“In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”
Henri Laborit (1914-1995)
L’isola è ancora adesso selvaggia e pressoché disabitata; figuriamoci come doveva essere alla metà degli anni ’60, quando divenne la meta preferita delle nostre scorribande di ragazzini. Avventure solo apparentemente arrischiate – tra l’isola principale e l’altra ci sono sette miglia di mare aperto – ma erano altri tempi: ragazzini più indipendenti e genitori meno apprensivi; poi c’era sempre uno più grande nelle spedizioni e in un’isola tutti controllano tutti gli altri. Svantaggi e vantaggi.

C’era quest’isola – più piccola rispetto all’isola madre – cui si arrivava con poco più di un’ora di barca a motore. Ed era un sogno di libertà fatto reale.
Si stava tutto il giorno per mare, si pescava… sott’acqua e dalla barca – i mitici ‘sorci di mare’! Chi li ha più visti? Li ho forse sognati? -; poi si cuoceva il pesce sulla spiaggia. Quando ci era possibile strappare alla famiglia il permesso di rimanere qualche giorno, ci organizzavamo nelle grotte attrezzate di amici di amici.


La roccia è unita alla spiaggia da una lingua di terra, oggi proprietà privata, recintata, e base di elicotteri. Il piccolo istmo, a quel tempo, era il posto ideale per campeggiare e teatro di grandi grigliate.
Qualche anno dopo, ebbi il mio primo (e unico) gommone – uno Zodiac Astral 3.60. Una volta riuscimmo a riempirlo a tal punto di persone e di provviste, da avere i bordi quasi al pelo dell’acqua; per fortuna il mare era calmissimo (il glorioso natante esiste ancora: riciclato e completamente aperto è diventato il fondo di uno stagnetto da giardino).
Ma in un’altra occasione, con un diverso mezzo, ci trovammo sull’orlo di una tempesta estiva, con minacciose trombe d’aria visibili in lontananza. Quella volta ci spaventammo, e in mancanza delle cinture di salvataggio – allora, nell’incoscienza della gioventù, nemmeno erano contemplate! – mettemmo tutti maschere e pinne, pronti al peggio. Andò bene; riparammo appena in tempo in un anfratto di roccia sotto costa.
Poi venne la stagione del campeggio. Parliamo dei primi anni ’70: attualmente è severamente vietato, sull’isola. Il posto che avevamo scelto si chiama ‘A chian’u’iaggie – ‘la Piana del Viaggio’, sempre sul versante di ponente – poco distante dalla spiaggia, cui si arrivava a piedi. Lì piazzammo le tende… C’era un nucleo stanziale di 3-4 persone sul posto; io facevo su e giù con Roma – in gommone all’isola grande, poi aliscafo, treno, macchina; andata e ritorno – perché nel fine settimana lavoravo. In tutt’altro campo.
Portavo via con me il venerdì sera un gruppo di amici e tornavo il lunedì mattina con altri. In un mese quattro gruppi diversi; cambiavano le persone e insieme gli interessi, le cose che si facevano insieme. Di lì nacque tutta una teoria sulle vacanze che fu applicata per anni a seguire!

Esistono diversi libri sull’arcipelago delle ponziane e su quest’isola in particolare; ne cito soltanto due:



In un passato non troppo lontano da noi, l’isola era stata colonizzata ed adibita soprattutto alla coltivazione della vite. I relativi terrazzamenti, in parte crollati per assenza di manutenzione, sono visibili dopo gli incendi e in alcune foto dall’alto.

Ma la sua storia è molto antica, a causa della presenza, qui e in altre isole, dell’ossidiana [V. su “O”: Campi e giardini nell’isola di lava. Mediterraneo grande madre del 20.09.09]. Si tratta di un vetro lavico di color nero risultante dalla fusione del magma ad altissime temperature, seguita da un brusco raffreddamento (verosimilmente nell’acqua del mare). Per la sua caratteristica di scheggiarsi in frammenti dai bordi taglienti, l’ossidiana era molto ricercata nell’antichità (meso-neolitico) per punte di frecce e lance, ma anche utensili e monili.
Altri periodi di cui si trovano importanti tracce su tutte le isole dell’arcipelago, sono quello romano e quello medioevale, con gli ordini monastici. Un sito web di recente creazione sta cercando di riunire questi fili sparsi e insieme di ricostruire il tessuto antropologico e di memorie delle isole.

La storia recente non è più antica del 1734. Le isole pontine – proprietà personale di Elisabetta Farnese andata in sposa a Filippo V di Spagna (che era alle sue seconde nozze) – passarono al momento dell’investitura, al figlio primogenito Carlo III di Borbone. Di qui inizia la storia ‘borbonica’ delle isole, già colonizzate nel passato da ceppi etnici diversi, ma di fatto disabitate ai primi del ‘700 e covo di pirati nostrani.
I Borbone favorirono l’insediamento di coloni provenienti dall’isola d’Ischia e in un secondo momento anche da Torre del Greco attribuendo ad essi i terreni in ‘enfiteusi perpetua’, una sorta di affitto/affidamento a tempo indeterminato. Nascono di qui le proprietà, le attività agricole e la destrezza nella marineria e nella pesca delle isole dell’arcipelago; su Palmarola come sulle altre.

Torniamo spesso sull’isola; preferibilmente in primavera, ma se capita anche in estate. A seconda del periodo, essa cambia veste e profumo, ed è sempre un piacere andarla ad incontrare, come la più bella delle regine: costituisce, dal punto di vista botanico, un ricchissimo catalogo en plein air della flora mediterranea.
Forse la stagione più bella e l’inizio della primavera – proprio in questi giorni – quando l’isola veste la sua livrea gialla a festa, per la prevalente fioritura delle ginestre (Genista ephedroides), che in dialetto viene chiamato ‘uastaccètt’, per il tronco flessibile su cui l’accetta rimbalza.


Gli asparagi di Palmarola costituiscono una raccolta di culto e un’irrinunciabile prelibatezza per i ponzesi, che hanno predilezioni botaniche ‘divoranti’; ma insieme nutrono per l’isola vicina un amore appassionato e totale: “Palmarola m’ha pigliato u’ core”.



Entrambe appartengono alla famiglia delle Fabaceae, o Leguminosae, per i semi contenuti nel caratteristico baccello o ‘legume’. Notare – nella foto – la differente complessione delle due piante; sullo sfondo Genista ephedroides già sfiorita); l’altra fioritura gialla, in primo piano, appartiene a Euphorbia dendroides.


Abbiamo notato, negli anni, una certa differenza all’‘andar per piante’, sia pure in isole cui siamo profondamente legati… Non è cambiato l’interesse per il mondo botanico, ma c’era in passato anche un gioco di intelligenza; come l’impegno a completare – con sempre nuove aggiunte e notizie – un ideale catalogo delle piante esistenti sul territorio. E’ diventato con il passar del tempo un pellegrinaggio della memoria, alla ricerca di ‘echi’, dalle forme, colori e profumi che ne promanano. E ancor più: un rito di rassicurazione. A cercar conferma che ci sono ancora; come ancoraggi in un mondo sempre più incerto.






E abbiamo dato finora solo un’occhiata fugace al mare che circonda l’isola, attraverso la sua vegetazione. Ma più in basso c’è tutta la costa da scoprire, per la prossima puntata…
[Ogni uomo è un’isola / Nessun uomo è un’isola.1 – Continua]