L’ufficio – dico così per farmi capire: tra noi che ci lavoriamo lo chiamiamo piuttosto lo sgabuzzino o il bugigattolo o la stanza – è un piccolo locale di qualche seminterrato in città. Ci sono quattro scrivanie, una per ognuno di noi dipendenti, poste agli angoli. Un lampadario di plastica gialla, che si trova esattamente al centro, ha un gambo così orrendamente lungo che pende dal soffitto fino quasi a toccare il pavimento, ha una luce fioca e rafferma che pare quella di una candela. Poi, addossati al muro, affianco a una grossa macchia d’umidità a forma di lingua, ci sono un distributore di caffè e un armadio con un’anta scardinata che lascia intuire cartelle e faldoni. Lungo il muro opposto corre una fila di sedie di legno, uguali a quelle che si usano nelle scuole: è lì che attendono i candidati. L’unica finestra, perennemente chiusa, è una striscia rettangolare che si trova in alto, lascia intravedere le scarpe veloci dei passanti, e l’unica porta, oltre a quella d’ingresso, dà in un bagno minuscolo, dove c’è solo la tazza con una tavoletta di legno e d’altra parte neppure esisterebbe spazio per installarvi un bidè o un lavabo.
Nonostante il chiuso, lì dentro fumiamo tutti e i posacenere sono sempre colmi. Noi ormai siamo abituati all’aria ferma della stanza.
Ce ne sono molti di questi uffici nei seminterrati della città, tutti identicamente arredati – il lampadario che sfiora il pavimento, l’armadio con l’anta scardinata, il minuscolo bagno e la tazza con la tavoletta di legno, il distributore dei caffè, la finestrella in alto sui piedi dei passanti, le sedie per i candidati, la macchia di umidità a forma di lingua sul muro. Io solo posso testimoniare d’averne visti quattordici: tanti sono stati i miei trasferimenti. Ma so di altri che mai si sono mossi dalla stanza in cui hanno iniziato e di chi invece è costretto quasi ogni giorno a spostarsi. I trasferimenti non sembrano dettati da mancanze o promozioni, ma soltanto dal caso, o forse da un disegno che noi, addetti al reclutamento, non sappiamo conoscere. Arriva una lettera a casa e dice che l’indomani lavori ad un nuovo indirizzo. La lettera è scritta a mano con una grafia di tempi lontani e non ha firma (a me piace accorgermi che pure in tempi come questi esiste chi ancora comunica per lettera). C’è chi sarebbe pronto a scommettere che esistono in città uffici diversi dai nostri, eppure identici tra loro, in cui lavorano persone col compito di scrivere le lettere di trasferimento, ma perlopiù evitiamo di fare congetture di qualsiasi tipo sul nostro lavoro, ci limitiamo a portarlo avanti meglio che possiamo, a reclutare chi, a nostro modo di vedere, è degno di combattere la prossima guerra di cui nulla sappiamo ma di cui nulla vogliamo sapere, e se questo atteggiamento può sembrare privo di scrupoli e indegno della razza cui apparteniamo – io stesso confesso d’avere faticato, nei primi giorni dell’incarico, a trovare il sonno –, ci pare ora di fare la cosa giusta, ci pare di lavorare per la guerra giusta. La paga è buona, arriva puntuale.
Quando chiamiamo il nome del candidato, quello si alza dalla sedia e viene di fronte alla nostra scrivania, in piedi di fronte a noi che sediamo. Tutti i candidati faticano a parlare e a muoversi, perché l’aria dell’ufficio li opprime – gli occhi gli si arrossano e il sudore gli vela fronte guance collo -, ma è già questo un primo criterio di selezione, forse il più valido: scartiamo chi mal sopporta la stanza, perché ben peggiori saranno le prove che gli toccherà affrontare in guerra. Subito, se l’arrossamento degli occhi è troppo violento e il velo di sudore troppo febbrile, crociamo la casella Non Idoneo e indichiamo al candidato la porta d’uscita. Se quello insiste e vuole andare avanti, scusandosi ch’è stato soltanto un attimo di debolezza, noi abbiamo il diritto – il dovere – di aprire il cassetto della scrivania, impugnare un sasso che lì attende, e scagliarlo addosso al candidato, scagliarne altri fino a scacciarlo dall’ufficio reclutamento. Altri criteri di selezione sono legati: ai riflessi, all’equilibrio, alla salute della bocca, alla forza, all’ampiezza della fronte, all’agilità delle dita. Gli idonei escono seri e pronti, verranno contattati al momento debito.
