Basta un’immagine a volte ad isolare, dal magma confuso di pensieri, un singolo filo lungo cui risalire, stringendolo forte tra le dita, ad una struttura ordinata e coesa, di qualche aiuto a dipanare un gomitolo, prima ingarbugliato e dal senso sfuggente. Nel caso in specie è stata una mostra di pittura vista durante l’estate a richiamare un ricordo, e poi, da un’associazione all’altra, approdare ad aspetti più ampi di una questione generale.
È un pittore di paesaggi, Guy Migliaccio, italo-americano che vive e lavora a New York, uso tornare ogni anno nella sua isola di origine; da qualche tempo, ogni volta con una collezione di nuovi quadri che ne ritraggono aspetti diversi, scorci o visuali a volte sconosciuti agli stessi isolani.
La ripetitività dei dipinti, pur nella loro varietà, ma sempre Ponza, anche se da angoli diversi; l’assenza di figure umane; la consuetudine di tornare ogni anno dall’estero, per rinverdire i suoi ricordi dell’isola. Tutti questi aspetti, da qualche piega della mente mi hanno richiamato la storia di Franco Magnani e di Pontito, così com’è stata raccontata da Oliver Sacks in Un antropologo su Marte – An Anthropologist on Mars; 1995, Adelphi)…
Ma andiamo in ordine.
Oliver Sacks è un neurologo-scrittore inglese, noto per aver introdotto un farmaco, la L-dopa, nel trattamento dell’encefalite letargica. Questa esperienza è raccontata nel suo libro Risvegli (Awakenings del 1973) ed è stata poi trasposta in un film dallo stesso titolo (regia di Penny Marshall; 1990), in cui Robin Williams impersona il neurologo e un grande Robert De Niro il suo paziente Lowe [a questa storia si è già accennato, dal punto di vista del tempo rallentato [V. su “O”: Fermare il tempo (seconda parte) del 14.09.08].
E’ stato l’esordio (dopo ‘Emicrania’, Migraine, del 1970) di Sacks come scrittore di successo, seguito da molti altri libri, sempre centrati sulle sue esperienze di neurologo e connotati da fedeltà e rigore scientifico; ma con una acuta attenzione agli aspetti ‘umani’ dei suoi ‘casi’. In generale le sue storie vertono sulle modalità con cui un trauma o una menomazione neurologica attivano una serie complessa di processi adattativi che permettono all’individuo di superare/aggirare il problema, eventualmente dotandolo di nuove, ancorché inusitate capacità.
Così ne ‘L’Uomo che scambiò sua moglie per un cappello’ (The Man Who Mistook His Wife for a Hat) (1985) e nel libro già citato.
Qui, nel capitolo ‘Il paesaggio dei suoi sogni’ è riportato il caso di un pittore italo- americano, Franco Magnani, che aveva stimolato la curiosità del neurologo-scrittore per l’ossessività del tema dei suoi dipinti: vi era raffigurato sempre Pontito, un piccolo paese sulle colline di Castelvecchio (in provincia di Pistoia, a una sessantina di chilometri a ovest di Firenze) da cui il pittore era emigrato in America ancora bambino in circostanze drammatiche; per meglio dire, ne era stato strappato.
Una particolarità di rilievo sta nel fatto che questi dipinti erano stati eseguiti ‘a memoria’, a distanza di molti anni dall’abbandono di quei luoghi, poiché l’artista non era più tornato nel paese d’origine (ci è tornato tempo dopo, in compagnia dello stesso Sacks). Né sapeva egli stesso di essere un pittore dotato, fino a quando, dopo una misteriosa malattia, o acuta depressione, aveva sentito l’irresistibile bisogno di dare espressione attraverso dei dipinti a quel mondo – lontano nello spazio e nel tempo – di pietre e strade che gli urgeva dentro.
Certo una straordinaria capacità ‘eidetica’, di richiamare alla memoria particolari minimi con una fedeltà assoluta, come venne accertato in seguito; ma anche un forte contenuto emotivo: la promessa fatta da bambino alla madre di ricostruire il paese per lei; di far ‘rivivere’ Pontito per sempre.
