Conferenza stampa di apertura del Roma Fiction Fest, Michael Vartan sorride seduto ad una delle estremità del tavolo. Curioso, divertito segue la musica, i filmati, le discussioni che si accendono in qualche punto della sala, le solite schermaglie da inizio Festival. Osserva tutto con stupore quasi non facesse parte, anche lui, di questo mondo.
Ha un viso simpatico, e un’aria così francese che, quando parla, il suo inglese americano ci sorprende.
Gli chiedono come ci si senta ad essere sempre affiancato sul set da donne forti, di cui lui in fondo è solo una spalla: Jennifer Garner in Alias, Jada Pinkett Smith in Hawthorne: la serie televisiva che è venuto a presentare. Un medical drama. E qualcuno, come sempre, gli chiede “Perché ancora una serie sui medici? Pensa che ce ne fosse bisogno?”
E sa già che gli chiederanno di sua zia. In Europa il cognome Vartan è associato sempre e solo a lei, la famosa Sylvie.
Ma tutto questo non sminuisce la sua meraviglia, il piacere con cui si lancia a discutere dei mondiali, l’uscita della Francia, la sua squadra, e dell’Italia, due casi davvero incresciosi, con una tale passione, che quasi devono levargli il microfono. Per riportarlo ai soliti temi. “Affiancare donne di grande personalità ti insegna a farti da parte, a rilassarti, a goderti ogni cosa, a lasciare che siano gli altri a fare il grosso del lavoro.”
Ha il viso da divo, e un’eleganza, una semplicità da principe bambino.
Tra tanti attori televisivi consumati nell’arte della risposta blindata, incattiviti dall’eterna attesa di un ruolo nel grande schermo, l’incontro con Michael Vartan possiede una leggerezza speciale. Un’eco di posti lontani, come se si portasse dietro cose raccolte, qua e là, nella sua infanzia, nei mondi dei suoi genitori, e non sapesse ancora dove posarle: suo padre bulgaro, sua madre polacca, vivono in Francia fino a quando Michael ha 5 anni, poi loro divorziano e lui segue la madre negli Stati Uniti, fa avanti e indietro con la Francia, dove viene spedito in pianta stabile ad undici anni, perché riceva “un’educazione come si deve lontano dai barbari” dice ridendo, ripetendo forse le parole di sua madre, e dagli 11 ai 18 anni vive in una fattoria della Normandia. “Quella fattoria mi mancherà sempre, anche se ormai mi considero americano, mi mancano quelle oche, i cavalli, le mucche, gli odori e le nebbie. A 18 anni in Francia mi sono sentito perso, non sapevo cosa fare, ho chiamato mia madre in America: “Mamma posso venirti a trovare per sempre?”
Ha iniziato a fare l’attore grazie ad un amico di famiglia, un regista che stava girando un film sulla storia del “chiodo.” La giacca nera di pelle. E aveva bisogno di un ragazzo smilzo, magrolino come lui. “Ma all’inizio ho detto di no, non mi interessava fare l’attore” poi ha lavorato anche con i fratelli Taviani in Fiorile.
Nei suoi occhi per un istante passa un velo di nostalgia. “Un lavoro meraviglioso, quei campi, quei paesaggi, chi l’avrebbe mai detto? Il film è andato a Cannes, ed io l’ho seguito. I fratelli Taviani mi hanno portato fortuna: in America sono molto conosciuti. Se lo fanno lavorare loro, si saranno detti a Hollywood, una ragione ci sarà…”
Ride, è bello, la camicia a quadretti azzurri, la luce calda negli occhi chiari, l’intelligenza della battuta sempre pronta, ma discreta, appena accennata solo per non prendersi troppo sul serio. Sulle braccia tatuaggi poco stilizzati, ricordi di persone della sua famiglia, “non importa che siano belli, devono solo ricordarmi qualcuno che mi è caro” Dimostra molto meno dei suoi 41 anni. E a vederlo viene spontaneo chiedersi: perché questo ragazzo non ha ancora sfondato? Cosa gli manca?
Qui nelle sale del Festival della fiction televisiva, talvolta si insinua una luce scura, una frustrazione, o una malinconia di chi vorrebbe fare grandi cose e deve accontentarsi di molto meno.
