Domitilla Dardi: “Gerrit Rietveld è stato uno dei più grandi maestri del Novecento”

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Gerrit Rietveld è stato architetto, designer, falegname, artigiano dalle capacità straordinarie. Eppure, solo dopo 45 anni dalla sua morte si comincia a rivalutarne l’insegnamento. Un insegnamento basato sulla "concretezza del fare" e che dunque mai,

Gerrit Rietveld è stato architetto, designer, falegname, artigiano dalle capacità straordinarie. Eppure, solo dopo 45 anni dalla sua morte si comincia a rivalutarne l’insegnamento. Un insegnamento basato sulla “concretezza del fare” e che dunque mai, come adesso, “epoca di facili formalismi”, può essere utile.
Ne parliamo con Domitilla Dardi, curatrice, insieme a Maristella Casciato, della mostra Universo Rietveld, al Maxxi fino al 10 luglio.

 

 

Chi è stato Gerrit Rietveld?

Gerrit Rietveld è stato uno dei più grandi maestri del Novecento. La sua ricerca nel campo specifico del design ha segnato uno degli inizi nel concepire il progetto in maniera contemporanea.

 

 

È la prima volta che viene realizzata una retrospettiva monografica su di lui in Italia. Come mai solo oggi?

Probabilmente sono dovuti passare più di 45 anni dalla sua morte per poterne rivalutare nel complesso la figura e l’importanza che ha avuto per la cultura internazionale. Soprattutto perché Rietveld è un personaggio molto complesso e la sua produzione va ben oltre i suoi grandi successi che hanno rappresentato da un lato la sua fortuna critica, ma dall’altro lo hanno stigmatizzato e relegato in una riconoscibilità vasta, ma fatta sui soliti tre pezzi (Casa Schroder, la sedia Rosso e Blu e la sedia Zig-Zag).

 

 

Qual è l’insegnamento di Rietveld che non si può e non si deve dimenticare?

Dopo gli anni Venti e il contatto con l’avanguardia De Stijl Rietveld aveva acquisito una fama internazionale: la sua prima e più nota opera architettonica, la casa Schroder, era diventata un fulcro di attenzione per la cultura internazionale e anche i suoi mobili basati su uno snodo “cartesiano” a tre assi e sull’asimmetria avevano fatto il giro delle riviste di tutto il mondo per la novità della concezione. Eppure egli non si è fermato a questo, non si è accontentato di rimanere ancorato agli stilemi del suo successo continuando a cavalcarne l’onda, ma si è rivolto a molte altre sperimentazioni. Credo che questo nasca da una caratteristica caratteriale molto personale, ma anche da una mentalità calvinista olandese basata sulla concretezza del fare e l’umiltà del procedere attraverso prove e riprove. Questo, in epoca di facili formalismi e firme che giocano sempre sulla reiterazione dello stesso linguaggio per essere riconoscibili, credo sia un grande insegnamento di pensiero lavorativo e progettuale.

 

 

La casa Schröder è manifesto della sua attività. Ci spiega in cosa consiste la “grandezza” di questo manufatto architettonico?

La casa fu progettata a quattro mani insieme alla sua committente, Truus Schröder, la quale, rimasta vedova con tre figli, voleva uno spazio per la sua famiglia e aveva idee ben chiare su come viverlo, questo spazio. Desiderava una sorta di “torre” sospesa e fluttuante nel paesaggio, un interno flessibile dove lo spazio fosse percepibile ad un singolo colpo d’occhio, ma anche potenzialmente distinto da setti. Per questo la più grande rivoluzione fu quella di adottare un open space con pareti costituite da pannelli lignei che scorrono su binari posti al soffitto, in grado di separare gli ambienti a seconda delle necessità. L’idea è quindi quella di uno spazio dominato da distinzione delle parti, ma non da separatezza e di creare nel suo complesso un organismo architettonico di grande leggerezza, “antigravitazionale”, per dirla alla Van Doesburg, pensato per far fluire liberamente i movimenti e seguire le esigenze dei suoi abitanti. In sintesi uno spazio molto a misura di chi lo vive.

 

 

La casa Schröder è anche emblema dell’importanza del rapporto indissolubile committente-architetto (nel ‘400 Filarete addirittura attribuiva la paternità dell’opera al committente, mentre definiva “solo” madre l’architetto). È cambiato oggi questo rapporto?

Esistono diverse tipologie di architetto e di committente. Oggi chi si affida a una star dell’architettura di solito non è neanche definibile come “committente” nel senso puro del termine: tranne rare eccezioni, si tratta di “clienti” che delegano all’architetto la creazione del più intimo e sacro degli spazi, quello del proprio personale abitare, e a volte lo fanno senza neanche conoscere le proprie esigenze. Costruire una casa è un percorso di conoscenza profondo, tra architetto e committente e di ognuna di queste parti per se stessa. È un’esperienza che obbliga in un certo senso a porsi domande molto precise riguardanti la propria idea di vivere ancor prima del “come” vivere lo spazio e come si vuole che esso appaia agli altri. Per questo casa Schröder è un caso esemplare di come la creazione di uno spazio abitabile eccezionale voglia dire prima di tutto essere disposti a un percorso di conoscenza. E questo è un lusso tutto mentale che non ha niente a che fare col solo aspetto economico; ma è un cammino che non tutti possono permettersi di intraprendere. Pagare qualcuno per dare un’immagine di noi stessi e costruirci il nostro ambiente abitabile sembrerebbe più facile. Ma credo sia stato sempre così, non è un dato della nostra società contemporanea. Oggi è solo più facile trovare una pronta omologazione “chiavi in mano”.

