Ripubblichiamo in occasione della scomparsa di Ray Bradbury questo doppio contributo di Giovanna Bentivoglio. Si tratta di un omaggio a due tra i più fantastici (in tutti i sensi) autori del nostro tempo, che come spesso succede ai simili – per quanto dissimili – si sono sfiorati e piaciuti: Federico Fellini e Ray Bradbury. Del regista vediamo la ricostruzione del set del film La città delle donne, osservata dal di dentro da una giovane e indaffaratissima Giovanna, che riceve oltre ai suoi numerosi incarichi il compito di accogliere lo scrittore di Fahrenheit 451. Di Bradbury, oltre alla visione della Bentivoglio, pubblichiamo anche una poesia che il pubblico italiano non conosce e che arrivò per Natale come ricordo di un giorno dell’agosto romano.
Il giorno di Ray B.
Era il diciassette di agosto del 1979, alle sette di un mattino già infuocato, i colori sfumati dall’aria spessa e tremolante delle alte temperature. Un venerdì che si avviava a passo attutito e sonnolento verso il fine settimana anticipandone il diradare del traffico e della gente in circolazione per le strade. Attorno alla cittadella del cinema già da un paio di settimane si era insediata una vasta cintura di vaporoso e stordito silenzio e il percorso da casa agli studi seguendo le tappe canoniche – Via Margutta, edicola, barbiere, porta Metronia per raccogliermi, pasticceria – risultava più spedito e breve del solito: attraversavamo in un batter d’occhio il reticolo stringato del centro, filavamo via agli incroci di solito intasati, o sostavamo in una sospensione metafisica, unica auto stupidamente ferma sotto un semaforo rosso in un deserto d’asfalto orlato di mura, prati assetati, colonne di pullman in attesa di scaricare giapponesi in divisa regolamentare, shorts e apparecchi fotografici. Poi si distendeva il nastro ondulato in brusche impennate e discese a picco dell’enorme tobogan di via Tuscolana sul quale planavamo ancora non del tutto svegli. Lucianone alla guida emetteva sporadici borborigmi, invettive smorzate all’indirizzo di invisibili contendenti la strada, accenni lapidari alle rare figure fuggenti ai lati dei finestrini. Ma una volta varcata la soglia di Cinecittà tutto risultava di segno opposto: un folto e frenetico campionario umano si spostava con vociante animazione per i vialetti, come sospinto da folate di un vento capriccioso, drappelli di minuscole scoppiettanti automobiline e lunghissime vetture dotate di argentee pinne si contendevano i vialetti con biciclette e motorini, le adunate chiassose attorno al bar parevano in procinto di esplodere in una sommossa, individui comicamente autoritari, di solito di modesta statura, muniti di altoparlante, si dirigevano a grandi falcate verso i riottosi per redarguirli, strigliarli e impartire direttive e ordini con piglio militaresco per ricevere in risposta risatine, apostrofi provocatori, lo scoppio di una isolata ribellione, qualche sonora pernacchia.
Ma il dato singolare e degno di nota di quei giorni era costituito dal fatto che la mutevole mareggiata umana che aveva invaso Cinecittà era composta quasi esclusivamente da donne: di tutte le età e tipologie, rappresentanti tutte le fasce anagrafiche, tutti i caratteri, di ogni forma e dimensione. Erano i giorni delle riprese caotiche e mirabolanti della Città delle donne. Giorni nei quali tra le titaniche strutture di un enorme ring, un albergo surreale, una gigantesca mongolfiera e un lunare tobogan, il livido villone del signor Katzone, e una ipnotica spiaggia riminese completa di cabine allineate sulla distesa candida di sabbia contro un mare azzurrissimo, magicamente racchiusa nell’ampio scrigno del Teatro 5, si aggirava una moltitudine di donne vocianti e agitate, giovani e scalmanate femministe e aristocratiche dai modi ieratici, motocicliste simili ad amazzoni nordiche foscamente conturbanti, ed enigmatiche sibille, una vetusta e prosciugata vegliarda russa dal volto memorabile di rapace nel quale sopravvivevano le vestigia della severa bellezza di un tempo, Mara Tchukleva emettente squittii indecifrabili e capace, da sola, di esasperare e divertire Federico in egual misura, e tra tutte una coppia di minuscole scintillanti subrettine, duplicazione di Campanellino in versione