Recife (Brasile): squali, grattacieli e Yahwè

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Voliamo con la Tap, breve scalo a Lisbona e poi una lunga tratta fino a Recife, capitale del Pernambuco, Nord-Est del Brasile. Le valigie mia mamma le ha riempite...

Voliamo con la Tap, breve scalo a Lisbona e poi una lunga tratta fino a Recife, capitale del Pernambuco, Nord-Est del Brasile. Le valigie mia mamma le ha riempite di ogni ben di Dio  – parmigiano, pecorino, pancetta – perché andiamo a fare visita a mio fratello, trasferitosi da pochi mesi.

All’arrivo a Recife le gambe ci fanno giacomo, perché a valigie già chiuse Niccolò, il figlio di mio fratello che è andato a Pasqua a trovare il padre, ci ha raccontato che a lui hanno sequestrato tutte le cibarie, cospargendole poi di un liquido che le rende immangiabili.

Poiché mia mamma ha ottant’anni – non li dimostra ma comunque li ha – ho prenotato all’ultimo momento, per l’arrivo a Recife,  l’assistenza con sedia a rotelle. Spero in questo modo di accrescere le nostre possibilità di passare il varco doganale con le vettovaglie;  certo è che i foglietti che abbiamo compilato per la dogana sono a dir poco mendaci. Un gentile signore ci aspetta appena fuori dell’aereo con la sedia; con lui passiamo velocemente attraverso il controllo passaporti.  Mamma indossa per l’occasione la sua migliore espressione di anziana dolorante e io quella di figlia iper-protettiva, mentre le rimbocco sulle spalle il cardigan di cachemire, con la temperatura in aeroporto che sfiora  i 30 gradi.

Il nostro accompagnatore prova a fare conversazione, “di dove siete, quanto restate”,  ma vuoi per l’apprensione, vuoi per la lingua, a parte un paio di sorrisi tirati, non fraternizziamo. Arrivati al nastro bagagli, in attesa delle valigie, l’ansia di essere scoperte raggiunge l’apice quando ci accorgiamo con orrore che nello scanner predisposto per la verifica dei bagagli passano tutte le valigie dei passeggeri arrivati con noi.

Implacabile, una signora in carne, in tailleur pantalone grigio,  decide del destino di ognuno. Sentinella della legalità in terra brasiliana, probabilmente preposta alla ricerca di droghe – di cui pare Recife sia un punto di smistamento – più che di prosciutti, ci lascia miracolosamente passare nel corridoio verde,  dopo una breve occhiata compassionevole a mamma e dopo aver letto sul foglietto doganale  che il nostro indirizzo a Recife è un hotel e non una casa privata di italiani, noti spacciatori di parmigiano sottovuoto.

A mamma tornano i colori e a me cessa la tachicardia: siamo salve, noi e i prosciutti.

 

È ormai notte quando arriviamo a casa di mio fratello, un grattacielo di fronte al mare, uno dei mille che fanno di Recife una New York caldissima: siamo all’ultimo piano, attico e super attico, con una piccola piscina privata.  Arredamento minimal, capiriña ghiacciata, un tuffo in piscina insieme a mia nipote Giulia – è per festeggiare il suo quinto compleanno che  ci siamo sobbarcate questo viaggio –  e con i capelli ancora umidi ce ne andiamo finalmente a dormire.

La luce del mattino e il fuso orario ci svegliano ad un’ora antelucana: spogliati per sicurezza delle poche gioie che portiamo d’abitudine – Recife è una delle città brasiliane con il più alto tasso di attacchi a scopo rapina e basta un anellino da quattro soldi per fare gola ai ragazzini che usano il crack per sballare – usciamo a fare una passeggiata sulla spiaggia di Boa Viagem, a pochi passi dal nostro grattacielo. La spiaggia si estende a perdita d’occhio a destra e a sinistra – da qui volendo puoi camminare fino a Rio o a Fortaleza – e quella distesa di grattacieli che svettano verso il cielo ha preso il posto degli alberi del cocco, che in passato occupavano come sentinelle quello spazio divenuto oggi esclusivamente urbano.

Non siamo i soli ad avere avuto l’idea della passeggiata a bordo mare: in molti camminano su e giù per la spiaggia, con le infradito infilate negli slip per non farsele rubare, se lasciate incustodite. Quasi tutti sono in sovrappeso: incuranti dei dettami dell’estetica dominante altrove, donne non più giovani sfoggiano bikini microscopici con l’Ipod nelle orecchie – il costume intero qui è tabù –   e lo stesso fanno gli uomini, lo stomaco dilatato dalla birra leggerissima ma comunque calorica che qui si usa al posto dell’acqua, a tutte le ore del giorno e della notte. Tra i due sessi, a qualsiasi età e condizione, corre uno scambio di sguardi, una seduzione sottile, un sangue caliente che scorre nelle vene più profonde del Brasile, che alimenta il paese e la gente.

La birra la vendono, insieme a snack di tutti i tipi, gli ambulanti che gestiscono le attività inerenti la spiaggia: sdraio e ombrelloni gratuiti, a condizione di consumare qualcosa. Perché la vita di spiaggia consiste principalmente in un incessante andirivieni di carrettini multicolore schermati da ombrelloni, specializzati in vari articoli tra cui:

– Brodo di Pollo, canna da zucchero, gamberoni ecc.,  che facilita lo smaltimento dell’alcool ingurgitato la sera prima.

