Francesco Visalli: Non sono “merce” per l’arte, ma sono uno “strumento” per l’arte

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Sono trascorsi meno di due anni dalla prima volta che Francesco Visalli ha preso in mano un pennello. Classe 1960. È stato architetto. Mai alcuna velleità artistica. Oggi: pittore. Scoprendo le sue opere (si è appena conclusa la sua mostra romana Realtà Alternativaal Chiostro del Bramante), risulta però difficile poter credere alle sue parole.

Sono trascorsi meno di due anni dalla prima volta che Francesco Visalli ha preso in mano un pennello.

Classe 1960. È stato architetto. Mai alcuna velleità artistica. Oggi: pittore.Scoprendo le sue opere (si è appena conclusa la sua mostra romana Realtà Alternativaal Chiostro del Bramante), risulta però difficile poter credere alle sue parole.
È lui stesso a non essere capace di darsi una spiegazione a come sia stato possibile, non sapendo disegnare – parole sue: “Io non so disegnare” -, dare origine, fin dai primi disegni, ad un’arte dalla definizione assolutamente precisa di stile.

In un panorama dell’arte contemporanea che sembra sempre più voler prendere le distanze dai non addetti ai lavori, che appare arroccarsi nella reiterazione di modalità figurative trite e ritrite, anacronistiche, pretenziose di essere avanguardiste, quando in realtà oggi (essendo venuto meno qualsiasi bisogno di scardinamento, essendo già stata fatta ogni possibile provocazione) ad essere divenuta “accademia” è l’avanguardia stessa, Visalli, con il suo non saper disegnare, sembra distinguersi.
La sua pittura è nuova, stupisce, provoca proprio perché non alla ricerca della novità, dello stupore, della provocazione ad ogni costo in nome di una creatività, sbandierata troppo spesso per nascondere l’assenza di altre componenti vitali dell’arte: il saper fare(capacità tecnica) e l’aver qualcosa da dire, che, nel caso dell’arte, dovrebbe riempirsi di senso solamente nel momento in cui viene percepito, compreso, comunicato.
La realtà visionaria, alternativa, borgesiana, che scaturisce dai suoi disegni, può “piacere” o “nonpiacere”, ma quello che rende la sua arte indiscutibilmente di valore è proprio questo intento di volersi far capire, di voler condividere anche ciò a cui lui stesso non riesce a dare una spiegazione, di volersi (ri)avvicinare a chi l’arte realmente la fa, cioè alle persone, uniche ad avere il potere di rendere un’opera, d’arte.
Attuando quello che può sembrare un passo indietro (andare ad una mostra in cui l’allestimento “vuole” aiutare alla comprensione sembra in effetti appartenere ad un’altra epoca), Visalli ne fa compiere uno, forse piccolo, forse grande, in avanti all’arte contemporanea italiana, vincolata in un sistema ormai stagnante, intrappolata dalle volontà del mercato e quindi troppo spesso privata di quella libertà che dovrebbe essere gene fondamentale dell’arte.
Forse, una speranza esiste.

Cos’è l’arte?
Che domandona…
L’arte è qualsiasi forma che esprima un’anima, un sentimento. Per me ogni forma di manifestazione dell’intimo è una forma d’arte, ognuno ha la sua; l’importante è trovarla o lasciarla libera di agire. Indubbiamente serve poi la tecnica perché questa si materializzi, ma nasce dall’intimo, dal profondo.

Cos’è invece l’opera d’arte?
L’arte la fa chi osserva un’opera e prova un’emozione. Non è l’artista, ma è chi ne fruisce a far sì che diventi arte un’opera d’arte. Se è spenta e non trasmette nulla evidentemente non è arte. Certo, poi dipende molto dalla soggettività della singola persona e dalla sua sensibilità. Ognuno ha la sua. Io di fronte a certe opere ho pianto e di fronte ad altre ho provato assoluta indifferenza.

Un’opera per cui hai pianto?
Notturno
di Van Gogh. Come ho pianto di fronte a L’isola dei morti di Bocklin.

Dichiari di non avere dei riferimenti, di non guardare a nessun artista per non essere condizionato, eppure ti emozioni per Van Gogh e Bocklin, che non sembrano essere così estranei alla tua pittura…
Ma ho imparato a conoscerli e ho cominciato a studiare i grandi artisti negli ultimi sei mesi perché volevo colmare la mia ignoranza abissale nel campo pittorico dell’arte. Così ad un certo punto ho iniziato ad avere una voracità nel voler conoscere, nel voler sapere, ma ormai forte e sicuro dell’arte che propongo e quindi non più contaminabile, non più influenzabile .

Hai iniziato la tua carriera come architetto, poi, solamente due anni fa, sei approdato alla pittura: come si conciliano in te arte ed architettura?
Non si conciliano. Una vita è finita e ne è iniziata un’altra. Io ho abbandonato la professione in tempi non sospetti, molto tempo prima di iniziare a dipingere, per tutta una serie di vicissitudini, interiori, morali, sentimentali, di disamoramento, fisiche anche. Ho passato alcuni anni abbastanza devastanti. Finché poi ho deciso di abbandonare tutto, di lasciar ogni cosa e sono stato quasi due anni così, senza fare nulla.

