Pubblichiamo ben volentieri questa riflessione sull’ironia nel giornalismo, scritta da Luca Lippera. Luca è uno dei redattori della cronaca di Roma del quotidiano “Il Messaggero”. Laureato in legge (è praticamente un avvocato), si occupa da molti anni di cronaca nera e ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo lavoro di cronista, tra i quali la Medaglia del Presidente della Repubblica, premio dell’Unione cronisti per l’anno 2003.
L’ironia è senza dubbio l’arma più potente nella penna di un cronista. Ma attenzione: è anche la più tremenda, perché la “lama” che gli conferisce incisività e forza è quasi sempre a doppio taglio. Usata a sproposito, può provocare tra i lettori sconcerto e disapprovazione. Utilizzata in dosi eccessive, è capace di ferire nel profondo colui che ne è il destinatario. Può ucciderlo, e non solo in senso metaforico. Se non è efficace, diventa inutile, e allora è una perdita di spazio e di tempo. Se non è sottile, è greve. Se è greve, diventa villania. Se non possiede tutto quello che deve possedere – il garbo, il gusto, la sagacia, la brillantezza, la levità, la capacità di graffiare, il potere di far sorridere senza offendere o denigrare – il primo a diventarne vittima è il giornalista stesso. Si dirà di lui (e se non lo si dirà, lo si penserà) che l’ironia non è nelle sue corde e che il tentativo di essere ironico era soltanto la pretesa, fallita, di un presuntuoso. Occhio, quindi: l’ironia è la classica “bomba atomica”. Va maneggiata con estrema cura e solo se ci si rende conto di poterlo fare. Altrimenti è preferibile, di gran lunga, starne alla larga e lasciarla a chi sa farne uso. Non è l’ironia lo spartiacque tra buoni e cattivi giornalisti. E’ molto meglio non essere ironici che sforzarsi di esserlo senza riuscirci.
Tutto questo non significa che si debba rinunciare in partenza a percorrere, quando è opportuno, la strada della “canzonatura” e della sottigliezza. Ma solo la tecnica, come in tutto ciò che riguarda la scrittura, la capacità di esprimersi, e anche il giornalismo, può soccorrere chi non ha il dono originario dell’ironia. Tenendo a mente alcune regole, è possibile non incorrere nel rischio di urtare il pubblico. Osservandone altre – ed esercitandosi – si possono raggiungere buoni livelli di ironia pur avendone avuta poca in dotazione dalla natura. La prima cosa da tenere in mente è che su certe cose non si scherza. Mai. O quasi. Cominciamo con un esempio. Il tema è un delitto. Un uomo corpulento, di Padova, è stato centrato da quattro colpi di pistola alla testa. Provate a pensare un giornale veneto che pubblicasse qualcosa del genere: “… il poveraccio, ridotto a bersaglio da Luna Park, barcollava, perdeva sangue come una fontana e alla fine è stramazzato a terra con i suoi centoventi chili come un sacco di patate”. C’è l’offesa a una persona che muore, la derisione dell’aspetto fisico, il paragone con “un sacco di patate”. Era un uomo, invece. Gli amici, i familiari, i lettori non potranno non indignarsi. Tanto più che il fatto è avvenuto in luogo vicino a quello dove si elabora il resoconto. Non era un evento lontano. E’ accaduto qui, tra noi, eppure sembra che la morte, a quel giornalista, non abbia fatto alcun effetto. Non è ironia: è macelleria verbale.
