Salvo Montalbano: “Il mio vuole essere un teatro di prosa”

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Dal personaggio allo scrittore al personaggio… ai personaggi Luminosi e intriganti occhi azzurri, alto, asciutto, bei capelli, bel sorriso, una "erre" appena arrotondata, gran fascino, estrema disponibilità all’ascolto, capacità di rimanere a lungo in silenzio e poi con intelligenza replicare, o concordare, o colludere con l’interlocutore.

Dal personaggio allo scrittore al personaggio… ai personaggi

 

Luminosi e intriganti occhi azzurri, alto, asciutto, bei capelli, bel sorriso, una “erre” appena arrotondata, gran fascino, estrema disponibilità all’ascolto, capacità di rimanere a lungo in silenzio e poi con intelligenza replicare, o concordare, o colludere con l’interlocutore. Chi è? Salvo Montalbano. Esattamente lui. Non sto facendo confusione, no. L’altro – occhio saracino, parlata lenta, un fare tra lo sbrigativo e l’annoiato, guardata di sguincio e poi rapido passare all’azione – non fa parte di questa storia. Che ha dalla sua il pregio di vedere un Montalbano che sta da questa parte della scrivania, questa di chi tiene la penna in mano e comincia a scrivere. Un verbale? Ma no. Un romanzo. Appunto.

Certo, fantarealisticamente parlando, che c’è di strano? Un personaggio che acchiappa la penna e infonde vita ad altri personaggi rientra nella perfetta improbabilità che regola la fantarealtà. I problemi potrebbero porsi quando dal fantareale si passa al reale e le identità cominciano a non potersi più sovrapporre in un unicum che tolga ogni sospetto. E allora: ma chi è veramente questo signore? che vuole? chi si crede di essere?

Questo signore, come ho già detto, è Salvo Montalbano, di professione psicoterapeuta transazionale, che col Montalbano di Camilleri ha in comune soltanto il nome e l’appartenenza all’Isola. Questo Montalbano ha scritto un romanzo “I fantasmi di via Ossuna 33” che della fantarealtà ha molti requisiti: case abitate da presenze corporee e incorporee, irruzione di elementi stravaganti, manifestazioni opportune di un caso che diventa causa e giustificazione della stravaganza.

A me è piaciuto sia il romanzo sia il suo autore e, siccome sono molto curiosa, mi sono divertita a sottoporre Montalbano a un fuoco di fila di domande a cui egli ha compiutamente risposto come potete leggere qui di seguito.

 

Chi è il protagonista Sebastiano Noto? Quando l’hai “visto”? Quando hai capito che la sua storia sarebbe potuta diventare un romanzo?

Taormina, appollaiato su una minuscola sedia metallica di un bar all’aperto, sto ripassando l’esoterico racconto che regalerò ad un’amica tenacemente euclidea. Mi distrae una coppia. Lei (capelli sciolti che vigorosamente tenta di domare): “Sebastiano, ti chiedo, quanto mi ami? Voglio dire: perché mi ami? Che te ne viene?… Improvvisamente la donna schizza dalla sedia lasciando in asso il tipo. Uno normale, normalissimo, che si guarda attorno spaesato cercando di pagare. Non faccio in tempo ad abbassare lo sguardo, che lui mi scorge; comprende che ho seguito la scena; mi sorride. “Eh… le donne” pare dire. Gli sorrido anch’io, aggiungendo un saltello sopraciliare di fraterna solidarietà. E così la sera stessa mi piazzo davanti allo schermo del computer: Un Sebastiano a Taormina  titolo il file, e racconto di un tipo normale che si guarda attorno spaesato per tutta la vita, cercando di pagare. Su quest’ultimo tratto, ferocemente insisto. Qualche giorno dopo, a casa della mia amica: “Grazie. Veramente carino. Però… con questa tua fantasia strampalata, dovresti provarti con un romanzo”. “Un romanzo? Ma ti pare che mi metto a perder tempo con un romanzo?”. “No?”. “No!”. Credo fu quella sera stessa che qualcuno, avendomi pedinato, cominciò a perseguitarmi svegliandomi regolarmente alle quattro del mattino, chiedendo udienza, ed infine miglior decoro. “Un romanzo? Ma come si scrive un romanzo?” mi chiedevo, spegnendo la terza sigaretta dentro la seconda tazza di caffè. Così mi ha aiutato lui, quel Sebastiano, anche se solo a notte alta, entrando nel mio letto come un bambino e raccontandomi il suo sogno. Ma per un certo tempo, nonostante il suddetto aiuto, la storia che scrivevo continuò a rimanere racconto. Ovvero un corridoio che conduceva dalla porta d’ingresso a quella d’uscita. Poi cominciarono lateralmente a comparire altre porte. Io entravo nelle stanze, le abitavo per un po’, le descrivevo, e poi me ne uscivo, ritrovando sempre il dannato corridoio di prima. Una volta, compiendo il solito passo riluttante, entrai per sbaglio in una stanza che avevo già visitata. E mi accorsi che s’apriva in un’altra stanza. E questa in un’altra ancora. Mi fermai soltanto quando conobbi l’intero appartamento, ovvero l’intera trama. Scoprii che era un appartamento circolare quello; separato da un diametro (il corridoio) che, dividendo, univa presente e passato.