– Spiedini alla brace di gamberi, formaggio, interiora di pollo, per farsi venire sete e bere nuova birra.

– Acqua di cocco bevuta con la cannuccia, per diluire grassi e tossine nel fegato.

– Dvd e cd contraffatti, che sparano a tutto volume le canzoni del momento, musica con cui si mangia, si cammina, si prende il sole con ritmo.

Capiriña e Capiroska, che un aitante giovanotto prepara al momento.

– Fritto di aguglie, che il venditore fa scegliere prima di procedere alla cottura “open air”.

– Un carrettino senza alcuna mercanzia in esposizione con su scritto: Graffitaro si, vagabondo no.

 

Molti ambulanti indossano, malgrado il caldo torrido, un gilè catarifrangente con su scritto:  “Prefettura  di Recife: Progetto Orla Ambulante Circolante”.

È uno dei molti progetti sociali promossi dal presidente Lula, il politico più popolare del mondo. Giunto allo scadere del suo mandato (dicembre p.v.), ha fatto del Brasile una grande nazione emergente, a fianco di Cina e India. La sua storia personale è una tale favola – infanzia poverissima, poca istruzione, da operaio perde un dito in una fresa, carriera nel sindacato e poi la politica, fino a ricoprire la carica più alta del paese per ben due volte con votazioni plebiscitarie – che ne è stato tratto un film, “Lula”, uscito quest’anno.

Stanchi della passeggiata, prendiamo le sdraio e l’ombrellone e ci sediamo a contemplare il passeggio.

Il mare ricorda quello di Fregene nei giorni in cui svetta la bandierina rossa, mosso e ventoso, il colore tra il verde e l’azzurro fosco. La barriera corallina – che dà il nome alla città (Recife=Reef) – appare come un antico muretto sbrecciato in più punti, a pochi metri dalla riva. L’inusuale vicinanza del reef alla battigia conferma l’ipotesi che i grattacieli siano stati costruiti sulla spiaggia. Durante la bassa marea si formano delle piscine naturali, in cui sguazzano i pochi bagnanti.

Perché qui a Recife, di fare il bagno al largo non se ne parla proprio: il mare oltre la barriera è infestato di pescecani tra cui lo squalo Toro, il più pericoloso. Capita che qualcuno riesca a passare tra i varchi della barriera e ci sono stati attacchi a chi nuotava in pochi centimetri di acqua.

Gli ambulanti distribuiscono un depliant che avvisa i bagnanti di non immergersi in acqua.

Così il bagno lo facciamo solo sul bagnasciuga e stando pure all’erta, e quando un pezzetto di alga ci lambisce un polpaccio, basta quello a farci uscire dall’acqua di corsa per sederci di nuovo a osservare il passeggio e Giulia, che gioca felice con due bambine.

Poco dopo un venditore si avvicina al nostro ombrellone, offrendoci dei dolcetti conservati in un contenitore di polistirolo. L’uomo ci sorride come ci conoscesse da anni, come se il nostro fosse un incontro inaspettato tra amici che si sono persi di vista.

La cosa curiosa è che indossa un cappellino da baseball con il tetragramma biblico YHWH. È questa la sequenza che nella Bibbia ebraica compone il nome proprio di Dio,  mai pronunciato dagli ebrei  (Yahwè) – perché troppo sacro – e sostituito con Adonai (Signore).

Quando gli chiediamo, in italo-spagnolo maccheronico, spiegazioni sul berretto, depone la sporta  e si accomoda sotto l’ombrellone, tirando un sospiro di sollievo per quel poco d’ombra che gli offriamo.

Sì, sono  judeu: i miei antenati arrivarono in Brasile quando in Portogallo ebbe inizio l’Inquisizione e gli ebrei erano obbligati a convertirsi o lasciare il paese. Molti continuarono a professare in segreto il giudaismo.

Passa un venditore d’acqua di cocco e il nostro amico accetta volentieri una noce con cannuccia per rinfrescarsi la gola.

 

– Ci sono nella giungla brasiliana delle tribù che accendono le candele il venerdì sera (inizio dello Shabbath, il riposo del sabato n.d.r.) e si astengono dal mangiare il maiale, precetto fondamentale nella nostra dieta. –  comincia a raccontare. Poiché gli stiamo facendo perdere tempo prezioso, decidiamo di comperare qualcuno dei suoi dolcetti: – Sono dolci Tropikasher – ci spiega – un termine che coniuga il gusto dei cibi tropicali alla purezza degli alimenti kosher, quelli che gli ebrei osservanti possono mangiare.

– Li mangeremo più tardi – rispondiamo noi all’unisono – e lui fa finta di crederci.

Ci sorride di nuovo mentre carezza sulla testa Giulia, che gioca tranquilla con secchiello e paletta.

– Qui a Recife c’è la più antica sinagoga d’America, risale al 1636. Si trova al centro della città vecchia, in una strada che anticamente si chiamava Rua dos Judeus; oggi si chiama Rua do Bom Jesus,  che comunque, pure lui era un  judeu, non è vero?

E sorride di nuovo, un sorriso dolcissimo come quei suoi dolcetti, che mai assaggeremo. Un sorriso che ci racconta, più delle parole che fatichiamo a comprendere, la forza del suo popolo, prediletto da Dio ad ogni latitudine.

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