 

 

Rietveld è stato, oltre ad architetto, artigiano e designer, e ha dedicato gran parte della sua attività alla progettazione di sedie. Come mai proprio questo oggetto?

Perché la sedia è, soprattutto per un falegname, uno degli strumenti più immediati per il controllo di una propria ricerca, per testare un nuovo modo di concepire un progetto. Quella del sedersi è una funzione essenziale e basilare al tempo stesso, una sorta di invariante funzionale che permette di lavorare sull’aspetto processuale, materiale e formale dell’oggetto con grande libertà.

 

 

La sedia Red and blue è del 1923, la Zig zag del 1934, eppure potrebbero tranquillamente essere attribuite ad un designer contemporaneo. Rietveld è stato sicuramente straordinario anticipatore dei tempi, ma si può dire che in parte il design contemporaneo non riesca a trovare la propria identità rinnovando i modelli cui fa riferimento?

Rietveld quando ha progettato i suoi capolavori cercava di porsi con un occhio nuovo di fronte a oggetti dalla tipologia millenaria come le sedie. Quando progetta sia la Rosso Blu che la Zig-Zag il mobilio imperante è ancora quello pesante e polveroso, adorno di riferimenti storicistici del secolo precedente. Egli cerca di fare tabula rasa del passato e di ripartire da un grado zero per capire come un oggetto possa tendere in alcuni casi all’astrazione e all’essenziale. Non credo che nel design contemporaneo manchi questa voglia di trovare una strada inedita, anzi. Solo che a volte la ricerca dell’inedito può portare al progetto dell’inusuale a tutti costi, all’eccentricità fine a sé stessa, a una presunta provocazione polemica di cui sinceramente non riesce a scandalizzarsi o stupirsi più nessuno. Ma esistono anche bravissimi designer oggi che proseguono nella via della ricerca segnata da Rietveld e i loro risultati, benché diversi, non sono da meno in termini di impegno e di interesse.

 

 

Ha iniziato a lavorare come falegname nella bottega del padre prima di dedicarsi agli studi, dimostrando ancora una volta come in architettura il legame teoria-prassi sia indissolubile… Nella formazione degli architetti ritiene che in parte oggi si sia persa l’importanza necessaria di questo legame?

Penso che una grande abitudine ai sistemi computerizzati abbia impoverito la capacità di molti giovani all’uso manuale del pensiero. Il legame tra cervello e mano è indispensabile come hanno dimostrato molto grandi scienziati e teorici e la virtualità del computer non può sostituirlo. Tutti i grandi designer continuano a usare modelli realizzati artigianalmente per la riprova delle loro intuizioni e usano il computer per la realizzazione di esecutivi. Nelle migliori scuole di design, non a caso, continuano a esserci laboratori per modelli e non solo aule computer.

 

 

È stato Rietveld  ad inventare il “seggiolone” ed è stato uno dei primi a progettare mobili e oggetti per bambini. Questo dimostra la sua attenzione alla concretezza del vivere, alla funzionalità, all’utilità, caratteristiche da cui il design non dovrebbe prescindere… Tuttora è così?

Assolutamente sì. Solo che per alcuni designer la funzione pratica non è la parte centrale della ricerca. Alcuni pongono l’utilità come fulcro del loro lavoro, altri prediligono aspetti più emozionali. Il problema non è scegliere l’uno o l’altro, ma avere l’onestà di dichiararlo in un progetto chiaro.

 

Il design è nato con l’intento di poter rendere accessibile a tutti, e non solo ad un’élite, la fusione di qualità, funzionalità ed estetica degli oggetti. È riuscito nei suoi intenti?

Direi proprio di sì, oggi tutti abbiamo l’occasione di scegliere oggetti di qualità per il nostro vivere quotidiano e di farlo in diverse fasce di disponibilità economica. Direi che allo status symbol del passato oggi si è sostituito uno style symbol: la variazione dell’offerta implica una scelta e ognuno di noi è chiamato a scegliere consapevolmente o inconsapevolmente lo “stile” che più gli appartiene. Il problema è tutto su quella consapevolezza. Oggi non mancano oggetti di qualità, ma più spesso è l’educazione al riconoscerli, l’allenamento a una scelta consapevole, ad essere assente. Ed è davvero un fatto di abitudine: vedo tanti giovani che pongono una grande attenzione nella scelta del loro abbigliamento e imparano a farlo costantemente da quando sono adolescenti e poi vivono in ambienti arredati come piaceva ai loro nonni senza neanche notare la distanza tra gli abiti che indossano e l’ambiente che li circonda, solo perché non sono abituati a pensarci.

 

 

Ci sono aspetti dell’attività di Rietveld ancora sottovalutati?

La mostra mette in rilievo aspetti del suo lavoro a dir poco pionerisitici: l’attenzione al mobile per l’infanzia, ma anche l’idea di un mobile democratico fatto con materiali poveri come le tavolette di legno grezzo da imballaggio che erano pensati per essere auto-assemblati dall’utente. E ancora la sua ricerca sui materiali pieghevoli e sulla possibilità di ottenere volumi tridimensionali partendo da lastre di materiale bidimensionali. Tutto questo ci dimostra che Rietveld è stato davvero un grande maestro la cui lezione è in gran parte ancora da scoprire.

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