A semaforo rosso un ragazzo vestito strano attraversa rapido e si ferma al centro della strada. Si toglie la bombetta, fa un inchino, poi dalle tasche larghe tipo quelle dei clown tira fuori quattro palle colorate e comincia a farle ruotare in aria. Sposto lo sguardo sullo specchietto retrovisore. Osservo l’immagine riflessa della cliente dietro. Il vestito perfetto e il tono freddo della voce al telefono mi fanno pensare ad una donna d’affari. Due mondi agli opposti, lei e il ragazzo, con me nel mezzo, che invece di scegliere tra loro due, fisso qualcosa di diverso, qualcosa che riguarda me, la mia vita. La vedo bene da qui, dal semaforo all’incrocio di via delle Tre Fontane con viale dell’Industria. La ruota del Luneur. Il Luna Park di Roma.
È ferma la ruota, ormai da qualche anno, invece di girare come dovrebbe. Non dico come le palle del giocoliere che poi ai poveracci che ce stanno sopra glie se mischierebbero pure le dita dei piedi, ma almeno quel poco che serve, che la renderebbe viva. Perché a vederla così ferma, insomma…mi viene una malinconia tremenda a pensare ai giorni da ragazzino dentro ‘sto Luna Park, senza pensieri e preoccupazioni per la testa ma solo tanta voglia di divertirmi. Facevi sega a scuola, prendevi la metro B, scendevi alla stazione di Eur Fermi e il gioco era fatto. Che poi per completare l’opera tornavi a casa alla solita ora, così che i tuoi genitori non sgamavano niente. Che poi sgamavano lo stesso, ma questa è un’altra storia.
Ce n’ho passata di vita qui dentro, tra un giro sul Tagadà, il Rotor, la Nave Pirata, i seggiolini volanti. O magari solo a passeggiare tra i vialetti accanto alla ragazza che mi piaceva e per cui avrei scalato le montagne russe se solo me l’avesse chiesto; o portarla sulle giostre che normalmente schifavo perché da femminucce ma che invece accanto a lei diventavano le più belle. Come il tunnel dell’amore, il labirinto di cristallo; o meglio ancora la casa degli orrori, così che al primo spavento me se stringeva addosso.
Povero Luneur. Basterebbe affacciarsi da una delle entrate ormai chiuse per farsi venire dentro la tristezza, quella forte, che te strigne il cuore e non lo lascia più. Io lo so bene che mi fa questo effetto, eppure mi ci affaccio ogni tanto quando passo da queste parti. Così, giusto per farmi male, che tanto alla vita glie mancano le occasioni per fartelo e allora uno se le va pure a cercare. Giostre tutte sverniciate, arrugginite, erbacce ovunque, foglie marce, terra sui vialetti e un silenzio che viene da dentro che fa paura. Dall’ingresso di viale dell’Industria, quello accanto alla piazza, si vede ancora la recinzione del Brucomela. Il Brucomela cavolo! Quanti giri mio padre me c’ha fatto fare sopra quando ero piccoletto e ci venivo con lui, che se poco poco mi diceva andiamo al Luna Park io gli attaccavo il pippone fin da sotto casa. Be’, mo la mela è marcia e il bruco è morto. Stecchito. Insieme alle bancherelle dello zucchero filato, quelle dove sparavi sparavi e sparavi e pure se li beccavi i barattoli porco giuda non cadevano mai, le pesche con i ganci che non agganciavano mai niente e il punchball dove noi ragazzi facevamo a gara, tanto per fare i duri, ma che alla fine tutto quello che rimediavamo erano lussature al polso e nocchie spellate. Però tutti zitti, nessuno a lamentasse, che a lamentasse ce facevi ‘na figuraccia.
Sul Rotor invece ho conosciuto Ale. Alessandro. Che stava accanto a me quel giorno, quando per fare il cretino ho sputato verso alcuni amici miei che c’avevo di fronte, pensando come un idiota che gli sarebbe arrivato addosso. E invece la saliva non s’è staccata, anzi, s’è spiaccicata sul mio viso. Che me so fatto schifo da solo. Alessandro, che non conoscevo ancora, ha cominciato a ridere che non la smetteva più. Neanche quando il Rotor s’è fermato, che io ci sono andato in puzza e quando siamo usciti l’ho preso di petto e a brutto muso gli ho chiesto che cazzo c’aveva tanto da ridere; che volevo fare il figo di fronte agli amici che mi guardavano, anche se li vedevo che stavano a ridere pure loro. Alla fine gli stavo per tirare un pugno ad Ale, ma poi non l’ho più fatto, perché all’improvviso s’è piegato in terra e ha preso a ridere sempre più forte, così tanto che…insomma…mi sono messo a ridere pure io, a crepapelle. Alessandro è diventato mio amico, di quelli veri, che a trovarne anche uno solo in tutta la vita è una fortuna che vale come poche altre cose. Vallo a pensare che uno sputo in faccia non l’avrei mai rimpianto.
Anzi sì, qualche anno fa. Ma per un altro motivo.
Un leggero ticchettio sul finestrino mi riporta alla strada. E’ il ragazzo giocoliere che mi sorride con il cappello in mano. Abbasso il vetro, prendo qualche euro dalla tasca e glielo do. Lui ringrazia, si allontana e va verso la macchina dietro. Intanto il semaforo è appena scattato verde. La signora d’affari sta ancora al telefono. Io continuo a fissare la ruota panoramica immobile. E penso al giorno in cui Alessandro m’ha detto che stava male.
