Christoph Waltz ha occhi azzurri che ammiccano vivissimi dietro gli occhiali dalla montatura nera. Registrano e assorbono ogni parola, ogni gesto, e insieme mantengono la distanza.
Occhi di mago che conservano curiosità e meraviglia dietro un velo di distacco e di ironia.
Alla conferenza stampa a Roma di Django Unchained Christoph Waltz sbarbato, rasato, minuto, giacca e pantaloni grigi e camica a quadretti azzurri, irriconoscibile rispetto al capelluto personaggio del Dr Schultz che ha portato sullo schermo, è seduto alla destra di Quentin Tarantino che, nella sua giacca di pelle nera, troneggia gigantesco al suo fianco.
Ciò che più ricorderemo di questa conferenza stampa saranno gli occhi dietro la montatura nera che si sollevano obliqui e complici verso Tarantino che gesticola e ride e si profonde nelle sue infinite e appassionate discettazioni sui film del passato, sugli spaghetti western e i rari film americani sulla schiavitù, davanti ad un pubblico che ascolta trattenendo il fiato travolto da cotanta raffica di parole.
E mentre Quentin Tarantino parla quegli occhi azzurri calmi, pacati sembrano guidarlo, contenerlo.
Tra i due, si sa, è nata una grande amicizia e una profonda intesa professionale dopo la loro collaborazione per Unglorious basterds (Bastardi senza gloria).
Così diversi sono che più non si potrebbe: americano, smisurato, irruento, immenso l’uno ed europeo, compassato, minuto e sognatore l’altro eppure uguali nell’infinita meraviglia, nell’avidità con cui i loro occhi catturano il mondo, nella passione per le storie ed i loro segreti.
Ma ora in conferenza stampa pur essendo l’eccentrica figura del Dr Schultz ex dentista, cacciatore di taglie, sorta di filosofo europeo, liberatore di schiavi nell’ America ante guerra di secessione, il personaggio più caro, figura centrale ed indimenticabile dell’ultimo film di Tarantino, le domande sono tutte per gli attori di colore Samuel L. Jackson, Jamie Foxx, l’agguerrita Kerry Washington: domande politiche sul perdurare del razzismo in America, sulla capacità dell’America di guardare al proprio passato.
Gli attori, diplomatici, danno risposte che non dicono nulla.
Il razzismo non è appannaggio esclusivo degli Stati Uniti, vedasi i cori razzisti contro i giocatori di colore del Milan, la violenza che dilaga is a very sad thing.
Le conferenze stampa, si sa, sono così.
Dicono e non dicono. Vaghe allusioni. Non c’è modo di approfondire le infinite sottigliezze del film.
Ciò che è certo è che l’Italia è la prima tappa del loro Grand Tour europeo e regista e attori sono pieni di energia, ancora curiosi di sapere cosa è piaciuto al pubblico e di ascoltarne le domande.
La stanchezza, la noia, la ripetività verranno solo dopo. Il regista e gli attori di colore si lanciano in mille battute, allusioni a un mondo di riferimenti tutto americano. Tarantino si presta a discettare di somiglianze e differenze tra i due Sergios (Leone e Corbucci) e nell’aria c’è un’ilarità, un’allegria, un’energia vitale che supplisce a suo modo alla mancanza di contenuto. Qualcuno chiede al regista se i suoi attori hanno collaborato ai dialoghi o se invece non c’è stato spazio per l’improvvisazione e Tarantino con quel suo viso mobile da fumetto, gli occhi neri splancati, la mascella forte che si protende in una smorfia di stupore esclama tra le risate del pubblico:
“In genere gli attori non vogliono venire a lavorare con me per cambiare i miei dialoghi, generalmente vogliono venire sul mio set per pronunciare le mie battute!”
Christoph Walzt, nel suo perfetto inglese da austriaco in cui si ravvisa talvolta l’intonazione di Woody Allen chiarisce che “Le sceneggiature di Quentin sono considerate dagli attori alla stregua dei testi shakespeariani, delle opere di Cechov. Da recitare alla lettera”
Nei suoi occhi azzurri c’è ora una vaghezza, un’astrazione. Come nel film Django Unchained anche qui, anche in questo momento lui è l’unico europeo. Lo straniero in un mondo di americani dove resta al margine.