Ti manca l’architettura?
Per niente. Perché, lo dico concretamente, sono morto e rinato. È un’altra vita. Non avrei mai lontanamente immaginato di prendere un pennello in mano un giorno, non l’ho mai fatto prima in vita mia, non sapevo neanche cosa fosse un colore. A breve, il 7 novembre, sono esattamente due anni che dipingo.

Eppure, in qualche modo la tua pittura sembra rivelare qualche reminescenza architettonica…
Un’influenza sicuramente c’è, forse nel segno, forse in alcune geometrie. Ma le cose che dipingo non le avevo mai lontanamente immaginate. In tanti anni di professione non sono mai stato libero. Perché c’era sempre qualche condizionamento, dovuto alla committenza – poi io ho sempre fatto opere pubbliche per cui puoi immaginare che ambientino era quello -, ma non solo. Ho iniziato a lavorare a Los Angeles con Richard Meier e lui mi ha molto influenzato. È stato una sorta di padre putativo, ma mi è rimasta la sua impronta e, pur evolvendomi negli anni, rendendo quel segno personale, sono stato comunque inconsciamente condizionato. Nella pittura invece sono libero da tutto ed è impagabile. Per questo, quando sono stato invogliato a dipingere, non ho voluto vedere niente, ho tappato tutto, anche la più piccola forma di condizionamento, perché volevo essere libero.


Com’è arrivata la pittura?

Dopo due anni di calo sempre più profondo, una notte sono arrivato alla decisione di staccare l’interruttore. Il momento definitivo è coinciso con il lasciare, non so, un “ciao”, e, pensando a cosa scrivere, ho giocherellato con la penna come quando sei al telefono e scarabocchi un foglietto… Trasportato da un impeto, come posseduto, questi scarabocchi sono continuati nei giorni e ho disegnato, non dico h24, ma quasi, per due settimane. Poi un giorno sono andato a fare delle scansioni – una reminescenza diciamo “professionale” –  e una signora che era lì, una restauratrice, mi ha detto “tu questi disegni devi assolutamente farli diventare dei quadri”. Dopo una decina di giorni ho preso coraggio e sono andato in un negozio di belle arti, dove c’era Ilaria, che ormai è una cara amica, e le ho detto: “vorrei dipingere ma non so cosa serve, so solo che non voglio le tele montate e che voglio solo colori ad olio”. Tornato a casa, ho lasciato lì un paio di giorni tutti i pennelli e i colori comprati, cercando di trovare coraggio. Finché ho steso un pezzo di tela e ho iniziato a ridisegnare uno dei miei disegni e poi a dipingerlo. La mattina dopo il quadro era finito, ma non sapevo neanche io come. Da lì è iniziato, e non mi sono più fermato. Ho capito che non avevo raggiunto il fondo per essere poi risalito, ma ho scoperto che non si risale da un fondo, ma si apre una porta nel fondo per passare ad un’altra dimensione ed è quella che vivo: una realtà alternativa.

Realtà Alternativaè proprio il titolo della tua mostra. Cosa significa per te?
Significa rappresentare le cose che vedo che sono come delle visioni. Molte volte mi sento come quello che viene liberato dalla caverna nel Mito della caverna di Platone, cioè come se avessi scoperto un’altra realtà che, per me, ovviamente, è la vera realtà. E immagino la mia vita passata come un mondo che sta dentro la caverna a guardare le ombre e io mi sento liberato da questo. Mi sembra di vivere questa diversa dimensione e quello che propongo è un’alternativa. È ciò che vedo e ciò che sento. Succede che mi appare un’immagine, ma non è nitida; lascio che maturi e poi mi ritrovo davanti alla tela a disegnare, sparendo con la mia essenza, e lasciando che sia solo questa sorta di spirito, di istinto, non so cosa, ad agire.

Come hai conosciuto Giovanni Faccenda, curatore della mostra?
Sono accadute tutte cose incredibili. Qualche mese fa, dopo una piccola mostra che mi avevano costretto a fare alcuni amici in un posto sconosciuto, ho cercato di divulgarmi un po’, ma tutto da solo. Un giorno ho telefonato ad una ragazza della rivista Arte che si occupa della vendita delle pagine pubblicitarie, ci siamo messi a parlare, poi le ho detto “senti, ho capito che ti occupi della parte pubblicitaria, ma ho intuito che un minimo di sensibilità artistica ce l’hai, damme ‘na mano, dove devo andare a sbattere le corna?”. Le ho mandato qualche foto e la sua risposta è stata: “sono sconvolta, le mando immediatamente ad un mio carissimo amico”. Il giorno dopo mi ha chiamato Giovanni Faccenda dicendomi “Maestro, nelle sue opere c’è finalmente qualcosa di nuovo che sono cent’anni che non si vede” e io “Come maestro? Ho iniziato a dipingere ieri…”. Così ci siamo conosciuti.