erotica quasi ubiqua e perennemente sorridente. In questo pianeta femmineo Fellini si muoveva cauto e posseduto da una bizzarra e snervata impellenza, al tempo stesso soggiogato e intenerito, atterrito e ammaliato. Quel giorno il piano di lavorazione prevedeva riprese complesse che avrebbero richiesto a Marcello Mastroianni una prova difficile: la pista di pattinaggio sulla quale doveva sfrecciare una variegata rappresentanza di donne includeva “Snaporaz” costretto a improvvisarsi pattinatore e perciò a imparare a tempo di record almeno a reggersi sui pattini senza cadere. Seguivo Federico dappresso in una condizione che non è mai sostanzialmente mutata durante tutto il periodo che ho avuto il privilegio di stargli accanto: la totale indeterminatezza del ruolo e la mancanza di una precisa definizione del compito che ero chiamata a svolgere. Di qui una costante, ma lieta e perfino euforica, incertezza, e la necessità di non separarmi da lui. Di fatto il compito si manifestava sul momento e copriva le esigenze più varie: la surreale ricerca per telefono di un personaggio di cui mi veniva consegnata una vecchia foto con un numero segnato a matita, ormai decaduto (e il cui proprietario non di rado risultava deceduto), rispondere alle lettere che piovevano a centinaia da ogni parte del globo, battere a macchina improvvisati dialoghi o scene da inserire nella molto mutevole e appena abbozzata sceneggiatura dettati mentre mi trovavo in precario equilibrio su un muretto un trespolo e a volte una scala, correre a prendere un caffè al bar, berlo io, intrattenere un’attrice giunta da lontano con la speranza di spuntare un ruolo e trattenerla con pretesti e lusinghe in una zona limitrofa il luogo delle riprese, non mangiare la pizza con la mortadella nelle immediate circostanze di Marcello costretto a una dieta draconiana, raccontare il sogno fatto stanotte, ascoltare il sogno fatto da lui stanotte, e mille diverse incombenze che chiunque avrebbe potuto espletare e che io, per ragioni rimaste ignote, mi trovavo a svolgere. “Mi ha telefonato Ray dall’aeroporto, è arrivato a Roma con la moglie, sarà qui a momenti, vallo a prendere”. Mi disse Fellini in una pausa delle riprese sulla pista di pattinaggio. RAY?!? Ray chi? “Tu vallo a cercare appena chiamano dalla portineria e scortalo qui. Come quale Ray? Ray Bradbury, chi altro? Dobbiamo finire questa sequenza in giornata, posso vederli soltanto a pranzo, quindi te ne occupi tu. Accompagnalo a visitare gli studi, intrattienilo, divertilo, fai dei giochi di prestigio raccontagli il film che sto facendo e che non riuscirò mai a finire se non mi lasci lavorare!” Fu così che appresi che il leggendario autore di Fahreneit 451, di Cronache marziane e di altri capolavori della migliore letteratura fantascientifica non era un mito astratto ma qualcuno di vivo e vegeto, in carne ed ossa, prossimo a sbarcare a Cinecittà affiancato dalla sua gentile consorte e che lo avrei visto con i miei occhi. Era il genere di magia alla quale Federico Fellini aveva cercato di abituarmi e che stentavo ogni volta a prendere per vera. Ma quando di lì a un’ora fui chiamata dalla portineria perché c’era una coppia di grandi americani, lì per lì non feci caso alla singolare formulazione del portiere. La attribuii a una sua imprevista ma non impossibile competenza: dei grandi americani! e certo che Bradbury poteva ben essere definito grande. Mi precipitai all’entrata saltando sul portapacchi della bicicletta di passaggio reggendomi alle spalle dell’erculeo artigiano del reparto sculture: Nestore, un nome che gli calzava a pennello tanto per restare in tema di arti figurative, lo si poteva constatare vedendolo sfrecciare in giro per gli studi sulla piccola bicicletta (piccola rispetto alla sua mole), con la sua aria da imponente e mite gladiatore. Saltai giù a volo di fronte alle due figure dalle dimensioni prodigiose e dal luminoso sorriso. Ray Bradbury e la sua Maggie avevano davvero un aspetto straordinario e pensando al mondo fantastico e intensamente poetico delle sue storie mi accorsi che c’era una esatta corrispondenza tra il loro creatore e l’incanto che emanava da quelle pagine, e che questa singolare affinità e somiglianza si estendeva anche a sua moglie.
