Non potrà fare a meno di vedere L’Illusionista – secondo lungometraggio di Sylvain Chomet (2010) reduce dalla recente ‘Berlinale 60′ – chi ha amato Jacques Tati e chi già conosce Chomet dalle sue prove precedenti.
La genesi del film è complessa e illuminante.
La sceneggiatura originale, di pugno dello stesso Tati, classificata come “Film Tati nº 4” e mai realizzata, giaceva da mezzo secolo negli archivi del Centre National de la Cinématographie di Parigi.
Nel 2001 la figlia di Tati, Sophie Tatisceff, un cugino alla lontana di Tati, Jérôme Deschamps, e Macha Makeïeff fondano la società “Les films de Mon Oncle” che acquisisce il materiale e i diritti del catalogo Tati, con l’intento di restaurare le copie dei film del regista.
Il ‘Tati n° 4′ è un canovaccio di una trentina di pagine, più simile a un breve romanzo che a una sceneggiatura, sulle peregrinazioni e i pensieri di un illusionista, un virtuoso di un’arte al tramonto, che lascia Parigi per Praga. Durante il viaggio si trova a dover provvedere a una ragazzina che lo ha seguito a sua insaputa, attratta dalle sue trovatine ‘magiche’.
Di qui nasce, soprattutto da parte di Sophie, la più emotivamente coinvolta, l’idea di far rivivere la figura paterna in un vero film. Poiché Sophie Tatischeff non vuole che i tratti così familiari dell’illusionista siano interpretati da un attore diverso da suo padre, l’animazione sembra da subito la soluzione ideale. Si comincia quindi a parlare di Sylvain Chomet, già autore di un mediometraggio ‘Le vieille dame et les pigeons’ (1998).
A lui il progetto viene definitivamente affidato, alla morte di Sophie (2002) e dopo il grande successo de ‘Les triplettes di Belleville’ (2003).
Dal suo punto di vista Sophie considera questa sceneggiatura mai attuata come ‘una lettera dal passato’: un tardivo atto di riparazione del padre nei suoi confronti, per averla lasciata troppo sola nella sua infanzia, come spesso succede agli artisti.
Ma un ulteriore motivo di interesse si può ritrovare nella vita stessa di Tati: il senso di colpa per un’altra figlia, mai riconosciuta – Helga Marie-Jeanne Schiel -, avuta da una ballerina tedesca e poi negata, nella Francia dell’immediato dopoguerra, dove rischiava serie sanzioni, fino alla morte, chi avesse fraternizzato con il nemico. A quel tempo Tati – già segnato da persecuzioni politiche: la sua famiglia ‘Tatischeff’ era fuoriuscita dalla Russia – consigliato dalla sorella, lasciò andar via la madre e la bambina, prima in Marocco, poi nel Nord-Est dell’Inghilterra, né cercò mai un riavvicinamento. Ma certi fantasmi risalgono il tempo e i pensieri, e nulla come la scrittura fa emergere i sentimenti nella loro forma più vivida, seppur mascherata.
Chomet, il regista del film, sostiene i sentimenti di Sophie Tatisceff, ma essendo egli stesso separato, con due bambini piccoli e una figlia da un precedente matrimonio, capisce perché Tati non aveva mai dato seguito a quella sceneggiatura, preferendo nascondersi dietro la figura di Monsieur Hulot: “It was too close to him, and spoke of things he knew only too well, preferring to hide behind the figure of Monsieur Hulot”.
Fin qui l’antefatto cinefilo e il retroterra storico-personale del film, che si configura come tutt’altra cosa rispetto all’altro di Chomet.
Chi era rimasto incantato davanti alle immagini di ‘Appuntamento a Belleville’ (2003), debutto nel lungometraggio animato di Sylvain Chomet, forse si attendeva di più; ma a distanza di sette anni, il comico trascolora nel malinconico, il rutilante nei colori crepuscolari e nelle nebbie di paesaggi nordici: – “Sono i colori della Scozia con il suo aspetto terroso, le montagne di colore fulvo, brunastro, di tante sfumature; Variazioni del paesaggio rispetto alla luce che si adattano bene allo script, perché è un film sul cambiamento” – dice il regista in un’intervista.
