Le auto rallentano, prima di girare a sinistra, all’altezza di Piazzale Tiburtino. A destra, di sicuro, non possono andare, perché lì c’è il cuore di San Lorenzo. Cioè tutto un mondo di suoni, colori e calore intellettuale, che non ha niente a che spartire col chiasso e il delirio delle ore notturne e però diffonde alle strade circostanti, e a chi le frequenta, un senso di aria frizzante, di vitalità improvvisa e inattesa. Alle tre di pomeriggio, il Bar Marani è in pieno fermento. È su Via dei Latini, all’incrocio con Via dei Volsci, e i tavoli fuori sono pieni di artisti, giornalisti, organizzatori di eventi a lavoro. I conversatori mangiano, bevono, fumano e discutono. Ma appena entra qualcuno, non possono fare a meno di fissarlo attentamente, forse per cogliere assonanze, convergenze, empatia. Vita e movenze da artisti. E quando è il turno di Sergio Gaggiotti, cantante e chitarrista dei Rosso Malpelo, la curiosità è ancora più grande, perché da queste parti, in tanti lo conoscono. “Da tanti anni suoniamo qui, abbiamo tanti amici – racconta, ordinando una birra-. Al Pub “Il Serpente”, vendono anche i miei cd”. E mentre parla, tornano alla mente le volte in cui passava sempre da queste parti, ma da ragazzo e da lavoratore, nella vita precedente a quella musicale. Che oggi ha preso strade complesse e inimmaginabili, che arrivano persino… in Vaticano. “Ho scoperto la musica abbastanza tardi, e in effetti possiamo dire che la sto ancora scoprendo. Prima ho fatto tutti i lavori possibili e immaginabili: ho venduto il formaggio, lavorato in un’azienda di trasporti, allevato cani, fatto il benzinaio e il muratore. E sicuramente ne dimentico qualcuno”. A 19 anni, in mezzo a questa vita intensa, l’incontro con note e corde. “Mio padre mi regala la mia prima chitarra. È stato amore, non c’è dubbio. Un anno dopo già lavoravo come chitarrista, e sembrava l’inizio di qualcosa di molto importante”.
E poi qualcosa porta Sergio fuori da Lamaro, la sua periferia, la zona di Eros Ramazzotti (suo vicino di casa da bambino), e anche da Roma. Cosa è successo? “Qualcosa di molto semplice. Ho vinto un concorso da bibliotecario, e ho vissuto a Perugia per sei anni. In questa fase, la musica era passata in secondo piano. Ma poi, lentamente e inesorabilmente, è riapparsa dal nulla. E proprio in trasferta, ho iniziato a scrivere le prime canzoni. Hula è stata la prima in assoluto”. E come inizio, potremmo dire, non c’è male. È la storia di una prostituta, sfruttata fino all’estremo, e del suo grido di dolore e disperazione (“Guardati e pensa, quando compri l’amore, che paghi violenza e soprattutto dolore”). Il ritorno a Roma ha le sembianze del trasferimento (biblioteca dell’Istat) ma porta con sé una nuova consapevolezza: Sergio prende coscienza della sua “forma canzone” e decide che è arrivato il momento di condividerla. Di qui, l’incontro con gli altri musicisti, le prime serate dal vivo, e allora Hula, insieme alle storiche Mr. Limite, Kalua, Foja e Piove, prendono corpo e forma del primo album. Inizia un’altra storia da adesso, che arriva a fine 2008, con il primo album a lunghezza “commerciale”, “Con il pelo e con il vizio”, 16 brani bellissimi che occhieggiano al jazz, ma sono l’espressione di una grandissima cultura musicale, e oltre a sonorità esterofile prende in considerazione tutta la scuola cantautorale italiana (“a partire però da Luciano Straniero”, precisa Sergio, e non dalla più recente scuola genovese). Tra questi 5 anni, però, c’è anche qualcos’altro, ed è una lunga e appassionata dichiarazione d’amore a Roma. Quella stessa Roma che ora sfila davanti al bar Marani, e vive attraverso i suoi personaggi ambigui, ritmici, sempre alla ricerca di una fuga, di una “svolta”. “Nel 2005 abbiamo pubblicato Padapè, parole dalla periferia, con 4 brani e il libro Malaroma. Volevo dar voce a Roma partendo da un certo angolo visuale, abbastanza simile (ma non per forza fedele) al mondo da cui provengo, quello che allora era l’estremo limite della città”.
