Cinema: L’uomo che verrà, di Giorgio Diritti

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Per caso, o per suggestione inconscia, mi sono trovato a vedere, nel giro della stessa settimana, tre film a tema vagamente affine.

Per caso, o per suggestione inconscia, mi sono trovato a vedere, nel giro della stessa settimana, tre film a tema vagamente affine. Come un quadro che rivela il suo significato soltanto quando viene apposta l’ultima pennellata, ho poi scoperto che di lì a qualche giorno ci sarebbe stata la ricorrenza del ‘Giorno della Memoria’, istituito dieci anni fa anche in Italia, come in tutta Europa, per ricordare l’entrata delle truppe sovietiche nel campo di concentramento tedesco di Auschwitz-Birkenau, in Polonia (il 27 gennaio 1945).

Il film di De Sica del ’72 con Dominique Sanda, Lino Capolicchio, Fabio Testi e Romolo Valli

Del tema della discriminazione nei confronti degli Ebrei trattava un romanzo di Giorgio Bassani del 1962 ‘Il Giardino dei Finzi-Contini’, da cui Vittorio De Sica ha tratto nel 1970 una pellicola premiata con l’Oscar per il miglior film straniero.

È stato certamente un caso che la proiezione del primo film – ‘Il Giardino dei Finzi Contini’, di De Sica – programmato insieme ad un gruppo di cinefili alcuni mesi fa, quasi coincidesse con la giornata della memoria. Era stato selezionato infatti, questo film insieme ad alcuni altri, per delle proiezioni in una Libreria ospitale, al fine di approfondire i complessi rapporti tra le opere letterarie e i film che ne sono tratti.

Vi si racconta – attraverso la rievocazione di un amore giovanile – l’escalation della discriminazione nei confronti degli Ebrei che culmina nel varo delle leggi razziali (1938) e quindi nella deportazione in massa, tra il 1940 e il 1943. Il libro e il film si riferiscono agli eventi di Ferrara, ma fatti analoghi accadevano in tutta Italia.

‘L’uomo che verrà’, il film di Giorgio Diritti premiato al Festival internazionale del Film di Roma 2009: Marc’Aurelio d’Oro del pubblico al miglior film e Gran Premio della Giuria Marc’Aurelio d’Argento.

L’altra coincidenza è stato l’arrivo nelle sale, proprio in questi giorni, di un film molto atteso: l’opera seconda di Giorgio Diritti. ‘L’uomo che verrà’.

Infine, sull’onda emotiva di questo film, ho voluto/dovuto vedere una pellicola di qualche anno fa, affine per periodo storico e per il tema trattato, che avevo tralasciato alla sua uscita – non vado mai volentieri a vedere film sulla guerra -: ‘Miracolo a S. Anna’, di Spike Lee.

 

Avevamo conosciuto e apprezzato Giorgio Diritti al suo film di esordio nel lungometraggio: ‘Il vento fa il suo giro’ (2005);  caso anomalo di cinema indipendente venuto a conoscenza del grande pubblico per effetto di un passaparola tra appassionati. La storia – recitata in occitano, francese e italiano, con sottotitoli – racconta dell’arrivo di uno straniero, della sua famiglia e del suo gregge in una piccola comunità montana dell’Alta Valle Maira, in provincia di Cuneo; del suo iniziale inserimento e della successiva esclusione.

La piccola storia conchiusa – quasi una parabola sulla diversità -, l’uso del dialetto e una splendida fotografia della montagna, sono i punti di forza del film.

Nel suo secondo film ‘L’uomo che verrà’, Giorgio Diritti torna tra la gente della sua terra natale. Braccianti che parlano un bolognese antico, quasi estinto, e che hanno volti (attori professionisti e non) su cui sono incisi i segni della fatica e le pieghe del tempo. Il dialetto usato nel film è, oltre che una scelta di realismo, un modo per entrare nell’anima del luogo, far sentire il salto del tempo; la distanza di un mondo in cui il rapporto con le parole è diverso, così come il modo di sentire e di agire.

Una scena del film: interno stalla; gli uomini e le donne chiacchierano e intrecciano cesti alla fioca luce delle lampade a vento. I bambini ascoltano

Non è facile fare film sulla guerra; [vedi su “O”: ‘Lebanon‘
 del 25.10.09] l’esito è noto e le immagini creano un orrore ‘anamnestico’, un rigetto che richiama tutti gli altri strazi già visti in precedenza. Tanto più delicata, a maggior ragione, dovrà essere l’opera del regista – il suo sguardo, la sua pietas – ai fini del risultato finale; dell’emozione che passa allo spettatore.

C’è la ‘Storia’ e poi ci sono le storie. In film di questo tipo può essere ancora più interessante del solito seguire il modo in cui si connettono, si allacciano e si disgiungono, per arrivare di nuovo, come dopo una lunga corsa affannosa, a sovrapporsi nel finale. Come si legge nei titoli di coda del film: “I personaggi del film sono immaginari, i fatti rappresentati sono reali”.