Rispetto alla sceneggiatura originale, che il regista ammette di aver mantenuto ‘per l’80%’, è cambiata l’ambientazione – tra la brume scozzesi appunto, e nella città di Edimburgo – ma la sostanza della storia è rimasta identica; la figura allampanata, goffa e elegante insieme di Tati, è resa alla perfezione; i tratti delle ragazzina, vaghi e indistinti all’inizio, acquistano progressiva nitidezza. Il mondo è quello degli artisti del varietà, fortemente in crisi nel 1959, anno in cui la storia si colloca. Il pubblico è scarso; i giovani cominciano a impazzire per gli emergenti gruppi rock (la storia dei Beatles inizia dal 1957 – Ndr).
L’anziano illusionista e la ragazzina che l’ha seguito – di nascosto, all’inizio – da uno sperduto villaggio scozzese, si ritrovano nella grande città: con difficoltà crescenti a trovare lavoro, lui; affascinata da ogni aspetto della novità, lei. Intorno, un mondo che cambia velocemente e non ha spazi per antiche abilità; l’alberghetto dove vivono è un ricovero di artisti del varietà: un ventriloquo disoccupato, un altro artista alcolizzato, sempre a un passo dal suicidio, un gruppo di acrobati trapezisti.
Chomet possiede la rara dote di condensare in pochi tratti l’essenza di un personaggio (vedi le sue citazioni di Coppi, Fred Astaire e Glenn Gould in ‘Belleville’); così il suo ‘Illusionista’ è indubitabilmente Tati, ovvero Monsieur Hulot.
Le citazioni e i rimandi sono infiniti. Già in ‘Belleville’ (un film di sette anni prima!) un poster alla parete era identico al manifesto che qui l’illusionista srotola agli impresari, quando va a proporre il suo spettacolo. La citazione del tubo dell’acqua, nel garage (da ‘Mon Oncle’); gli inserti filmati in cui i personaggi animati osservano il vero Tati sullo schermo (tratti da ‘Jour de fête’ in ‘Belleville’ e da ‘Mon oncle’ in questo ‘Illusioniste’)
Quando da queste stimolanti premesse per iniziati si passa al piacere della visione ‘per spettatori comuni’, ecco che il film mostra qualche limite. La magia delle immagini è indiscutibile; ogni fotogramma è un quadro perfetto da appendere in camera, ma l’atmosfera complessiva della storia inclina al malinconico; il mondo in dissoluzione è troppo triste, se il ventriloquo deve vendere il suo pupazzo e ridursi a chiedere l’elemosina; se lo stesso ‘illusionista’ si riduce al lavoro notturno di garagista o alla presentazione dei prodotti di un supermercato. Un finale che ricorda le atmosfere del nostro ‘Vecchio frac’, con i simboli dell’eleganza del vecchio mondo a galleggiare inutili nella corrente e presto dimenticati.
Forse il regista si è voluto tenere troppo fedele alla sceneggiatura di Tati; e si sa che i suoi film sono minimali, sommessi, senza grandi storie né drammatici colpi di scena; un susseguirsi di ‘gags’ e piccole pennellate sui caratteri e i comportamenti degli uomini.
Fatto sta che manca un momento esaltante, l’‘unghiatina’ o uno spruzzo di magia di cui, tanto più in un film di illusioni, si sente la mancanza.
Ma si può godere dell’atmosfera tenera e malinconica e accontentarsi di una perfetta conclusione alla Tati: proprio nel momento in cui lascia il messaggio: “I maghi non esistono”, ecco che la magia – lo sbocciare della ragazzina alla vita – si è compiuta…