Ma non adesso. Non con Michael Vartan.
“Per lei deve ancora arrivare il grande ruolo che la farà sfondare, come se lo immagina?” Gli chiede qualcuno.
Michael Vartan sorride.
“No, sa… non credo che ormai arrivi più… Potrei usare una metafora del golf, con gli handicap non è facile… fare il grande salto non è cosa da poco. Sono stato già abbastanza fortunato: spesso ero al posto giusto nel momento giusto, si tratta di questo, sa. Ci vuole la fortuna oltre al talento. Quando andavo a scuola di recitazione, tra i miei compagni c’era gente fantastica, di grande talento, soprattutto una ragazza, mi dicevo questa qui arriverà lontano, ha un potenziale enorme eppure di lei, di loro non si è saputo più nulla.”
In America negli ultimi 15 anni la divisione tra attori di cinema e di televisione è sfumata. Le televisioni via cavo fanno cose molto interessanti. Anche Al Pacino ha lavorato per l’HBO.
“E lei, tra cinema e televisione, cosa preferisce?”
E lui senza fare mistero, senza schernirsi, senza finzioni.
“Il cinema… C’è più tempo per girare, per essere creativi, per andare a fondo nei personaggi. Puoi girare il mondo e incontrare gente interessante, talvolta.”
E i suoi occhi sorridono insieme timidi e luminosi, come un bambino che racconti il suo sogno segreto, sperando e temendo insieme che ci sia qualcuno da qualche pare che lo stia ascoltando. Un qualcuno che, ad esempio, trovi una distribuzione per un paio di film che ha girato negli ultimi anni.
“Così anche in Italia mi vedrete ancora sul grande schermo” dice. Perché il mondo del cinema è anche questo, o forse soprattutto questo: film scritti e mai girati, film girati e mai distribuiti. E la parte di un attore, magari magistrale, magari il grande ruolo della sua vita, rimane lì intrappolata in immagini che non scorreranno mai sullo schermo.
“Ma la televisione ha i suoi vantaggi” riprende a dire “si lavora dal lunedì al venerdì, il fine settimana è libero, per la mia compagna, per gli amici. Perché gli altri non sempre capiscono, vogliono uscire la sera in settimana, ma io mi sveglio alle 4, la sera voglio solo dormire, dormire. Certo in televisione se capiti nel cast sbagliato sei finito, ti tocca vedere per anni ogni mattina qualcuno che odi, che ti odia…” e ride “ma a me non è mai successo…”
Nella serie che è venuto a presentare, Hawthorne, le storie sono presentate attraverso gli occhi di un’infermiera. Come avviene, ultimamente, nelle serie mediche.
“Comunque perché si fanno tante serie sui dottori, sugli ospedali? Lei come se lo spiega?”
Michael Vartan rovescia la testa all’indietro sulla poltrona. Finge di russare. “Per combattere l’insonnia” Ride. Ci pensa su.
“Non lo so, forse perché si parla di vita e di morte, e per un uomo cosa può esserci di più grande? Ma sul set si ride anche tanto sa, a volte facciamo degli errori, e non la smettiamo più di ridere, prima di girare seguiamo un apprendistato negli ospedali per imparare a manovrare il bisturi e altre apparecchiature, ma solo per fingere di saperli usare. E c’è sempre del personale medico presente sul set che ci dice quello che dobbiamo fare. A volte mi dicono “dottore si abbassi, se fa così invece di sentire il cuore sembra che stia sentendo l’orecchio del paziente” Imita la sua auscultazione. Ride. “Noi ridiamo da matti, e a volte qualche regista si arrabbia, a volte i registi si prendono un po’ troppo sul serio. Loro credono davvero di essere in ospedale….”
“E ora cosa le piacerebbe fare? A cosa sta lavorando?”
“Sto lavorando alla mia abbronzatura…”Ride…”No, sono lusingato che lei mi chieda cosa voglio fare. Vorrei recitare con Spielberg, Scorsese, Di Caprio, ma poiché non mi chiamano, intanto faccio ciò che mi offrono. E sono fortunato, perché per sopravvivere, faccio comunque qualcosa che mi piace.