Segue il pranzo nel Roof Garden dell’ Hotel Hasserl, un miracolo di luce in un cielo di gennaio che sa di primavera, una vista che allarga il cuore, riempie gli occhi. E nel ristorante sospeso nel cielo, sulla gloria passata di Roma, sulle sue antiche storie di schiavi, eccheggia la risata possente di Tarantino, riverbera sui vetri, e gli occhi azzuri dietro la montatura scura si dilatano pieni di incanto per questa Roma bagnata di sole.
Ma a quell’incanto si è presto sottratti. Si torna alle luci artificiali.
Iniziano le interviste individuali e Christoph Waltz è ora seduto nel set televisivo allestito in una delle stanze dell’albergo. Sembra più giovane, più fanciullo, con questo viso rasato, rispetto all’attore che abbiamo conosciuto a Venezia qualche anno fa per la presentazione di Carnage : più elfo dei boschi. Sembra esservi in lui una qualità camaleontica che gli permette di assorbire le qualità dei personaggi che porta in scena o sul palco. Come se il Tempo lo modellasse lentamente e costantemente nella creatura che da ultimo forse sarà: la summa di tutti i suoi ruoli.
E di tempo e del suo ruolo parla Waltz quando gli chiedono come è stato lavorare la seconda volta con Tarantino soprattutto dopo aver vinto l’Oscar come miglior attore non protagonista nell’impareggiabile ruolo di Hans Landa cacciatore di nazisti.
“Il tempo” risponde “è un fattore importante in ogni relazione. Il tempo ci permette di capire cosa muove una persona, cosa la attiva, e la motiva. Il tempo e le diverse circostanze. Per Bastardi senza gloria giravamo a Berlino, quindi eravamo nel mio territorio, e le persone finiscono sempre per adattarsi ai luoghi, ora abbiamo girato in America sul terreno di Quentin e le cose cambiano. Per questo viaggiare è importante, da un luogo a un altro la prospettiva cambia radicalmente. Si sente dire spesso che nel fondo siamo tutti uguali e che il mondo è un paese, ma non è così.”
Si profonde in un sorriso pieno di ironia.
“Siamo uguali in un fondo molto elementare, molto di base, per il resto le differenze sono enormi.”
“Come è stato essere l’unico attore europeo in un mondo americano?”
“Era importante che fossi io l’unico europeo e su questo ho insistito con Quentin. Il mio personaggio offre la prospettiva esterna che permette di guardare al tema della schiavitù da una angolazione diversa.
Solo vedendo le cose da una certa distanza si riesce a coglierle davvero per come sono. Se lei si preme la palma della mano sulla punta del naso” Dice facendo il gesto “Cosa vede? Una massa informe, ma se invece la allontana” E la solleva in aria. “Allora ne coglie tutto il contorno. Lo straniero, il Dr Schultz non sa cosa sia la schiavitù e lo chiede (in uno dei passaggi più esilaranti, nella prima parte del film dove il personaggio del Dr Schultz primeggia ndr) all’ex schiavo.
Da un punto di vista narrativo è un mezzo potentissimo. L’occhio dello straniero. Ci muoviamo nella tradizione di Mark Twain, ma è lo stesso stratagemma usato nei viaggi del tempo, il personaggio che viene da fuori e percepisce la realtà di un mondo.”
Christoph Waltz arrossisce e sorride enigmatico quando gli chiedono se ha collaborato alla stesura della sceneggiatura. È una voce che gira. Ma lui nega drastico. No, lui non ha collaborato alla sceneggiatura, ci mancherebbe altro, quello che è vero è che lui ne ha seguito l’evoluzione passo passo.
Nessuno gli chiede come mai era lì, come dice lui, a seguire la scrittura della sceneggiatura da sopra la spalla di Tarantino.
“Quentin mi dava le pagine che uscivano dalla stampante ed io le leggevo, mi chiedeva ti piace? Ed io rispondevo: sì. Punto. Mi beavo della sua maestria, dell’immensa potenza dei suoi dialoghi. Della magnifica prosa di ogni sua pagina. Se qualcosa non mi fosse piaciuto avrei detto: no, non mi piace”
Nessuno approfondisce la questione, d’altronde non ce ne sarebbe tempo, nè forse la possibilità.
Ci rimane solo l’immagine di Waltz, come la musa, che occhieggia sulla spalla di Tarantino. Possiamo solo immaginare la potenza della loro collaborazione, la cui sostanza ci rimarrà segreta, come segreto e intimo è ogni rapporto.