Ma come cambia, se cambia, il rapporto con la periferia? Quali sono i ricordi che restano? “Il limite tra ricordi positivi e negativi, almeno per me, è molto sottile. Spesso, legare i propri ricordi d’infanzia a una realtà disagiata è negativo, ma per quanto mi riguarda i ricordi negativi sono abbastanza offuscati. Anche se avevo i capelli rossi, e questo in qualche modo mi distingueva sempre, a partire dalla tenera età… Ho vissuto a Lamaro dagli 8 ai 19 anni, poi sono andato a vivere da solo a Centocelle. Ma i miei amici di sempre, quelli che rivedo più spesso, sono quelli della mia infanzia. Il quartiere ti lega, ti rende uniti per sempre. Anche nelle difficoltà. Lì molta gente, ragazzi compresi, non lavorava, ed era facile avere deviazioni e influenze negative nella propria crescita. Credere nell’uomo, e nelle sue potenzialità, mi ha aiutato molto. In Malaroma racconto la voglia di una svolta, che mi ha contagiato per molto tempo. In molti, nel mio quartiere ma non solo, si inseguiva l’opportunità, l’affare che avrebbe potuto sistemarti, o comunque far cambiare la tua vita”. E’ il pensiero dei sogni, potremmo dire, dell’immaginare un cambiamento. “Sì, ma senza illusioni. Spesso, infatti, queste svolte si rivelano abbagli, perdite più che vincite: il potere economico, anche quando è consolidato, non determina la giustizia. E ti accorgi che hai provato a combattere contro il destino, senza successo. Con epiloghi tragici e terribili”. Ma cosa è cambiato, oggi, della Roma di allora? I nostri ragazzi sono ancora così? “Ora, come allora, si percepisce la voglia di una svolta. Tutti noi, in un modo o nell’altro, attraversiamo una fase in cui sogniamo un cambiamento. Ma poi, una volta entrati nella vita adulta, quando diventiamo ingranaggio, facciamo fatica ad inseguire i nostri sogni. E il fare i conti con la realtà ti disillude, spesso irrimediabilmente”. Qual è, allora, una via d’uscita? “L’unica uscita è non essere succube, riuscire a fare del tuo tempo ciò che vuoi”.
A volte, però, il tempo è imprevedibile. E il caso fa incontrare, in momenti inaspettati, mondi all’apparenza lontani e incompatibili. E allora accade che Rosso Malpelo, snobbato dalla discografia italiana (in questo, oltre che nei capelli, abbastanza simile all’immagine dipinta dal Verga), si ritrovi trasmesso in circuiti mondiali. “Al mercato italiano, ormai l’abbiamo capito, non piace la nostra musica. Forse perché è “adulta” a livello qualitativo, fuori dagli stereotipi del giovanilismo e della superficialità. Ma questo, oggi, non svuota del tutto le nostre potenzialità. Oggi il mercato è ampio, e la nostra musica può anche uscire dall’Italia. Siamo astati trasmessi in Messico, a New York, e persino alle Hawaii, anche grazie all’etichetta Life Gate, che fa musica in tutto il mondo, e produce dischi rappresentativi dei vari stati”. Per l’Italia, è toccato alla compilation “Italian cafè”, e “Il mare mi salva”, di Sergio e compagni, è la seconda traccia dell’album. Ma le sorprese non finiscono qui. Lo stesso brano, di grande impatto evocativo, è stato scelto per un’altra compilation, forse più bizzarra: la playlist del Vaticano, o meglio il contributo di padre Giulio Neroni, direttore della Multimedia San Paolo, al servizio Myspace Music. “Il nostro pezzo è insieme a brani di Tupac e dei Muse, ma anche a Mozart e al canto Advocata nostra dall’album Alma Mater. E’ un accostamento un po’ singolare, ma siamo comunque felici. Anche se non ho la più pallida idea di come sia avvenuto”. E questa nuova possibilità potrà essere un nuovo inizio, un salto in avanti di notorietà? “Premesso che non voglio diventare Michael Jackson, né tantomeno pagare qualcuno per diventarlo, direi che è molto difficile, perché ormai con l’Italia ho perso la speranza. Ho l’impressione che sia tutto deciso, che si tenda a non valorizzare la qualità. E allora, è anche inutile ammalarsi di questo. Le nostre vendite non sono capillari, qualche negozio a Roma, e ovviamente il nostro sito (rossomalpelo.com). Ma possiamo arrivare, in questo modo, anche al resto d’Italia. Tutto ciò che verrà, ovviamente, è ben accetto. Ma piuttosto che pietire il lavoro, o fare carte false per un’ospitata televisiva, a 43 anni, preferisco chiudermi in casa, scrivere e coltivare la mia arte. E la mia passione”. Che, a quanto pare, presto sarà dirottata anche in teatro, per delle serate ben congegnate, volte a contaminare tra loro generi e forme d’arte. E chissà se sul palco, per poche ore, potrà rivivere anche l’atmosfera magica di Via dei Latini, con gli artisti che si alternano ai tavoli e in strada, persi e concentrati nel loro modo (invidiabile) di giocare con la vita.