Non so cosa ne sarà della mia vita…potrei anche smettere di lavorare in America. Mi sposo l’anno prossimo, quest’anno c’è stato il fidanzamento ufficiale, non vorrei crescere i miei figli a Los Angeles, potremmo vivere in una fattoria in Europa.
Mi piace recitare, ma non mi piace fare l’attore, non so se capisce la differenza. Lo dico sempre ai miei amici quando mi dicono che dovrei darmi più da fare, spingere sull’acceleratore, ma …a me non interessa. Fare l’attore non è la mia passione. ”
Sorride
“E qual è la sua passione?”
“Non l’ ho ancora trovata.”
Scuote la testa.
“I cani… gli animali, ma non ce l’avrei fatta a fare il veterinario, il sangue mi spaventa. Nella serie lavoriamo con sangue finto ovviamente, ma una volta, in una scena, ho dovuto tagliare la pancia di un maiale morto. Ed è stato terrificante… il rumore che faceva…E ormai sono troppo vecchio per fare l’atleta, ma gli sport mi piacciono tutti, il calcio mi è rimasto dentro, giocavo a calcio da bambino in Francia, poi in America ho dovuto smettere. Non c’era nessuno con cui giocare.”
Gli piacerebbe tornare a lavorare in Europa; in America un attore non si azzarda neanche a raccogliere da terra il cavo di un tecnico; troupe e attori sono due mondi separati, è tutto sindacalizzato, e i tecnici finiscono per odiare gli attori: sempre gli ultimi ad arrivare, i primi ad andarsene. In Europa invece il set è una grande famiglia, tutti sono importanti, anche il cuoco.
“E sua zia? Anche lei vive in America, vi vedete?”
Vivono a venti minuti di macchina uno dall’altro, a Los Angeles, si vedono due o tre volte l’anno. Sylvie Vartan vive in America perché lì nessuno la conosce. E ogni tanto torna a cantare all’Olympia. Anche con suo cugino David Hallyday sono buoni amici. È il suo mito: con quelle macchine da corsa.
“Quando vado a trovarla, mia zia tira sempre fuori gli album di famiglia. Un’infinità di album con foto di quando eravamo bambini. Io, mio cugino e tutti gli altri. Appena entro, li tira fuori, e me li mette davanti. Ed io dico zia, aspetta un attimo, aspetta, prima almeno beviamoci su qualcosa…”.
Più tardi, in serata, alla presentazione al cinema dell’episodio pilota della serie, riprende a scherzare, “Io qui appaio pochissimo, ma se avrete pazienza, nelle prossime puntate mi si vedrà un po’ di più.”
È elegantissimo nel suo completo, niente jeans, o magliette d’ordinanza, il viso imperlato di sudore, per il caldo di Roma che, dalla mattina, lo opprime. Si fa fotografare a fianco delle tante ragazze che emozionate gli chiedono una foto; la sua promessa sposa lo accompagna, alta, bionda, esile come lui. Lo segue attenta, lo sostiene, gli sistema la giacca, la cravatta, gli sorride perché lui sia sereno.
Forse la zia gli ha parlato tanto dell’eleganza europea e lui si è vestito alla bisogna. Ma ora sembra che stia per svenire, ma tu non lo senti il caldo ? ci sussurra in piedi davanti al pubblico che lo guarda. Suda, suda.
Sorride, gioca con le parole, si prende in giro, lancia battute al pubblico. Il presentatore si accorge del suo malessere e mette fine alla presentazione. Michael Vartan esce, ringrazia tutti quelli che hanno lavorato per lui, come un principe gentile, poi si stringe alla sua promessa sposa. E ora, accanto a lei, alla sua donna forte, torna a guardarsi attorno, rivolge un’ultima occhiata divertita alla grande kermesse e si allontana con la fidanzata, gli amici, le partite dei mondiali: “Tifo per l’Olanda, hanno già perso due mondiali, e poi quella maglietta arancione è così brutta, che qualche gioia se la meritano”.
Torna a godersi la vita, con le sue piccole cose, forse è solo questa la passione che lui continua a cercare.