Si tratta di una ricostruzione dei fatti avvenuti in località Monte Sole, una trentina di chilometri a sud di Bologna a fine estate – inizio autunno  del 1944: l’impatto della ‘grande guerra’ su una piccola comunità rurale, che ha già i suoi problemi di sopravvivenza: la povertà, il freddo, il terreno difficile da coltivare, il mal sopportato controllo da parte del regime fascista.

La storia del film inizia alcuni mesi prima, nell’inverno del ’43.

È un racconto dal basso, dalla parte della gente dei campi, di cui sono evidenti, nell’accurata ricostruzione ambientale, gli aspetti della vita quotidiana, i gesti lenti e sapienti, gli oggetti di uso comune. Inquadrature, luci e poesia dell’immagine di cui già il regista – affiancato dallo stesso Roberto Cimatti alla fotografia – aveva dato prova nel suo film precedente. L’altro aspetto di rilievo è il dialetto, con la sua musicalità intrinseca – anche qui sottotitolato -: una scelta di stile e un’ulteriore pennellata di verismo alle immagini.

La sapienza antica dei gesti in un’ambientazione contadina estremamente accurata (da sin. le attrici Maya Sansa, Laura Pizzirani e Alba Rohrwacher). Le foto di scena sono di Cosimo Fiore

Nell’ambito di questa piccola comunità, il personaggio dal cui punto di vista la storia è raccontata è quello di Martina (l’intensissima esordiente, Greta Zuccheri Montanari), una bambina di otto anni che ha perso la parola da quando un fratellino di pochi mesi le è morto tra le braccia. Adesso la mamma Lena (Maya Sansa) aspetta un altro figlio, il papà (Claudio Casadio) non pensa che a lavorare e la vita sembra riprendere… Ma arriva la guerra.

I tedeschi all’inizio appaiono gentili; vanno a comprare i prodotti dai contadini e li pagano; ma la minaccia incombe. Il racconto è cadenzato nei nove mesi dell’attesa del bambino ‘che verrà’; le stagioni e i colori della natura si susseguono, tra i piccoli eventi di cui è fatta la vita della comunità rurale. Martina fa le sue esperienze e sta a guardare – di lato, sempre un po’ discosta – gli eventi che succedono nel mondo dei grandi. Anche i tedeschi, che fa fatica a comprendere: “…Io non so perché sono venuti e non sono rimasti a casa loro, con i loro bambini”.

Due fotogrammi dal film; la fotografia e le scene sono rispettivamente di Roberto Cimatti e di Giancarlo Basili

Intanto nei boschi circostanti si è costituito, quasi spontaneamente, un gruppo di resistenti armati – parenti e amici della stessa gente della zona – che comincia a compiere isolate uccisioni tra gli invasori; azioni di disturbo che il comando tedesco vuole eliminare. Specialmente adesso – nell’estate-autunno del ’44 – che l’andamento della guerra sta cambiando.

Lena (Maya Sansa), la mamma di Martina, continua a lavorare durante la gravidanza, come si è sempre usato in campagna. Le ricostruzioni d’epoca e d’ambiente sono molto accurate

Al tempo giusto, il bambino nasce. Proprio negli stessi giorni in cui i tedeschi portano a compimento la loro campagna di rastrellamento nella zona…

Qui i fili della Storia e delle storie si devono ricongiungere, e sarà la piccola Martina a mantenere in vita la speranza, tra tanta distruzione…

Martina: Greta Zuccheri Montanari (Foto di scena di Cosimo Fiore)

Il film non lo dice, ma è un periodo in cui il vento della guerra sta cambiando. Dopo lo sbarco in Sicilia (9-10 luglio 1943) l’Italia è riconquistata dall’esercito anglo-americano che sta risalendo la penisola verso Nord. Il bombardamento di Roma (S. Lorenzo) da parte degli anglo-americani è del 19 luglio del ‘43.

Roma è dichiarata unilateralmente ‘città aperta’ nell’agosto del ’43 e tale rimarrà per almeno dieci mesi (fino all’arrivo degli anglo-americani nel giugno ’44). L’attentato di via Rasella e la rappresaglia delle Fosse Ardeatine sono del 23 e 24 marzo del ’44. Lo sbarco di Anzio era avvenuto in un arco di vari giorni alla fine del gennaio ’44, ma la via verso la capitale è difesa ad oltranza ai tedeschi e la liberazione di Roma avverrà solo quattro mesi e mezzo più tardi, il 4 giugno del ’44.

Nell’estate del ’44 i tedeschi, che hanno anche liberato Mussolini e lo hanno posto a capo della cosiddetta ‘Repubblica di Salò’, sono attestati sulla cosiddetta ‘linea gotica’ (da Massa Carrara a Pesaro; v. sotto). Ancora mantengono il controllo di parte del Centro e del Nord d’Italia, e sono  più che mai determinati all’eliminazione di sacche di resistenza nel territorio che occupano. È il periodo in cui vengono effettuate le stragi più efferate contro la popolazione civile, spesso senza un reale intento strategico, di pura rappresaglia per una situazione che cominciava a sfuggire – o era già sfuggita – al loro controllo.

