Vincitore del Gran Premio della Giuria e del Premio del Pubblico al Festival del Film di Roma, Hævnen-In a better world è un melodramma etico che supera i limiti imposti dal genere. Candidato all’Oscar 2011 come Miglior Film Straniero.
La parola ricorda così tanto l’inglese “heaven”. Ma le etimologie e le radici linguistiche a volte fanno strani scherzi, e il danese Hævnen sta per vendetta invece che per paradiso.
Vendetta e paradiso. Christian ed Elias; il primo ha appena perso la mamma, il secondo ha un papà medico che passa gran parte dell’anno a lavorare in un non meglio identificato Paese dell’Africa devastato dalla guerra civile. I genitori di Elias stanno per divorziare, e come se non bastasse il bambino viene continuamente preso di mira da un gruppo di bulli che terrorizza la scuola. Christian è appena tornato in Danimarca per vivere con il ricchissimo padre vedovo e con la nonna. Prende Elias sotto la sua protezione ed è deciso a vendicare con la violenza e se necessario con la morte ogni sopruso subito.
Trovare la strada giusta, capire come comportarsi davanti alla cattiveria. Questo è il dilemma con cui devono confrontarsi i due ragazzini. E la risposta non è facile, né tantomeno scontata. Non lo è in Africa e neanche nella lindissima e civilissima Danimarca. Se i tentativi di vendetta di Christian si rivelano auto-distruttivi prima che distruttivi, è vero che la tenacia non-violenta di Anton, il papà di Elias, lo porterà a curare nonostante tutto Big Man, il “signore della guerra” che sevizia le donne del campo profughi dove lavora. Ma fare “la cosa giusta” a volte è più complesso di quanto non sembri. E davanti all’incrollabile crudeltà dell’uomo Anton ritrova quella dose di “violenza” necessaria a sbattere Big Man fuori dal campo.
Chi è in grado di decidere quale sia il mondo migliore? Quello deciso da Christian e in cui ha trascinato Elias è il mondo della vendetta, di chi risponde alla violenza con la distruzione. Quello di Anton e degli adulti è o vorrebbe essere un mondo fatto d’amore e di tolleranza, ma sembra vacillare di fronte alla realtà, sembra non capire.
Non è un film semplice come l’apparente struttura a tesi sembrerebbe indicare, quello della Bier. E’ vero: la tendenza ad una schematicità didascalica e quasi didattica c’è e si avverte quando, finito l’effetto dell’impatto emotivo, ci si ritrova davanti a riflessioni postume più lucide. Ma è solo uno dei molteplici strati di Hævnen.
In realtà la complessità e la natura controversa dell’essere umano sembrano intrecciarsi in un gioco infinito di scatole cinesi.
I personaggi ne sono la dimostrazione. Prima di tutto i due piccoli protagonisti, Christian ed Elias. L’apparente facile dicotomia tra buono e cattivo si rivela costruzione ben più articolata, che al tempo stesso va oltre la banalità relativista del bene nel male e viceversa. I bambini sono amati, pieni d’affetto ma stanno male lo stesso. Non sono cattivi ma sentono che la risposta alla cattiveria è la violenza.
Bellissimo il ritratto di Anton. Come spesso accade nei film della Bier, ci troviamo di fronte ad un personaggio maschile idealista e per certi versi eroico nella sua ingenuità. Eppure non privo di colpe, come la relazione con un’altra donna che la moglie non riesce a perdonargli.
Così preso dal sacro fuoco dell’altruismo e dal bisogno di aiutare a costruire un mondo migliore, Anton non si accorge di quello che succede a casa sua, non sente la voce di Elias mentre gli racconta via skype dell’attentato che sta per preparare con Christian.
E’ distratto come l’altro padre, Claus, papà di Christian, e come lui minimizza. Solo la madre di Elias intuisce e si accorge che qualcosa non va, ne è inquietata, ha paura. Ma non riesce a far nulla.
Riflessione non tanto sulla violenza quanto su una società che troppo spesso tende a non volerla accettare e a relegarla da un’altra parte, in un altro mondo; la Danimarca e l’Africa (il riferimento al Sudan è evidente anche se mai dichiarato e ha provocato non poche polemiche con il Governo del Paese subsahariano ) sono due mondi contrapposti e vicini.
C’è un mondo imperfetto in cui gli occidentali cercano di portare un po’ della loro bontà e della loro perfezione. E c’è un mondo apparentemente perfetto, la Danimarca della parità tra sessi, delle statistiche sull’occupazione e del benessere di cui quegli stessi occidentali non riescono a vedere le parti buie.
Esemplare è la scena in cui i due modernissimi insegnanti attribuiscono alla situazione famigliare di Elias i suoi problemi di integrazione a scuola, piuttosto che accettare e contrastare la presenza dei bulli.
Con grande sapienza la Bier sfrutta le possibilità emotive del melodramma famigliare e le trasforma in affresco storico e culturale, in un discorso morale e non moralista privo di autocommiserazione.
La violenza non è semplicemente conseguenza di una mancanza non colmata, né della cattiva televisione e dei video giochi, o almeno non solo di questo.
C’è qualcosa, sembra dire, che cova dentro ogni essere umano, la rabbia per un dolore che può esplodere da un momento all’altro e distruggere tutto come la bomba preparata da Christian.
Strutturato in modo narrativamente e stilisticamente classico, Hævnen è una riflessione controversa, contraddittoria ma coraggiosamente etica. Perché è di questo che si tratta. Solo l’etica, la legge morale di kantiana memoria che ognuno dovrebbe portare dentro di sé può essere la soluzione per un mondo non certo perfetto, ma sicuramente migliore.
Abbandonato il linguaggio rigoroso del Dogma, dopo Non desiderare la donna d’altri e Noi due sconosciuti Susanne Bier continua l’osservazione a tratti scientifica degli esseri umani e delle loro debolezze e ci riesce anche grazie ad un gruppo di attori straordinari. In Hævnen usa la forma del melodramma e la plasma intorno ad una storia esemplare, che ha il ritmo e le pulsazioni di un battito cardiaco. Afferra lo spettatore e lo tiene stretto dalla prima all’ultima inquadratura.