Sappiamo che è stato Waltz a portare il regista a vedere L’anello del Nibelungo e a ispirargli l’idea di inserire la saga nordica in una storia ambientata nel sud degli Stati Uniti, così l’ex schiavo Django diviene il Sigfrido che supera ogni avversità per liberare la sua Brunilde. La moglie schiava che lavora a Candyland la piantagione di proprietà del cattivo Leonardo di Caprio.
Christoph Waltz sorride e accoglie con garbo i giornalisti che si avvicendano davanti a lui, e noi ci accorgiamo che si sta bene qui ad ascoltarlo. Accanto a lui la vita appare più ricca di possibilità. Vorremmo che questo pomeriggio non finisse mai, e ci chiediamo perché. Forse per il modo che ha di spiegare le cose, da affabulatore, non parla mai di sè, ma di storie e del mondo, forse per quel piccolo tocco di magia, di ironia che completa sempre ogni sua risposta. Come se lui sapesse molto, molto di più ma quel di più sarà per un’altra volta. Forse, pensiamo, re Artù doveva sentirsi come noi adesso in compagnia di Merlino.
Gli dicono che il suo personaggio con la sua stravaganza, alla guida di quel carretto su cui è affisso in cima ad un bastone, a modo di campanello, un enorme molare, è il più bello del film e quando scompare ci si sente smarriti, come privati di un sostegno.
“È un grosso colpo quello che Tarantino assesta al suo pubblico. Non le è dispiaciuto scomparire così?”
“La mia felicità o infelicità è del tutto irrilevante” spiega con un gesto lento della braccia. “Invece ai fini della storia la mia scomparsa è fondamentale. Il dr Schultz è una sorta di mentore per l’ex schiavo Djiango e deve arrivare il momento in cui l’allievo può dare prova di aver acquisito la lezione. Di saper andare con le sue gambe e, addirittura, di superare il maestro. A tal fine la figura del mentore deve sparire.”
“Il dr Schultz incarna in qualche modo la figura del giusto, lei stesso lo ha definito un illuminista: viene da un continente che ha vissuto la Rivoluzione francese e questa visione riflette sul mondo americano piagato dall’orrore della schiavitù, ma allo stesso tempo il Dr Shultz è un cacciatore di taglie spietato e crudele che non esita ad uccidere un padre davanti al figlio. Non vi è contraddizione tra le due cose?”
“No” dice Christoph Waltz. Sorride e per un istante abbiamo la sensazione che questo lo abbia discusso con Tarantino prima che le pagine della sceneggiatura uscissero dalla stampante “è importante per ogni personaggio, ma anche per ognuno di noi nella vita reale sapere che ogni medaglia ha il suo rovescio. Una parte di bene e una di male che crea una dialettica, è questa dialettica a rendere interessante una persona, un’opera d’arte.”
Altro non dice.
Se gli chiedono “Mi descriva il suo personaggio” lui sorride con i suoi occhi luminosi e dice: “No. Me lo descriva lei piuttosto. Andare al cinema non è altro che questo, andare a vedere se stessi riflessi nei personaggi sullo schermo, se io le dessi la mia visione restringerei il suo campo, la sua libertà di percezione.”
Lo ha detto anche Tarantino in conferenza stampa: prima di iniziare le riprese con ogni attore si discute a fondo la storia del suo personaggio, quello che è successo nella sua vita molto prima delle vicende raccontate sullo schermo, ma poi di motivazioni dei personaggi non si parla più.
“Nei miei film non mi soffermo mai sulle motivazioni, sul rapporto tra causa ed effetto altrimenti lo spettatore pensa solo a quello e si perde tutto il resto”
Una sola cosa dice Waltz del suo personaggio: la qualità che in lui prferisce è l’ innocenza informata. Il Dr Schultz conosce senz’altro il mondo e gli esseri umani, non è un ingenuo, ma sceglie di accostarsi alle cose con sguardo innocente. Così affronta uno dei più grandi problemi dell’umanità: la differenza tra gli esseri umani. Sa che la differenza nel mondo può essere comunque una grande ricchezza.
Ed è forse in questa sorta di sguardo innocente del dr Schultz, nel suo desiderio disinteressato di aiutare un uomo, l’ex schiavo Django a ritrovare la moglie, nell’altruismo del suo personaggio che molti hanno ravvisato un tocco umano inusitato nella filmografia di Quentin Tarantino.