Il 6 giugno del ’44 avviene lo sbarco in Normandia.

La strage di S. Anna a Stazzema è del 12 agosto 1944  e causa 560 vittime civili.

Gli eccidi di Monte Sole, ricordati come ‘La strage di Marzabotto’, dal maggiore dei comuni colpiti, sono compiuti tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 e coinvolgono circa 770 persone.

Disposizione delle linee difensive nell’Italia centro settentrionale nel 1944; la ‘linea gotica’, tra Firenze e Bologna, taglia l’Italia da Massa Carrara a Pesaro (Da Wikipedia)

La fine della guerra in Europa arriverà solo l’8 maggio del ’45, con la resa incondizionata della Germania firmata dal feldmaresciallo Keitel nelle mani del maresciallo Zhukov comandante dell’Armata Rossa, che aveva occupato per prima Berlino (Hilter si era suicidato il 30 aprile del ‘45).

Il giorno della memoria rievoca la data del 27 gennaio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa, che attraversava la Polonia in rapido avvicinamento verso Berlino, si era imbattuta nel campo di concentramento di Auschwitz e aveva liberato i pochi prigionieri che i tedeschi vi avevano lasciato, dopo aver distrutto il possibile. Quindi a guerra non ancora finita.

 

Dello stesso tema – periodo storico e territorio – tratta il film di Spike Lee ‘Miracolo a S. Anna’ di qualche anno fa (2008), che si è ritenuto di dover visionare per documentazione e confronto. Si disse a suo tempo che qui in Italia si era dovuto attendere un regista americano per trattare un argomento ancora così vivo e bruciante della nostra storia recente. In realtà l’interesse di Spike Lee è comprensibilmente un altro: quello di illustrare un aspetto poco noto della seconda guerra mondiale come la partecipazione dei soldati di colore, prima relegati alle cucine e ai servizi, alle azioni di combattimento: la 92a Divisione ‘Buffalo Soldiers’ dell’esercito americano, interamente composta da militari di colore, che partecipa appunto alle operazioni di sfondamento della ‘linea gotica’. Nel film infatti si raccontano le avventure di quattro soldati americani di colore che si ritrovano tagliati fuori dal resto del loro reparto, in territorio controllato dai tedeschi, e vengono a contatto con la popolazione locale. Con tutto il rispetto per il lavoro del regista americano, per rigore di racconto, storia e immagini non c’è paragone tra i due film. Anche la citazione dell’eccidio di S. Anna a Stazzema è poco più di un episodio in una storia aggrovigliata, con qualche imprecisione che fu duramente criticata al tempo dell’uscita del film nelle sale.

Sopra: locandina del film ‘Miracolo a S. Anna’ di Spike Lee (2008). Sotto: i quattro militari americani tra cui Train, ‘il gigante di cioccolata’, che tiene la mano sulla spalla di Angelo, il bambino del miracolo

Nei film citati, le storie dei personaggi fanno voli e giravolte, si librano e si posano ancora, prima dell’appuntamento fatidico con la grande Storia; quest’ultimo sì, fisso e ineludibile. Al cinema non occorre, né sarebbe possibile, che le piccole storie si modellino strettamente sulla grande; basta che finiscano insieme e in modo non incoerente. Che si ritrovino un attimo prima, perchè la conclusione scritta a volte su un rigido marmo, tutto includa e abbracci, come questa iscrizione del cimitero di Casaglia…

Targa commemorativa degli eventi, nel cimitero di Casaglia di Monte Sole (Bo). È scritta come un racconto…

Hitler disse: “Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza.
Dobbiamo distruggere tecnicamente, scientificamente”.

I superstiti della strage raccontano: i giorni 29-30 settembre e 1° ottobre 1944
furono i più terribili, ma la carneficina continuò anche poi.

Appena giorno avevo contato 54 grandi falò di case isolate e a gruppi, bruciare
intorno, vicini e lontani…

…Ci riunimmo tutti sul piazzale della chiesa di Casaglia. Dicemmo che i
nazifascisti venivano per i partigiani e quindi i vecchi, le donne e i bambini
potevano stare in chiesa.

…Buttarono giù la porta. Facevano venire fuori tutti e li picchiavano ridendo
…Il parroco lo uccisero con una raffica sopra l’altare
…Ci condussero tutti al cimitero; dovettero scardinare il cancello con i fucili
…Ci ammucchiarono contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno. Loro
si erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira
…Aprirono il fuoco e gettarono delle bombe a mano; sparavano basso
per colpire i bambini…

Così nel cimitero di Casaglia furono massacrate 195 persone di 28 famiglie fra
le quali 50 bambini.

La nostra pietà per loro significhi che tutti gli uomini e le donne sappiano
vigilare perché mai più il nazifascismo risorga

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