Sui meccanismi della memoria e sugli ‘inneschi’ capaci di attivarla, Sacks indaga con acume e partecipazione umana. E suscita ulteriori curiosità ed associazioni su come funziona la memoria; come saranno i sogni di chi dalla nascita è privo della vista? – è un’altra domanda che si/ci pone lo scrittore in un’altra parte della sua opera.
In questo caso ce n’era d’avanzo per stimolare l’interesse di uno come Sacks che aveva iniziato i suoi studi sulla memoria attratto dal lavoro di uno degli iniziatori della neuropsicologia, il russo Alexander Lurjia (1902 – 1977) e da uno dei suoi saggi più conosciuti: Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla (1968).
Tornando a Guy Migliaccio. Gli ho fatto avere lo scritto di Oliver Sacks. Mi risponderà, una volta tornato negli Stati Uniti, dove vive. Anche se già mi ha anticipato che non ha avuto traumi cerebrali e che non dipinge a memoria… Ma siamo sempre curiosi di sapere come funziona la memoria degli artisti; di come essa ‘si attiva’.
Non vorrei parlare ‘in astratto’, ma della memoria di ciascuno di noi e di quanto possiamo trarre da alcuni esempi – e ognuno potrebbe, per ciascuna sezione considerata, richiamare i suoi propri modelli – presi dalla letteratura o dal cinema, che di memoria si nutrono…
E’ il momento della Memoria – o è la nostra attenzione ad essere diventata più selettiva? Capita più spesso alla fine di eventi ciclici: della vita biologica, di un’epoca, di una civiltà…
Il quotidiano La Repubblica ha pubblicato durante l’estate una serie di interviste ad artisti e personaggi pubblici, dal titolo generale: Il posto delle fragole, incentrate sui ricordi che più profondamente ne hanno segnato la vita successiva. Il richiamo è all’omonimo film di Ingmar Bergman (1957) dove ‘il posto delle fragole’, frutto che in Svezia rappresenta la primavera, è per traslato, il mondo incantato dell’infanzia…
Conosciamo attraverso i nostri sensi. Sempre attraverso di essi ricordiamo; addirittura sogniamo. Le stesse ‘emozioni’ sono composte da elementi base fornite dai sensi.
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La vista è stato il nostro punto di partenza. La riproduzione del ricordo visivo, da cui tanto cinema e pittura prendono le mosse. Osservare e riprodurre. Ma anche osservare e incamerare, quindi raffigurare a distanza di tempo/luogo. Claude Monet (1840-1926) dipinse ossessivamente quasi solo ninfee per gli ultimi trent’anni della sua vita. Dopo aver tanto lavorato all’ideazione e alla pratica costruzione dello stagno che le avrebbe ospitate, nel suo giardino di Giverny, le “ricreò” poi su dodici enormi tele, rigorosamente dipinte “in studio”, quindi a distanza dalla loro realtà effettiva. Un’estrazione dell’essenza, dalla memoria; la creazione di un “assoluto” che trascende il mondo reale.
Così ne scrive:
“Lavoro tutto il giorno a queste tele, me le passano una dopo l’altra. Nell’atmosfera riappare un colore che avevo scoperto ieri e abbozzato su una delle tele. Immediatamente il dipinto mi viene dato e cerco il più rapidamente possibile di fissare in modo definitivo la visione, ma di solito essa scompare rapidamente per lasciare il suo posto a un altro colore già registrato qualche giorno prima in un altro studio, che mi viene subito posto innanzi; e si continua così tutto il giorno”…
Riporta ancora, nel 1925, il vecchio artista, cui una malattia agli occhi rendeva indistinte le tonalità di colore: “Non dormo più per colpa loro. Di notte sono continuamente ossessionato da ciò che sto cercando di realizzare. Mi alzo la mattina rotto di fatica (…) dipingere è così difficile e torturante. L’autunno scorso ho bruciato sei tele insieme con le foglie morte del giardino. Ce n’è abbastanza per disperarsi. Ma non vorrei morire prima di aver detto tutto quel che avevo da dire; o almeno aver tentato. E i miei giorni sono contati”.