I due personaggi erano di un formato superiore a quello corrente, includendo anche individui alti e ben piantati: Ray e Maggy erano quasi delle gigantografie di una coppia sulla mezza età che aveva conservato intatti i tratti inconfondibili della fisionomia infantile. La stessa paffuta rotondità del volto, la disarmante e contagiosa spontaneità del sorriso, perfino la morbidezza tonda e delicata delle giunture dei polsi dai quali sbocciavano le mani grandi e rosee, vestiti entrambi di bianco e in posa simmetrica avevano qualcosa di angelico che si manifestava cordiale e apertamente curioso negli occhi di un limpido e innocente azzurro. Di fronte ai miei emozionati gorgheggi formulati in un immaginario inglese la coppia dei giganti sorrideva con imparziale e affabile amabilità. Fu del tutto naturale prenderli per mano anche se ciò comportava tenere le mie sollevate a una quota insolita. Docilmente si lasciarono guidare lungo i viali, occhieggiando curiosi e lieti, chiedendomi ragguagli sostando incantati di fronte alla grande testa della Venezia totemica del carnevale del Casanova ancora sospesa sopra la piscina. Si muovevano sincronicamente come collegati da invisibili fili e in realtà come raramente mi è accaduto di osservare, come due creature perfettamente consonanti. Ripensandoli oggi la loro presenza evoca piuttosto l’immagine di due fratelli intimamente connessi, nella sicurezza pacata del loro essere insieme, nell’inalterabile qualità della loro mutua appartenenza. Visitammo anche gli studi al momento sgombri e immersi nella penombra fresca e assorta dell’attesa. Ray ebbe un guizzo di perfetta felicità alla vista della spiaggia e del mare ricostruiti in studio con le cabine e un solitario ombrellone. Volle sapere come era fatto il mare e notò la differenza con la plastica scura che mimava i flutti della fuga per mare di Casanova dai Piombi. Un piccolo drappello di cani sostava accanto al custode del teatro davanti alla soglia e Ray rivolse loro un saluto amichevole e del tutto rispettoso del loro ruolo di guardiani di quello che, disse, era una forma singolare ma non impropria di tempio. L’ombra dei pini regalava qualche ricamo di frescura pomellata nel caldo crescente e il frastuono delle riprese arrivava attutito. Nessuno dei due si scompose per la dilazione dell’incontro con Federico ed anzi accettarono con garbo e delicatezza di spendere la mattinata insieme a me, scombiccherato e gesticolante scudiero che in una lingua quasi inventata raccontavo descrivevo tentavo di illustrare la straordinaria avventura di un film di Fellini e i prodigi che era capace di realizzare tallonato e nel contempo lanciato all’inseguimento di visioni cariche di verità e presagi del mondo reale che pareva estrarre da un mondo di cui lui soltanto aveva la chiave. Ray e Maggy mi seguivano nelle mie eccitate descrizioni, sembravano sapere perfettamente di cosa parlassi e sorridevano di uno stesso luminoso, sapiente e intramontabile sorriso. Un sorriso che oggi a distanza di tanti anni si riaccende e scintilla celestiale come le stelle della poesia inviata a me, proprio a me, per il Natale del 1979. Dunque non avevo sognato.
They have not see the stars
Ed ecco in versione originale e poi tradotta
cercando di rispettarne lo spirito più che la lettera, la poesia che comincia con i versi
They have not see the stars. La poesia compare
stampata su un foglio sormontato dalla dedica scritta a mano GIOVANNA!
con la data DEC. 1979,
il titolo Christmas Greetings 1979,
firmata Maggie and Ray Bradbury,
e la scritta love from Ray Bradbury.
Questa stessa poesia è stata pubblicata recentemente da Bradbury
in una versione differente
(manca la strofa finale)
e si trova in un volume di poesie di Ray Bradbury
pubblicato in inglese,
che porta come titolo proprio
They have not seen the stars.
Da notare una curiosità: l’alternanza
tra la parola see
nella versione data a Giovanna Bentivoglio
e seen nella versione che dà il titolo alla raccolta.
They have not see the stars,
Not one, not one
Of all the creatures on this world
In all the ages since the sands first touched the wind
Not one, not one,
No beast of all the beasts has stood
On meadowlands or plain or hill
And known the thrill of looking at those fires;
Our soul admires what they, oh, they, have never known
Five billion years have flown in turnings of the spheres
But not once in all those years
Has lion, dog, or bird that sweeps the air
Looked there, oh, look. Looked there, ah God, the stars;
Oh, look, look there!