Questo non significa che sui morti non si possa mai ironizzare. Supponiamo una circostanza diversa. Guerra del Vietnam, 1968 e dintorni: il presidente Johnson, dopo aver bombardato a tappeto per mesi la giungla e le città nemiche, decide di mandare i rinforzi: mille aerei B52, le “Fortezze Volanti”. Un giornale giudica abnorme la scelta e scrive: “Se c’è una cosa di cui il presidente Johnson non può essere accusato, è di essere avaro: quando l’intento è ammucchiare i cadaveri dei nemici, non si bada a spese. L’amministrazione ha rivelato che sborserà altri venti milioni di dollari per inviare mille “B52″ supplementari in Vietnam. La giungla, a forza di bombe, è già cancellata senza che questo ci abbia dato la vittoria. Forse i generali del Pentagono vogliono che sprofondi….”. Ammucchiare cadaveri: espressione forte. Ma il fatto è, prima di tutto, lontano. E poi l’oggetto dell’ironia, non sono le vittime, ma il presidente Johnson: “Forse si vuole che giungla sprofondi…. anche se questo non ci ha dato la vittoria”. Il tono è quasi sarcastico, ma la messa alla berlina c’è.
Un’altra tecnica per fare ironia è la contrapposizione di concetti opposti. Notizia: un omicidio efferato viene compiuto nel villaggio di Duncan, venti case e trentasei persone, in maggioranza pescatori, sulla costa della Cornovaglia. Un pastore è stato fatto a pezzi. Siete il corrispondente dall’Inghilterra e buttate giù un articolo. “Gli abitanti di Duncan, nell’Inghilterra occidentale, hanno scoperto ieri che la Cornovaglia non è soltanto la terra delle scogliere verdi che si tuffano nel mare blu. Una testa mozzata, quattro arti smembrati e il tronco di un uomo abbandonati nella brughiera sono la prova inconfutabile che da queste parti, oltre alle pecore e alle chiesette perdute nella nebbia, c’è anche un assassino. In un villaggio dove l’evento più grande è l’annuale Sagra dell’Aringa, la notizia, capirete, ha avuto una certa eco…”. Osservate: Duncan, si avverte, si sente, è uno dei posti più tranquilli al mondo: le scogliere verdi, il tuffo nel mare blu…. E cosa va a capitare? Un assassinio degno di Jack lo Squartatore. Gli abitanti di solito sono sereni, non come quei nevrotici che stanno in città. Ma ora, è certo, sono sconvolti.
Quel frasario – “una testa mozzata, quattro arti smembrati…” – può sembrare irriverente. Eppure, opposto all’atmosfera bucolica che viene evocata, fa capire perfettamente qual’è lo stato d’animo dei pescatori. Si attinge, fino in fondo, al serbatoio della sottigliezza. Guardate bene: non si dice che la notizia ha terrorizzato la popolazione (sarebbe banale e ovvio), ma ci si limita, ammiccando al lettore (quel “capirete” è rivolto a lui), ad affermare che essa “ha avuto una certa eco…”. Chi legge, di certo capirà, e dirà a se stesso: altro che una “certa” eco, una eco enorme: l’aver minimizzato provocherà, nel pubblico, una sorta di effetto moltiplicatore. E’ il gioco dell’ironia, che in questo caso usa qualcosa di simile all’iperbole: “…oltre alle chiesette perdute nella nebbia, c’è anche un assassino…”. E che razza di assassino! Quasi si scorge, fisicamente, il volto di una vecchietta della zona a bocca aperta nell’apprendere l’accaduto. Il suo piccolo mondo tranquillo era la brughiera. Ora sa che là fuori, da qualche parte, c’è un “mostro” con cui dovrà condividerla.
