro sentì il gong, seguito dal rumore sordo dei pesanti passi della bestia, e meccanicamente si alzò in piedi, sputò, e alzò la guardia, cercando di dimostrare sicurezza e determinazione…

 

 

All’ottavo round Daniel andò al tappeto un paio di volte, ma riuscì sempre ad alzarsi in tempo per proseguire l’incontro. Gli occhi erano talmente gonfi da aprirsi a malapena e non riusciva a mantenere la guardia alta per lungo tempo. Era in trance, non sentiva quasi più dolore ed colpiva senza grinta. Il maestro se ne accorse e si convinse che non sarebbe mai arrivato vivo alla fine dell’incontro.

– Brutto figlio di puttana! Che cosa credi di dimostrare così!? Hai perso, è finita! Non vedi che ti sta massacrando? Avrai altre occasioni per rifarti! Non buttare via tutto, vieni giù e torniamo a casa.

– Pfanculo, maefstro… – rispose Daniel al termine del round, con la bocca piena di una poltiglia melmosa di sangue, saliva e gengive. – Non è affatto finita, io posso batterlo. È la mia grande occasione, posso sconfiggere quell’animale. Me lo sento!

Questo però lo pensò e basta, per evitare di sputacchiare su tutta la prima fila.

 

Ma durante il nono round le sorti dell’incontro sembrarono davvero cambiare. Daniel combatteva come chi non ha più nulla da perdere, ignorava i colpi ricevuti e ne metteva a segno dei ganci veloci e precisi. Il samoano fu colto di sorpresa e, prima che se ne potesse rendere conto, il round finì e si ritrovò a sedere sullo sgabello con un taglio sullo zigomo e il fiato corto per lo sforzo di non cedere.

– Finalmente un po’ di sangue su quel faccione nero. Non fai più tanto il gradasso, eh bestione? Ormai è fatta, gli ho messo paura , ora lo coglierò di sorpresa e lo manderò al tappeto… definitivamente! Vaffanculo ai soldi e vaffanculo a te samoano! Non hai fatto i conti con l’oste, prima di sederti a questa mano. – Si rese conto di continuare a formulare cliché di basso livello e per di più sbagliati, e allora si mandò affanculo da solo con tutti i cliché al seguito.

 

Quando risuonò il gong, dall’angolo destro del ring si alzò un’altra persona, fresco nel corpo e forte nello spirito, con lo stesso fuoco negli occhi che aveva spento nell’avversario: insomma, un pugile vero. Fissò il samoano dritto negli occhi e gli promise telepaticamente che gli avrebbe fatto assaggiare il tappeto entro pochi minuti. Il decimo round iniziò con un’esplosione di colpi da ambo le parti, finte e diretti a velocità impressionanti, attacchi e contrattacchi forti e decisi. Un’intensità paragonabile a un Barrera-Morales o ad un Holyfield-Bowe.

Poi, a metà del round, Daniel costrinse il samoano in un angolo, tempestandolo di cazzotti e bucando continuamente la sua guardia, sfogando tutta la sua rabbia e sete di vittoria sul viso e sul corpo del suo avversario. E improvvisamente vide il varco che stava aspettando, uno spazio aperto che scopriva il mento sul laro sinistro e Daniel, senza indugio, tirò con tutta l’energia che gli era rimasta, lanciando un urlo altissimo mentre scaricava il montante.

 

Quando riaprì gli occhi, Daniel fu accecato da una forte luce bianca, sentì un forte odore di alcool nelle narici e si accorse di essere disteso su un lettino di ospedale, troppo debole per muoversi o per girare la testa. Non appesa si riabituò alla luce, vide il suo maestro in piedi accanto al letto, la barba incolta e gli occhi umidi. Era la prima volta che il maestro non aveva le sopracciglia inarcate e lo sguardo torvo e gli venne da ridere.

– Sei proprio un gran figlio di puttana, Denny… – si riprese i maestro tornando serio e minaccioso. – E hai la pellaccia più dura che io abbia mai visto… un fortunatissimo figlio di puttana.

– Ho vinto? – sussurrò Denny, tossendo e contraendosi per il dolore.

– Cristo Denny, sei stato in coma due settimane, quell’animale ti ha aperto la testa come un melone e la prima cosa che pensi quando ti svegli è se hai vinto quel dannano incontro? Cosa cazzo ti gira in quel cervello ammaccato?

– Ho vinto, maestro?

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