Ha un ritmo velocissimo, è minimale nei dialoghi ma è un film ampio e molto moderno, nonostante affronti il tema classico del carcere.
Alcune scene sono davvero fantareali. Bellissime, senza nulla di retorico ed efficaci poiché partono da una spinta di acceleratore sulla realtà. C’è anche molta poesia nel film. La poesia che nasce dalla realtà cruda e nuda fino all’osso e al sangue.
La musica la fa da padrone. Regala ritmo e spiega. Il finale con la musica reinterpretata di Mackie Messer di brechtiana memoria regala un eroe dei nostri tempi: uno che non si perde in teorie ma che si rimodella sui fatti. Quasi come un personaggio dei film western, ma senza alcuna posa e carico di una grande curiosità di sguardo e dell’energia della giovinezza.
È inoltre un film che è un elogio alla lettura. E alla capacità più generale di leggere i fatti, osservare, imparare.
Era dai tempi del film Tutti i battiti del mio cuore che non mi capitava di rimanere stupita e sedotta da un personaggio cinematografico. Poi ho scoperto che la mente che ha concepito anche Il Profeta, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, è la stessa. Il regista è Jacques Audiard. Gli attori sono indimenticabili, tutti.
Il fatto più interessante è osservare nel film un nuovo tipo di eroe. Si impara con lui, si apprende a non guardare la realtà con occhi intrisi di morale stereotipata. Né nel bene né nel male.
Il protagonista è un arabo senza famiglia e senza radici. È un ragazzo che diciannovenne, orfano e analfabeta, entra in carcere. Sei gli anni da scontare. Il carcere sarà paradossalmente il suo modo di entrare nella vita. Impara tutto lì. Impara in primis i meccanismi di potere. In modo violentissimo. Si assiste alle peggiori condizioni in cui un uomo può essere costretto a ridursi. I tremendi corsi il cui capo è un orco inquietante e dispotico, lo usano e lo tengono in giogo. E si assiste tra l’arabo e il capo dei corsi al nascere e al dipanarsi di uno dei peggiori rapporti filiali: quello basato sul controllo e sulla dipendenza basata sul terrore. Si può notare persino un aspetto di politica internazionale nel film: il carcere è un microcosmo di appartenenze o al gruppo degli arabi o a quello dei corsi, in una lotta tra vecchie e nuove forze dove il Vecchio Continente ne esce distrutto.
In un reiterarsi di condizioni sempre peggiori che il protagonista deve accettare, questi non si esime dall’uccidere, dallo sfruttare a suo vantaggio le situazioni più losche, a partire da un omicidio che è costretto a compiere per potersi salvare la vita. E la sua vita prende un’altra direzione. Cambia proprio grazie all’uomo che ammazza, che diventerà un fantasma e una coscienza benefica, fino a scomparire nel finale grazie alla redenzione data da un atto violentissimo di ribellione al potere attraverso una violenza necessaria. La scena più profonda del film è il dialogo tra l’arabo e l’uomo che ammazzerà, il quale insegna in un momento cruciale l’importanza della lettura e dei libri. Insegna al suo assassino l’importanza delle parole.
Da allora per il ragazzo non avrà importanza con chi allearsi. Una volta trovato il coraggio di uccidere per sopravvivere, tutto il resto è sopportabile. Diventerà a suo modo un Profeta. Perché sarà l’unico che saprà leggere e ascoltare, persino le altre lingue, e quindi a decidere il proprio destino e a prevedere i fatti. Non una capacità superiore in sé ma una capacità che nessun altro possiede in quanto gli altri rimangono chiusi nel proprio mondo.
Fuori la vita è ancora più violenta nella sua insensatezza rispetto a quella del carcere. C’è un accenno al ritorno alle origini arabe, ma è ancora strumentale. E c’è un finale di speranza: una vita normale, che vuol dire una vita con degli affetti. Un sospiro di sollievo dopo un vortice di emozioni sul filo di un rasoio. O meglio, di una lametta in bocca.