Il gusto. Forse il monumento letterario alla memoria più maestoso e conosciuto è quello edificato da Marcel Proust, che partì da una semplice agnizione, rievocata nelle prime pagine della Recherche.
La famosa madeleine di Proust e i suoi pallidi succedanei: dalla ‘prima sorsata di birra’ al più rustico ‘primo acino di uva fragola’. Tutte evocazioni della memoria, violente, ma anche dolci e insinuanti, legate al gusto, pur nelle incommensurabili diversità dello stile…
La piccola esperienza che dà inizio alla grande opera si trova rievocata nelle prime pagine della Récherche; in La strada di Swann (Du côté de chez Swann, 1913), nella parte prima: “Combray”, alcune pagine dopo il famoso incipit (nella traduzione di Natalia Ginzburg): “Per molto tempo mi son coricato presto, la sera”:
(…) Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla prospettiva d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè in cui avevo inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma nel momento stesso in cui quel sorso, misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità inoffensive, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l’amore, colmandomi d’una essenza preziosa: o meglio, quest’essenza non era in me, era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale.
Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era legata al sapore del tè e della focaccia, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo da cui ricevo meno che dal secondo. È tempo ch’io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me”.
È qui che si rivela anche un’altra delle caratteristiche della memoria: quella di non lasciarsi sottomettere né richiamare a volontà. Torna quando vuole, con suoi tempi inesplicabili e per tortuosi percorsi, e gli esseri umani ne sono travolti, come da una forza irresistibile.
Ma altri sensi ancora operano come potenti evocatori della memoria. Tra i meno considerati è l’udito, di cui ci viene mostrato un magistrale coinvolgimento nello scritto sotto riportato.
Andrea è un giudice siciliano, da anni trasferito a Milano, che nell’impegno della nuova vita, professionale e affettiva, si è lasciato alle spalle tutto il mondo isolano, dell’infanzia e dell’adolescenza. Che gli torna prepotentemente addosso, per caso e senza nessuna possibilità per lui di interferire con quanto gli accade dentro…
“Teneva dunque gli occhi bassi quando li aveva sentiti. Ed era rimasto di stucco, perché quelle parole, dette in quella lingua e in quella cadenza, gli erano cadute dentro come gocce d’acido.
“Pugnu cutùgnu, a cu ci rugnu ‘u pugnu…” stava cantilenando qualcuno, e Andrea aveva subito chiuso gli occhi, si era rivisto bambino a ripetere con Rosetta, la figlia della cuoca, la stessa filastrocca: “…ci ‘u rugnu a ta’ mugghièri ca è figghia di cavaleri…”.
Aveva rizzato la testa e li aveva visti: quattro ragazzi, studenti forse, o militari in libera uscita, che si contendevano una bottiglia di birra. E intanto che uno faceva la conta, toccando con l’indice il petto degli altri, gli altri sfottevano quello di loro che sembrava il più timido.
[…] Andrea neppure si sarebbe accorto di loro. Ma quelle parole… quel rotolare di sillabe tra i denti, quel discorrere fluido, svelto e sincopato, come se l’urgenza del dire sopraffacesse le pause del respiro e le parole venissero fuori tutte insieme in una sequenza che sembrava canto… quelle parole erano come rasoiate nello stomaco, acido che sfaldava la crosta delle abitudini e gli restituiva, intatto, il mondo di quand’era bambino.
Fermo in mezzo alla piazza, Andrea aveva chiuso gli occhi e subito nella sua testa s’erano accavallati suoni e immagini: lo sciacquio del mare, il richiamo del venditore di sale, le grida dei pescatori da una barca all’altra, il rintocco delle campane, l’abbaio smorzato di Surdìttu il bastardino sordo che indovinava meglio degli altri ogni suo comando e l’amava con una devozione che neppure un cristiano”.
[Da Tea Ranno: In una lingua che non so più dire – 2007; Edizioni e/o]
Forse nessun altro senso come l’olfatto smuove associazioni e ricordi.