It is as if all time had never been.
Or Universe or Sun or Moon or simple morning light.
Their tragedy was mute and blind, and so remains. Our sight?
Yes, ours? To know now what we are.
But think of it, then choose-now, which?
Born to raw Earth, inhabiting a scene
And all of it, no sooner viewed, erased, gone blind
As if these miracles had never been.
Vast circlings of sounding light, of fire and frost,
And all so quickly seen then quickly lost?
Or us, in fragile flesh, with God’s new eyes
That lift and comprehend and search the skies?
We watch the seasons drifting in the lunar tide
And know the years, remembering what’s died.
Oh, yes, perhaps some birds some nights
Have felt Orion rise and tuned their flights
And turned toward South
Because star-charts were printed in their sweet genetic dreams –
Or so it seems
But, see? But really see and know?
And, knowing, want to touch those fires,
To grow until the mighty brow of Man Lamarckian-tall
Knocks earthquakes, striking Moon,
Then Mars, then Saturn’s rings;
And, growing, hope to show
All other beasts just how
To fly with dreams instead of ancient wings.
So, think on this: we’re first! the only ones
Whom God has honored with the rise of suns.
For us gifts Aldeberan, Centauri, homestead Mars.
Wake up, God says. Look there. Go fetch.
The stars. Oh Lord, much thanks. The stars!
Non hanno mai visto le stelle.
Nemmeno una
tra le creature di questo mondo
in tutte le epoche
da quando le sabbie per la prima volta
toccarono il vento.
Nemmeno uno
tra tutti gli animali
ha conosciuto il brivido che si prova,
in piedi sulla prateria, sulla pianura o sulla collina,
nel guardare questi fuochi.
Le nostre anime ammirano ciò che essi, oh, essi,
non hanno mai conosciuto.
Sono trascorsi cinque miliardi di anni,
fluiti nel movimento delle sfere celesti,
ma nemmeno uno in tutti questi anni, né il leone, né il cane
e neppure l’uccello che solca l’aria,
le ha guardate.
Ma guarda! Nessuno le guardava, oh Dio, nessuno guardava le stelle.
Ma guardate, guardate lì!
È come se tutto il tempo non fosse mai esistito.
Come se l’Universo o il Sole o la Luna o anche la semplice luce del mattino,
non fossero mai esistiti.
La loro tragedia essere muti e ciechi.
E destinati a restare muti, ad avere uno sguardo cieco.
E il Nostro sguardo? Sì, il nostro?
Per sapere cosa siamo noi, pensaci e poi scegli – ora, cosa siamo?
Siamo nati sulla terra nuda e ci limitiamo a stare sulla scena?
Allora è come se tutti questi miracoli non ci fossero mai stati.
Mai visti prima, cancellati, accecati.
L’immenso volteggiare di luci sonanti, di fuoco e neve,
visto in un attimo e in un attimo perduto.
Oppure siamo noi quelli che si alzano verso i cieli?
Quelli che li comprendono e li esplorano.
Noi, fragile carne con gli occhi nuovi di Dio,
guardiamo le stagioni vaganti nella marea della luna,
e conosciamo gli anni,
e conserviamo la memoria di ciò che è morto.
Ah sì, forse in qualche nottata gli uccelli
hanno avvertito il sorgere di Orione,
l’hanno sentito mentre regolava il loro volo
e li dirigeva verso il Sud.
Perché nei loro dolci sogni genetici sono scritte le mappe delle stelle.
O così sembra.
Ma questo significa vedere? Veramente, vedere? Veramente conoscere?
E conoscendoli, volerli toccare, questi fuochi?
E crescere fino a possedere
la fronte possente dell’Uomo Lamarckiano
che scatena terremoti e colpisce la luna,
e poi Marte, e poi gli anelli di Saturno.
E crescere con la speranza di mostrare
a tutti gli altri animali come si può fare a volare
con i sogni invece che con le antiche ali.
Così, pensateci: noi siamo i primi!, gli unici
che Dio ha onorato facendo nascere i Soli.
È per noi il dono di Aldebaran, di Centauri, della colonia di Marte.
Svegliatevi, dice Dio. Guardate. Andate a prenderle.
Le stelle. Oh, Signore, grazie tante. Le stelle!