– E’ verde.
– Ha ragione signora…mi scusi.
Ingrano la prima e parto.
È’ buio adesso, e che ci faccio qui all’entrata su via dell’Industria non lo so. Che invece di tornare a casa sono tornato qui, solo come uno scemo. Neanche pensassi di ritrovare le luci accese, o che le giostre nel frattempo fossero tornate a vivere coi rumori e le risa e tutto il resto. Ma qui non s’accende niente. Le luci spente rimangono così. Rientro nel taxi e rimetto in moto. Percorro pochi metri, ma poi riaccosto, mi fermo ed esco di nuovo. Respiro a pieni polmoni, che lo capisco che a ripensare ad Ale mi sta salendo la tristezza dentro da sentirmi male.
…Alessa’ sembramo due innamorati qui sopra…però che figo eh? Hai visto quant’è bello?
Ale s’era fatto muto, d’improvviso, appena la ruota panoramica s’era fermata e noi stavamo in alto e le ragazze nostre sotto che ci salutavano con la mano. M’aveva chiesto d’accompagnarlo sopra. Io e lui soltanto. Poi, come se non ce la facesse più a trattenersi, aveva cominciato a parlare e m’aveva raccontato della paura che gli era presa da un po’ di tempo, dell’ansia e dei pianti che arrivavano di colpo che non lo sapeva nemmeno lui perché, e del fatto che non gli interessava più niente, che il giorno si guardava allo specchio e che nello specchio non ci vedeva nulla, che non riusciva a stare coi genitori, che a vederli invecchiare gli prendeva da piangere, che si infilava il cibo in bocca a forza perché non sentiva fame, non sentiva niente, solo una gran paura…di cosa di preciso non me l’aveva saputo dire, ma io nei suoi occhi c’ho visto delle ombre brutte, quelle che te se mettono dietro come gli angeli custodi, che però a differenza di questi non ti vogliono bene. Aveva finito di parlare che c’aveva le lacrime che gli rigavano il viso. Io stavo zitto, che non capivo niente, non riuscivo neanche ad aprire bocca, che Ale era la persona più allegra che avevo mai conosciuto. Me ricordo solo che c’ho avuto paura anch’io all’improvviso. Poi la ruota s’era mossa, lui aveva fatto un bel respiro e s’era asciugato le lacrime, che non si voleva far vedere così dagli altri, e soprattutto dalla sua ragazza.
Luneur l’hanno chiuso nel 2008. Me lo ricordo perché una mattina di Febbraio di quell’anno è stata l’ultima volta che ho visto Ale, che in quei giorni la depressione, m’aveva detto la madre, era peggiorata parecchio. Lo volevo portare al Rotor, che se ci veniva gli avevo detto che avrei provato a sputare più forte che magari ce la facevo a prenderlo se lui si metteva dalla parte opposta. Lui m’aveva fatto un mezzo sorriso, e m’aveva abbracciato forte. Qualche sera dopo è uscito sul balcone di casa sua e se buttato de sotto.
Un uomo che vende fazzoletti e alberelli profumati mi vede e si avvicina, mi chiede se gli compro qualcosa. Lo guardo con gli occhi lucidi, poi abbasso la testa dicendogli no grazie.
– Scusa amico – mi fa quello dopo qualche secondo.
Rialzo gli occhi su di lui.
– Tu sta male amico? – mi chiede.
Scuoto la testa.
– No… è solo che…- provo a dire, ma non mi vengono parole, solo una gran voglia di piangere. Lui apre una confezione di fazzoletti e me ne offre un pacchetto.
– Questo fazzoletto tantrico – mi dice – tu passa su occhi e vedi mondo diverso…dolore va via…e mondo torna bello…
– Grazie – gli dico, poi cerco qualche moneta e gliela do.
Sorride, io provo a fare lo stesso, poi mi saluta con un cenno della mano e si allontana.
La ruota sta lì. È ferma. S’è fermata poco tempo dopo che te ne sei annato, Ale, e non s’è più mossa. Chissà, magari l’ha fatto apposta. Per ricordarmi che le cose iniziano e poi finiscono, e non ci si può fare niente, anche se sono belle e uno non vorrebbe mai lasciarle andare. Magari sta proprio lì il segreto, che sai che prima o poi deve finire, che a farle durare più del dovuto poi si rovinano, perdono tutto. Le cose cambiano perché vogliono vivere, mi dicevi, …è quando stanno ferme che sei morto. A guardare quella cazzo di ruota adesso ci penso a quante cose sono cambiate, a quante avrei voluto non finissero, ma poi alla fine c’ho pensato su e t’ho dato ragione, e invece de dannamme l’anima per farle andare avanti a forza, anche se piagnevo come una cipolla, anche se mi sentivo peggio di un cencio strizzato che non c’avevo manco la forza di parlare, invece di vestirmi a nero per il funerale, preparavo il vestito buono per quello che sarebbe venuto dopo.
Con te però c’ho un discorso in sospeso, che non lo sai quanto ce so’ stato male e ogni volta che ci ripenso mi viene voglia di dartelo davvero il pugno che nun t’ho dato quella volta fuori dal Rotor. Ricordamelo quando se rivedemo, che come se dice…è una ruota, prima o poi tocca a tutti. Nun t’offende però, se non c’ho tutta ‘sta fretta.