La linea, tratto nero per eccellenza, segno di demarcazione, nelle tue opere è bianca, un “nulla”, potremmo dire, che, paradossalmente, si carica di una forza straordinaria… come mai?
È uscita fuori così dal primo schizzo, non so perché. È come se io lavorassi al contrario, seguo un percorso inverso: quando do il colore in realtà è come se stessi, in una qualche forma, scartando la tela e scoprendo il colore che c’è sotto. Per cui, alla fine, misteriosamente, è proprio la parte non dipinta che definisce il quadro, cioè la tela. Quando dipingo stendo il colore e lo accosto all’altro lasciando questa linea bianca, però è proprio la parte non dipinta, quella senza colore che dà colore al quadro, ma non solo, dà luce, accende tutto. È una cosa misteriosa, non è stata una premeditazione, è stata una scoperta.

Nella mostra c’è un opera, Le Nozze, che tu hai dipinto due volte, una nel 2009, l’altra nel 2011: il disegno è lo stesso, i colori sono diversi. Perché?
Quella è stata una prova che ho voluto fare. Forse anche quella è una cosa curiosa visto che mi sono sposato due volte e Le Nozze è l’unico quadro che ho fatto due volte. Adesso che ci penso, chissà… Questo dimostra come io concepisco la pittura. Immagino la tela come un utero, il disegno come se fossero le ovaie e il colore è lo sperma che le feconda e genera quel quadro. Se tu cambi colore con quelle stesse ovaie si origina un altro quadro. È per questo che nella mostra ho chiamato la raccolta delle tavolozze Opera Zero- DNAperché la tavolozza è il DNA di ogni quadro e ogni quadro ha la propria. Qualora qualcuno un giorno acquisterà un mio quadro, lo prenderà con la sua tavolozza perché la tavolozza fa parte del dipinto, è il suo certificato di nascita… capito?

Cosa pensi del sistema dell’arte?
Una merda totale. Io sono entrato da poco tempo ma non ci è voluto molto per capire che è veramente una merda. E purtroppo ogni tanto qualcuno ne paga le conseguenze. Come Vettor Pisani, che si è suicidato da poco, e in parte so, disgustato da quello che c’è.

Cosa dovrebbe cambiare?
Se l’arte è arte non può essere mercato dell’arte secondo me, questo dovrebbe cambiare. Ma è impossibile. L’arte è provare delle emozioni, è piangere davanti ad un’opera e, quando tutto questo viene fagocitato dal cosiddetto mercato dell’arte, si trasforma in qualche cosa di misero, di miserevole, perché non si può mercificare l’anima. Nel momento in cui la rendi merce di scambio perde il suo contenuto, il suo valore, e allora a quel punto non vive più, muore. E prova ne è anche il fatto che sono tutti meravigliati dalle mie opere, successo di critica, di pubblico, ma nessuno che mi chieda di acquistare un quadro. Curiosa questa cosa: sono belli da vedere, ma non da comprare. E non è che non acquistino i miei quadri perché costano troppo, no, nessuno chiede neanche quanto costino. E questo è sorprendente, è fantastico, perché significa che io, nel mio piccolo, ho rotto il mercato dell’arte, cioè non sono merce per l’arte, ma sono uno strumento per l’arte. Questa è l’unica cosa che mi riempie, che mi dà la vita e che completa il lavoro che sto facendo.

Quindi come ti collochi nel mercato dell’arte?
Io non faccio parte del mercato dell’arte e non vorrò mai farne parte. Non ho iniziato a dipingere per vendere quadri. Non ho cercato gallerie che mi rappresentino. Vado da solo. Perché il mercato dell’arte è il Supermercato. Vedo artisti che fanno anche un quadro al giorno, io non farò mai nulla per qualcuno che mi dice “mi servono 10 quadri da 1mx1m”. Perché io per un quadro ci metto settimane, un mese, due mesi, sto lì, soffro, mi sento male, piango, mi dispero, oppure non faccio più un cazzo, sto fermo quindici giorni e non riesco più a far niente: è un’altra forma di vivere l’arte, se è arte. Poi potrei anche mettermi a fare mercato, ma significa che ritorno a fare la vita di merda di prima quando facevo l’architetto, quando i miei progetti erano condizionati, finalizzati alla committenza, al finanziamento, e io quella vita non la voglio più fare, l’ho lasciata proprio perché ero disgustato  e nauseato da tutto questo.

Come fai a vivere?
Preferisco fare la fame. Ho venduto tutto quello che mi ha dato la vita passata. Mi è rimasta una casa, venderò pure quella, tornerò a vivere in una baracca, dove è iniziata la mia vita, non mi interessa, basta che continuo a dipingere. Però così, senza la necessità di ricavare soldi.

Hai qualche paura?
Ho una paura: quella di non riuscire a fare l’ultimo quadro, che io so già qual è, ce l’ho conservato lì. E poi il mio terrore più grande è che finisca tutto questo, cioè che ad un certo punto quest’anima, questo spirito che in qualche modo si è impossessato di me, non so di chi, perché non lo so, però so che c’è qualcosa, che forse era già dentro, ho il terrore che svanisca, finisca tutto. Tutto qua.

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