In fin dei conti, voglio dire, la casa è stata non solo luogo e personaggio, ma soprattutto una piantina mentale che, pur non rispettando le regole di cartografia, mi ha permesso di scrivere Fantasmi.

 

Quanto la tua professione ha influito sulla caratterizzazione dei diversi personaggi? E poi, scandagliare l’animo di un personaggio e tradurre in parola i suoi giochi mentali, è un atto spontaneo, studiato, “premeditato”? 

Più che la professione, sul mio modo di accogliere i personaggi ha influito l’esposizione continua alle storie dei miei clienti (che col tempo ho imparato sempre più ad apprezzare e rispettare). Come le raccontavano, le riflessioni che su di esse facevano, le intuizioni apparentemente folli che traevano dalla loro vita. E semmai la mia professione più compiutamente compare, è laddove incidenti e coincidenze divengono catalizzatori per una chimica reazione interiore. La uso per controllare che l’alambicco del personaggio contenga già i componenti necessari. Comunque, a parte i vari ricordi e le competenze, per penetrare i personaggi, confesso di applicare una vera tecnica. L’ho imparata da Bernardino Zapponi (Trasformazioni). Per capirli, i personaggi, dopo averli appena conosciuti introducendoli nella storia, devo diventare loro. Com’è Giulia? Per due o tre giorni, anziché scrivere, sono uscito, ho passeggiato, ho fumato, cercando di esserle, direi nel corpo, simile. Ho visitato i quartieri che una come lei avrebbe abitato, ho osservato la gente nel modo in cui Giulia l’avrebbe osservata, ho scrutato vetrine ed identificato abiti e accessori che avrebbe acquistato. Poi tornavo davanti alla pagina e vedevo cosa si era coagulato. Sennò, ricominciavo.

 

La città che tu racconti, che città è? Un sud che resta sud, che ha elementi fortemente connotativi tanto da diventare esso stesso “personaggio” della narrazione?

La città dove si svolge la storia è Palermo, mai nominata per tutte le 334 pagine. Ma all’inizio, prima che il passato si allunghi sui personaggi, è un luogo alla Magritte. Una roccia sospesa, chiusa entro la propria crosta. Mano a mano che le vicende cominciano ad avere storia, le caratteristiche di quella città si possono intuire. Anche se mai, neppure nella realtà, completamente identificare. Neanche evocandone il nome. Perciò me ne sono astenuto. Non così per il mio sud. Che non ha connotazione geografica, ma è astrale più che altro. Indica il mezzogiorno. Il momento più alto dell’ascesa solare che, però, già comincia a digradare. È il bilico in cui si muove Guareschi nella sua Bassa, l’audacia pre-siesta del Giovannino di Patti, Dona Flor che aggiusta il suo passo tra Vadinho e il dottor Teodoro. È ogni medioevo esistenziale, insomma, in cui l’alternativa è morire di noia o morire di guerra.

 

E la casa? Questo luogo così pieno di misteri – “abitato” da presenze visibili, invisibili, corporee e incorporee, che assorbe e restituisce storie – è solo un contenitore?

“Mia nonna!” risponderei immediatamente. E potrebbe sembrarti un’imprecazione. No, invece. È per l’appunto mia nonna. Memoria storica della mia famiglia. Dico che la casa è lei, non solo perché mia nonna l’aveva scelta e curata, ma perché lei stessa era esattamente come la casa che abitava. Taciturna e serrata in alcuni momenti, loquace sino al cicalio in altri. Alta, come i soffitti di quella casa, da bambino mi pareva. E contraddittoria sino al dispetto. Impenetrabile e concentrata friggendo un uovo; una valanga di domande, invece, tanto da non fartene mangiare neppure un pezzetto, dopo che lo serviva. Una portatrice di storie inconfessate, però, dei fantasmi più misteriosi. Quando Sebastiano abbandona la casa, come fece mio nonno con lei, va via dal quel ventre natale. Che pareva proteggerlo, ma che in realtà lui proteggeva. Nella storia di ogni abbandono c’è sempre la decisione di spezzare l’obbligo di una fedeltà e, tradendolo (tradere), partire.

 

Il sogno. E’ un escamotage narrativo che permette all’autore di risolvere situazioni difficili? Oppure?