È esperienza di chiunque, in un giardino o altrove, essere stato attirato da un ‘filo’ di profumo e riportato irresistibilmente all’indietro, in altro spazio-tempo, con caratteristiche di assoluta focalizzazione di un momento e di un’emozione vissuti; senza potersene staccare finché dura la ‘visione’ e di cui a lungo permane il turbamento.
Se ne è già parlato diffusamente su queste pagine [V. su “O”: Il giardino e gli odori del 30.04.07]. Nello specifico si rimandava a Il profumo di Patrick Süskind (1985) ad un brano di Robert Sheckley dal romanzo seguente…
Il tatto. In casi estremi, quando i sensi più comunemente impiegati sono fuori funzione, viene messa in atto una memoria tattile, o meglio un richiamo attraverso stimoli tattili, come ben sanno medici e infermieri che conoscono quel modo di comunicare con pazienti in condizioni estreme.
È anche una scena dell’indimenticabile film di Dalton Trumbo… E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun; 1971) – uno dei più potenti manifesti anti-militaristi della storia del cinema – che costituisce l’unica opera dell’Autore-regista, seguita ad un suo romanzo di circa 30 anni prima (1939), dallo stesso titolo. Perché, in quale altro modo si può suscitare un ricordo in un troncone umano, senza braccia e gambe, con mezza faccia portata via dallo scoppio di una granata?
Il sogno. A queste cinque categorie ‘sensoriali’ ben distinte, ne aggiungerei una meno definita: il sogno. Non è raro svegliarsi con un’agnizione, l’aura di un ricordo che vuole uscire, che è proprio lì, sull’orlo della coscienza.
Il sogno pesca a caso, o in maniera imperscrutabile, nel Museo segreto – a noi stesso precluso – della nostra memoria, ma spesso i suoi effetti sono sconvolgenti. Sognano – per fare due esempi opposti – Ebenezer Scrooge nel Canto di Natale di Dickens (A Christmas Carol, 1843) e Giacomo Casanova (1725 -1798) quando nel gelo del castello di Dux, in Boemia, si accinge a por mano alla stesura delle sue memorie: Histoire de ma vie (1791 e segg.). In entrambi i casi e in molti altri, nella letteratura e nella vita reale, la loro vita ne verrà cambiata.
A volte – molto spesso – la Memoria sconfina nella Nostalgia, il rimpianto del (bel?) tempo passato. Di quella, anche nella sua forma esotica di saudade, abbiamo già scritto, enumerando le varietà di specie, i seicentotredici tipi di tristezza citati in un libro… [V. su “O”: Giardini. La porta sull’estate del 20.07.09].
Ma non abbiamo voluto parlare di nostalgia, né di ricordi; solo della memoria spontanea, involontaria, nel senso di Proust. Una memoria indipendente da ogni nostro tentativo di richiamarla a volontà; dai contenuti che possono coprire tutta la gamma emotiva, dall’estremo piacere al terrore puro.
Ma allora – si dirà – sono discorsi oziosi quelli di sistematizzare categorie per la memoria?
Forse, ma possono trovare una loro ragione nella ripetitività dei meccanismi suscitatori, e/o spingere ciascuno a riconoscere i propri. Potrebbero anche indurre a far più attenzione, educare ai messaggi che vengono da un particolare senso.
È che le memorie sono preziose. Se non provvediamo a salvarle in qualche modo – in qualunque modo – muoiono con noi, come, emblematicamente, il segreto di Charles Foster Kane – Citizen Kane, ‘Quarto potere’ (1941) – nel primo vero film diretto da Orson Welles, quando aveva 25 anni: quel nome “ROSEBUD” scritto sulla slitta che brucerà nel rogo delle sue cose e della sua memoria.
Finale da Proust:
“I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono soltanto al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggior facilità. Essi non erano che uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che formavano la nostra vita d’allora e il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo minuto; e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi, ahimé, come gli anni”.
[Da: La strada di Swann – op. cit.]