Qualcuno poco fa lo ha chiesto al regista.
“Signor Tarantino questo lato umano che lei ha messo nel Dr Schultz, il suo agire non per vendetta, ma in aiuto di qualcuno da dove viene? Coincide con un’evoluzione della sua vita, una nuova visione?”
E Tarantino ha roteato attorno i suoi grandi occhi scuri, ha agitato in aria la sua grande mascella.
“Ma no…non è il primo personaggio di questo tipo dei miei film. Le posso fare altri esempi…” Guarda a destra e a sinistra. Ma nessun personaggio è accorso a soccorrerlo.
“Ora ci penserò…” ha concluso.
Nella generosa stravaganza del Dr Schultz c’è forse un riflesso dell’attore che lo impersona, del rapporto che si è creato tra attore e regista? Chissà.
Christoph Walzt dice che la chiave sta in una frase del dr Schultz, forse la più importante del film: “Non ho mai dato la libertà a nessuno, e ora che per la prima volta l’ho fatto mi sento responsabile”
“È una frase paradossale: chi mai può dare la libertà a qualcuno?” Spiega “Ma nella vera arte drammatica le azioni ed i personaggi sono al servizio della grandezza dei concetti che sottendono la storia. E il dr Schultz esprime l’idea immensa della libertà”
È sempre il mondo del teatro che ricorre sotterraneo nelle sue risposte.
Ed è dietro i segreti del suo mestiere di attore che lui si nasconde. Una parte di lui rimane misteriosa e inavvicinabile, come deve essere per ogni mentore. Non si presta alle domande personali sul suo film preferito, la sua scena preferita o ciò che fa per rilassarsi. “Mi chiede se ascolto musica per rilassarmi? Io non mi rilasso mai. Perché dovrei? Non ascolto la musica per passatempo, la musica mi provoca emozioni intense, esistenziali. ”
Non è della sua vita che si parla, ma della conoscenza delle cose e del mondo. Di ciò che l’arte permette di vedere. Non si parla delle minuzie della vita quotidiana di un mentore, altrimenti che mentore sarebbe? Si parla del senso delle cose, che ognuno coglie dove può.
Per questo non ama i giornalisti che lo incalzano. E gli chiedono risposte nelle tante lingue che lui parla: tedesco, inglese, francese, in parte anche l’italiano, no l’ebraico no. Dice seccato. Nella sua eleganza garbata si sottrae a coloro che vogliono farne uno strumento per fare sfoggio di bravura, o di spirito brillante.
Non ama la stampa, un certo genere di stampa.
“Ora che vive in America come vede la crisi dell’Europa?”
“Quale crisi? L’Europa ha attraversato tante crisi, ma prima la stampa non ne ricavava un profitto e quindi non c’era bisogno di gonfiarle tanto”
“Quindi lei pensa che la crisi sia colpa della stampa?”
Gli occhi azzurri sorridono e annuiscono dietro la montatura nera.
Apprezza molto, invece, un giornalista della televisione italiana che arriva quasi ultimo, con il suo fare dimesso, con la sua perenne sporta che lascia cadere a terra mentre lui stesso si accascia sulla poltrona.
“Mi è piaciuto” dice alla fine quando il giornalista esce. “Sembrava che fosse venuto qui per prendere l’autobus. E guardava i minuti che mancavano alla fine dell’intervista non con l’ansia di chi deve dire la cosa importante prima che finiscano, ma con la stanchezza di colui a cui sembra che non passino mai.”
È in parte anche questa la sua visione delle cose.
Non c’è la scena di un film che sia la sua preferita, ha detto, perché con il tempo cambiano i gesti e le preferenze, l’uomo è creatura mutevole, ma una scena ha voluto ricordarla, quasi mimarla.
Mastroianni, in 8 e mezzo che dà calcetti immaginari saltellando nel corridoio dell’albergo. È il grande regista e si suppone che stia preparando il suo grande film.
Calci in aria, piccoli saltelli, queste sono le grandi opere dell’uomo.
Eppure ora che il nostro mentore è andato via, scomparso dalla stanza e dalla nostra vita, uscito di scena bruscamente come il Dr Schultz nel film, quegli occhi azzurri di mago sembrano aver lasciato molto di più di un calcio in aria.
Ci hanno lasciato una bella lezione di eleganza e di libertà.