«I matti sono fuori, non cercateli qui, il mondo dietro i muri è più disperato di così». «Manicomio è parola assai più grande delle oscure voragini del sogno». Dalla musica di Roberto Vecchioni alle poesie di Alda Merini, che ha vissuto il dramma del manicomio sulla propria pelle, alla letteratura, al cinema, al teatro: l’arte in genere ha parlato e continua ancora a parlare della pazzia, di questo stato interiore per cui nessuna definizione, anche quella da vocabolario, risulta esatta o completa. Questo perché non solo, come tutti gli stati dell’anima, è pervaso da un’intrinseca complessità, ma anche perché è labile il confine tra la pazzia e la cosiddetta normalità.
Domenica sera, una di quelle domeniche “uggiose”, in cui per i cinefili è normale rifugiarsi al cinema ma, anche per chi non è un appassionato, un film diventa un buon antidoto alla noia. A fine proiezione non si sentono i soliti commenti fra amici, lasciati sedimentare per tutto il tempo del film: al contrario, il silenzio, un silenzio che, visto l’argomento e conoscendo l’abilità di raccontare del regista, era quasi prevedibile. La pecora nera di Ascanio Celestini si trasferisce dal palco di un teatro allo schermo cinematografico, arricchendosi naturalmente di attori, situazioni e immagini ma senza perdere la profondità di un racconto che la voce narrante del regista rende ancor più coinvolgente. Il tema è appunto quello del manicomio o, come lo chiama il piccolo protagonista Nicola, impersonato dallo stesso Ascanio, del “condominio dei santi”. La storia è raccontata in un continuo rimando tra l’infanzia vissuta a cavallo degli anni 70 e l’età adulta del protagonista. Nicola entra per la prima volta in manicomio da piccolo per accompagnare la nonna a portare le uova “che puzzano ancora del culo della gallina” alla suora e ci rimane da grande nel ruolo di quello che accompagna la suora a fare la spesa. Un bambino che entra in contatto con una realtà da cui poi rimane completamente avvinto, fisicamente ed emotivamente soprattutto: l’istituzione manicomiale non è cattiva di per sé perché si fanno gli elettroshock, si legano i pazienti al letto, li si lava per condurre meglio la corrente, come nei ricordi dalla poetessa Alda Merini, ma perché toglie all’individuo la possibilità di relazionarsi con l’altro, chiudendolo in un mutismo che lo annienta.
Nel film non si vedono le solite scene angoscianti a cui ci hanno abituati filmati e documentari sui manicomi ma l’angoscia è latente, sembra insinuarsi tra le filastrocche, i piccoli motti (come ti ho fatto, ti distruggo, i favolosi anni settanta) che si ripetono ininterrottamente, quasi a sottolineare l’invasività e l’ossessione martellante dei tormenti interiori pur nei momenti in cui si sorride, grazie soprattutto all’interpretazione di Giorgio Tirabassi, alter ego un po’ più disincantato, meno ligio al dovere rispetto al protagonista, soprattutto quando va a fare la spesa con Nicola e vorrebbe comprare quello che la suora non ha scritto nella lista. Non sono barriere fisiche quelle che delimitano un manicomio; sono le nostre barriere, quelle che le istituzioni contribuiscono a creare con la loro presunzione di poter decidere al posto e per conto dell’individuo; in un’intervista a proposito del film, Celestini fa un parallelo con la situazione di chi entra in ospedale semplicemente perché ha una gamba rotta e diventa quella gamba rotta: i manicomi sono stati chiusi grazie alla legge Basaglia ma non sono finiti, hanno semplicemente cambiato nome.