Credo fermamente, come diceva un britannico, che siamo fatti della stessa materia dei sogni. E scrivendo non solamente mi sento vicino al sognare, ma anche di dover per necessità allevare il sogno. Questo come dichiarazione di principio. Vale quel che vale. Ma scendendo nello specifico del testo, Sebastiano avrebbe potuto trovare un diario del nonno in un cassetto nascosto, e così la terza persona, onerosa e sempre un po’ arrogante, poteva trasformarsi in un’appassionata prima persona in confessione. Mi è stato suggerito. Ma sono convinto che avrei perso la continuità della voce narrante che unificava i vari pezzi del romanzo. Ho preferito scegliere perciò il sogno. Quindi, sì! È stato un escamotage per mantenere l’unità nella frammentazione temporale di Fantasmi.

Contemporaneamente, ripensando ad altri miei scritti, dove il sogno o addirittura l’allucinazione sono elementi chiave della narrazione, sono più portato a credere che, col trucco onirico, io cerchi piuttosto d’indurre il lettore a uno straniamento che lo spinga ad un sentire differente. Quello che viene da scenari di una dimensione inaspettata, sconnessa, ma sensorialmente più pregnante della nitida coscienza.

 

Gli uomini e le donne da te messi in scena, a volte sembrano quasi dei “tipi”, hanno un comportamento “macchiettistico”. Siamo noi le macchiette di noi stessi?

Il mio vuole essere un teatro di prosa. È quindi naturale che alcuni personaggi siano tipi da varietà. Per quelli principali, mi pare invece, che ‘il tipo’ si trasformi, cambi, sbiadisca dal precedente, e s’incarni seppur momentaneamente in un successivo interno. Per poi mutare a seconda dell’accadimento, dell’accidente (quasi sempre una crisi, spesso non da lui o da lei determinata). Ritengo che questo ploy (trucco, ma in americano suona garbato) crei un movimento che accompagna la trama trasformandola in tessuto. Tessuto che, negli ultimi paragrafi, il protagonista sceglierà consapevolmente confezionando per sé l’abito che più si addice alla propria anima. Auguro a tutti questa prospettiva: mutando, diventar se stessi. Ma col passare degli anni sempre più in sottovoce, tanto che oggi, mi limito a scriverlo soltanto.

 

Il “destino”, la causalità della casualità – come diceva Sciascia – quanto sono generati dagli uomini e quanto prescindono da essi e si fanno determinanti nella vita di ciascuno?

“Gli uomini, guardando le stelle, non possono fare a meno di ordinarle in costellazioni”: l’epigrafe di un libro che ho amato. Il caso è divino, la causa umana. Questo penso. Ma la corrente opinione non cambia l’inverso che sente il mio cuore. Il quale seguendo la sua natura di ritmo e flusso ha necessità di un prima e di un dopo, di una diastole che causa una sistole. Non sono un hegeliano. Non riesco se voglio rimanere onesto a fondere opposti. E perciò, fortunatamente, rimango dissociato come i miei personaggi. Tra pensiero e sentimento, tra decisione ed azione. Tra caso e causa. L’effetto di tale divisione non dev’essere necessariamente l’immobilità stuporosa, ma una leggera zoppia nell’andare; e, nel migliore dei casi, la coscienza che ogni azione accoglie sempre una piccola menzogna. E a volte il carico di queste accumulate insincerità, a causa di un caso, anche lo sguardo di un bambino, una canzone udita per strada, può per qualcuno diventare così oneroso da rovesciare l’intero tavolo. Ecco: se posso definirmi un cantore di qualcosa, canto la consapevole minoranza che abita l’anima e che trasforma il caso in risolutiva decisione.

 

Come hai organizzato le varie storie che compongono il tuo romanzo? Hai seguito una logica, ti sei affidato alla spontaneità?

Inizialmente l’idea di una storia di massima: un uomo che vivendo un eterno presente prende coscienza di sé senza l’intenzione di farlo. Come era capitato a me nel sostituire il dono alla mia amica con un altro che per caso avevo trovato in strada. Poi le storie nelle storie si sono embricate, confondendosi e affollandosi frettolosamente. Solo in un secondo momento la logica le ha ordinate, in passi e paragrafi. Poi la lima dell’attenzione ne ha lavorato asperità ed incongruenze. E i suggerimenti di Ornella, la mia editor, sull’opportunità di ridurre o ampliare frasi e idee. Alla fine rileggendo moltissime volte il romanzo ultimato è stata l’impressione generale a farmelo considerare concluso. O a rimandare ad altre opere quello che Fantasmi non poteva accogliere. Una determinazione però c’è stata. Quella della musicalità delle due parti del romanzo: un allegro andante nelle parti che si riferivano al presente, l’adagio per la parte storica.

 

“I fantasmi di via Ossuna 33”, Salvo Montalbano, edizioni GBM, maggio 2009

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