Un Idoneo è seduto vicino ad altri tre candidati, ricordo bene di averlo reclutato in questo o in qualche altro ufficio. Mi chiedo perché sia venuto. Spengo la sigaretta nel posacenere, mi alzo e gli vado di fronte. Gli dico che non ha bisogno di ulteriori informazioni, che sarà contattato al momento debito. L’Idoneo ride coi denti perfetti, deve tenersi la pancia per quanto gli viene da ridere, e adesso stanno ridendo pure quelli seduti vicino a lui, i candidati, si danno di gomito. Poi all’improvviso tornano seri. Si scusano. L’Idoneo mi dice che è questo il momento debito. Gli altri annuiscono gravemente.
– Che significa? – , domando, ma nessuno dei quattro mi risponde. Sono tutti vestiti in borghese, ma calzano anfibi militari. Arretro. Tornando verso la mia scrivania passo di fronte al distributore dei caffè. Un impiegato con gli occhiali, uno che lavora in questo ufficio da poco, è lì in piedi e sta girando il caffè, mi dice qualcosa che non sento. Mi avvicino e gli chiedo di ripetere. Senza alzare gli occhi dal bicchierino di plastica mi dice: – Lì, sulla sedia, quello rasato, l’ho reclutato un paio di giorni fa.
Non mi volto a guardare il rasato. Penso: questo, per noi dell’ufficio di reclutamento, è l’ultimo giorno di lavoro: certamente lo stesso destino starà toccando a tutti gli uffici di reclutamento sparsi per la città.
– Allora quei quattro sono tutti Idonei? -, domando all’impiegato con gli occhiali, che alza le spalle. Dice: – Tra quei quattro c’è il mio Idoneo e tanto basta.
Poi si accende una sigaretta e torna a sedere. Fa quello che fanno gli altri due dipendenti dell’ufficio: stanno infilando le schede dentro a cartelline apposite, ripuliscono la scrivania, passano il gomito sulla polvere, non gli importa di rovinarsi la giacca. Anch’io torno a sedere e anch’io pulisco la mia scrivania, meglio che posso. Su in alto, al di là della finestrella, i passi sembrano veloci come in fuga.
Gli Idonei iniziano a ticchettare con gli anfibi sul pavimento. Deve essere per una scaramanzia oscura o per un desiderio oscuro che nessuno tra di noi s’alza di scatto, i palmi sulla scrivania, e imbocca la porta d’uscita. Restiamo invece con le sigarette tra le dita, raggelati e zitti come una città sorvolata dal pesante aereo bombardiere nemico: la città trattiene il fiato e allora si sentono soltanto i motori da lassù, poi il cigolio metallico dei portelloni che si aprono, tanto lentamente da lasciare il tempo di notare la bella giornata nel cielo, le nuvole bianche intorno alla pancia enorme dell’aeroplano, da cui ora cadono sibili di bombe come stormi neri. Noi continuiamo a sedere. E pure quando quei quattro, gli Idonei, lentamente si alzano dalle sedie e le spezzano a calci e prendono a squarciare le cose intorno, noi reclutatori non alziamo gli occhi dalle scrivanie ormai ripulite, soltanto ci arrivano negli orecchi il rimbombo ferroso dell’anta dell’armadio che si spacca definitivamente, il distributore dei caffè sbattuto per terra, il fruscio dei fogli che volano, la plastica del lampadario che si crepa e scoppia il vetro della lampadina – ecco che ora si fa buio: la finestrella su in alto è una luce lontana e insignificante -, dal bagno martellano sul legno della tavoletta e sulla ceramica della tazza, e tutto è così accanito e voluto che viene il dubbio di non aver assoldato i militi che pensavamo, ma soltanto i demolitori dell’ufficio reclutamento, in un congegno impensabile e perverso, disorientante, dà le vertigini.
Poi c’è uno sparo e allora alzo gli occhi. Nel buio vedo l’impiegato con gli occhiali crollato a terra: sul muro, sulla macchia d’umidità a forma di lingua, c’è il suo sangue bruno. La guerra è iniziata e nessuno ha più bisogno dell’ufficio di reclutamento, lo so, per questo trovo eccessivo e inutile che, alzando lo sguardo sulla finestrella rettangolare, ci sia una bambina bionda accovacciata al livello delle scarpe dei passanti più frenetiche che mai, la bambina guarda verso l’interno, verso di me, e muove le labbra a ripetere che è iniziata, è iniziata, è iniziata. Tutto cambierà in meglio, le grido. E penso: tutto cambierà in meglio e sarà stato anche merito del nostro ufficio, merito del mio lavoro di reclutatore perfettamente eseguito. Mentre nella stanza esplodono altri due colpi, volto lo sguardo sull’uomo che mi punta la pistola. A lui e agli altri Idonei auguro tutto il bene di cui sono capace.