Il gioco degli opposti, per chi vuole ironizzare, è una miniera di possibilità. Immaginiamo, è pura fantasia, un servizio da Washington. Un papà severo, una figlia disinibita, l’uno il contrario dell’altra. Inizio dell’articolo: “Alla Casa Bianca si erano vissute giornate decisamente più memorabili. Rebecca Bush, figlia maggiore del presidente degli Stati Uniti, ha rivelato ieri di avere un debole per le donne. La cosa, nel Paese di Serena Baxter, la sessuologa che per una vita ha professato (e praticato) la libertà di amplesso, poteva anche passare inosservata. Ma per un padre come Henry W., che dorme con la Bibbia, le recita e va pazzo per i rigori del Vecchio Testamento, il fatto – è chiaro – non è il massimo della vita….”. Osservate la levità: c’erano state giornate “più memorabili”, “ha un debole per le donne”, “non è il massimo della vita”. Si poteva scrivere “è stata una pessima giornata”, “è una lesbica” oppure “per un padre così… è una disgrazia”. Ma perché infierire? Non c’è alcuna tragedia. Si cerca soltanto di suscitare il sorriso. Non si vuole crocifiggere nessuno. Il contrasto tra i personaggi crea, da solo, la vena ironica. Non serve uno sforzo particolare da parte di chi scrive. Il lettore, come la vecchietta della brughiera, penserà: “Altro che giornata memorabile: per il presidente è stata un vero disastro…”.
Anche la scelta dei termini aiuta. Supponiamo di dover scrivere un servizio sulle nuove tendenze giovanili delle classi aristocratiche e benestanti. Non vi piacciono, certi rampolli. Anzi, li detestate. Ma eleganza vuole, visto il contesto, che non lo si dichiari apertamente. Usando un po’ di fantasia, proviamo: “Se c’è un motivo per cui le tribù dei giovani ricchi dovrebbero essere adorate, sono i nomi che scelgono quando decidono di entrare nei club dell’alta società. Gli Yakis, ad esempio, si fanno chiamare così perchè il loro Messia è l’erede designato di casa Orpelli: almeno una volta alla settimana vanno in pellegrinaggio al Lingotto, a Torino, per vedere che effetto fa la catena di montaggio dove lavorano i mariti delle loro colf. La trovano un po’ rumorosa, si è saputo, ma architettonicamente divina….”. Le tribù dei giovani ricchi, un Messia, un pellegrinaggio, e poi quel nomignolo, Yakis, che ricorda lo yeti, l’abominevole uomo delle nevi: si attinge al vocabolario pescandovi i termini (solo Yakis nasce dalla fantasia) che più fanno comodo. Ma il pezzo è, formalmente, ineccepibile. Eppure i “signorini” sono serviti: al pubblico, con tutta probabilità, appariranno ridicoli e loro, che del pubblico non si curano, non avranno nulla da rimproverarvi. Avete anche scritto che dovrebbero “essere adorati”: cosa vogliono di più?. Ma il vostro lettore, in cuor suo, dirà: guarda che razza di gente: trovano “architettonicamente divino” un luogo dove si suda e si fatica. Roba da matti.
Qui la pianto e concludo. Scrivere un pezzo pieno d’ironia, l’avrete capito, non è propriamente come sedersi al bar e ordinare un aperitivo con le olive. Spiegare come si fa può risultare, a maggior ragione, vagamente temerario. L’idea, quando l’ho proposta ai titolari di “Omero”, mi era sembrata fantastica. Ora che provo a soppesarne il risultato, la trovo terrificante. Non mi azzardo a contare quante righe vi ho ho inflitto, ma l’insieme, a occhio e croce, sembra decisamente più corposo di una terzina. Quindi non ci sarebbe granché da stupirsi se qualcuno, tanto per fare esercizio, buttasse lì qualcosa. Che potrebbe suonare, più o meno, così: “Scrivere un piccolo “saggio” sull’ironia può essere senza dubbio un proposito meraviglioso. Farlo senza che nessuno ve l’abbia chiesto, bisogna dire, induce a credere che da qualche parte nel vostro cervello si aggirino pulsioni eroiche o suicide. Ma tradurre il progetto in pratica buttando al vento non so quanti milioni di byte di memoria, dimostra che dovete avere in famiglia, oltre a qualche aspirante eroe, anche un paio di masochisti in incognito. Perché una cosa è inventare “Le barzellette di Totti” e far ridere mezzo mondo. Tutt’altra pretendere di insegnare come si fa a far ridere i lettori senza raccontare barzellette e scoprire dopo non so quante pagine che avete riso, o pensato di ridere, soltanto voi”.