“Un regista, che sia anche sceneggiatore, durante la scrittura e poi nel corso delle riprese, indaga sempre su un mistero, su qualcosa di segreto. Anche quando non ne è consapevole evoca fantasmi e risolve misteri di cui all’inizio ignorava l’esistenza. È il processo della creazione e quando ciò avviene è una grande emozione privata.
Il segreto che scopri non è sempre gradevole, a volte è un segreto terribile. Negli ultimi tre film sono stato io il mio punto di riferimento. Ho dovuto indagare nella mia parte oscura. Per questo dico che il regista è come un detective privato. La mia tecnica di scrittura assomiglia molto alla tecnica usata da un detective in un film noir.
L’immagine più eloquente del cinema come scoperta di un mistero è la scena iniziale di Blow up dove il fotografo inquadra un parco in apparenza tranquillo, poi, man mano che ci avviciniamo, scopriamo un morto sotto un albero.
Vi faccio un esempio concreto: Lanzarote è un’isola dove vado spesso. È un’isola vulcanica scura, è quasi un paesaggio mentale. In particolare c’è una spiaggia nera con gli scogli di un color rosso vinaccia. Da quattro o cinque anni ho la sensazione che quel paesaggio contenga un mistero per me. Che lì sotto covi qualcosa che mi riguarda, non so quando si rivelerà. Ma so che bisogna saper aspettare…”.
Questo raccontava Pedro Almodóvar cinque anni fa a Roma durante la presentazione di ‘La mala educación’ (“Questo ho detto?” direbbe, come ogni volta che gli citano le sue parole. “Allora se l’ho detto sarà vero”). All’epoca nei suoi occhi c’era una malinconia, un doloroso segreto – un riflesso di quel film nero, cupo, tutto al maschile.
Ci vengono alla mente quelle parole ora che, ci annunciano, Pedro Almodóvar sarà di nuovo a Roma con il film dove il segreto di Lanzarote si è rivelato.
Come al solito, siamo felici ed emozionati all’idea di vederlo, di tradurlo. E già timorosi del senso di vuoto che si lascia dietro ogni volta che va via, lui con la sua grande famiglia. Sono anni che vorremmo dirgli quanto sia importante per noi, ma non lo facciamo mai. In silenzio lasciamo che il nostro cuore si scaldi, per un po’, accanto alla sua gigantesca umanità, alla sua follia lucidissima, tenera e dissacrante. A quel modo tutto suo di parlare del dolore, della perdita e della solitudine.
E, come ogni volta che si annuncia il suo arrivo, chi lo aspetta a Roma si chiede: come sarà questa volta Pedro Almodóvar? Più allegro, più triste, più folle? E c’è in quella domanda un’attesa che non riguarda solo la sua persona.
Come se l’evoluzione nella vita di persone così grandi ci possa rivelare qualcosa del segreto del tempo. Come se dal suo viso, dal suo stato d’animo, dalla sua opera si potesse intravedere in controluce la trama del mistero che a noi, comuni mortali, si nega.
Ed eccolo che arriva con una barba inedita piena di fili bianchi. La malinconia nei suoi occhi ricacciata sotto un velo di ironia sorniona, di autoironia sferzante.
E, come sempre, è lui: sempre uguale ed insieme sempre diverso, come i suoi film, diversissimi, ma sempre i suoi film. Vitalissimo, curioso, indagatore. E, come altre volte, accanto a lui la prima reazione è la vergogna, il pudore delle proprie stasi, rallentamenti, stanchezze talvolta. Dietro la sua esuberanza, l’ironia feroce, e lo sconfinato successo, ancora una timidezza, un impaccio bonario e scherzoso.
Di fronte agli impegni del tour promozionale, ci si chiede: Prevarrà in lui la vena malinconica, l’impulso ad andarsene, a girare sui tacchi? Oppure, all’opposto, trionferà il divo dell’eccesso, ostentato, irriverente, in cui a volte, forse per gioco o per difesa, si trasforma?
Un misto.
E sempre comunque, più importante di ogni altra cosa: il cinema. La sua eterna passione. A cui il suo ultimo film ‘Gli abbracci spezzati’ – “un grande aroma, è un dramma duro, che non fa piangere, c’è anche una parte di thriller, ma è solo un momento” – è dedicato.
Forse il segreto del tempo è solo questo: dedicarsi a ciò che al tempo sopravvive. Il film sopravvive al suo autore, e anche al dolore che gli impedirebbe di portarlo a termine. E ai nemici che vorrebbero distruggerlo.
La barba è diversa, ma uguale è la curiosità sorniona e vagamente diffidente con cui inizia ogni intervista, e l’entusiasmo da cui si lascia trascinare se le domande gli piacciono e la conversazione prende la strada giusta.
Come stamattina: lunghe interviste, con tutto il tempo per divagare, in una grande camera d’albergo, con la pioggia che cade oltre i vetri. Ogni suono è attutito, ogni altra realtà scompare, c’è solo lui seduto sul bordo del divano e di volta in volta un interlocutore diverso che, alla fine dell’intervista, sembra destarsi spiazzato, incredulo che il tempo sia trascorso così in fretta, abbagliato dal mondo che è apparso nella stanza, come se le finestre si fossero spalancate all’improvviso e dietro la pioggia fosse apparsa una nuova vita meravigliosa, tumultuosa, da prendere senza giudicare, da assaporare in libertà.
I giornalisti esitano ad uscire, ad accomiatarsi, si vorrebbe essere certi di vederla ancora quella vita, fuori di là. Fuori della stanza dove, indifferente alla pioggia che martella sui vetri, Pedro Almodóvar sparpaglia il suo bagaglio di passioni e immagini note: John Houston che gira con passione il suo ultimo film intubato e sulla sedia a rotelle: “Così vorrei finire io, girare, girare fino alla fine anche se il corpo non mi accompagna, purché la testa funzioni”; il genere noir, e i suoi noir preferiti: ‘La fiamma del peccato‘, ‘Le catene della colpa‘, ‘Femmina folle‘, la sua passione per le attrici italiane di un tempo: “Adoro la figura della madre mediterranea, che lotta e sopravvive; in Spagna le madri all’epoca erano tutte bassine, tracagnotte, niente sexy, e le italiane invece con quei decolletè, quelle sottane nere. Stupende..!”, il melodramma che ama dall’infanzia e la mescolanza dei generi: “Ognuno di noi ogni giorno mescola più generi: ci svegliamo nella commedia, passiamo una mattina da melodramma, magari un pomeriggio porno, arriviamo ad una cena da tragicommedia. Nella vita tragico e comico si fondono, gli italiani non hanno mai avuto problemi al riguardo; sono gli anglosassoni che fanno più i difficili, vogliono sapere subito se è da piangere o da ridere”. Sparso nella stanza è il suo scrigno segreto che in ogni film si rigenera, si associa e si combina in diverse composizioni, e si arricchisce di tutto ciò che sopraggiunge. Dei nuovi acquisti che la vita gli offre, le nuove passioni che sviluppa.
In una miscela di intensa verità, di gioco, di finzione, cosa c’è di vero, cosa di falso, cosa di provocatorio: davvero non importa.
Tra le nuove passioni c’è un poeta, Marcos Ana, un sopravissuto alla guerra civile. E un nuovo interesse per la politica. Non quella dell’Italia così diversa da quella che lui ha amato. “Le fa piacere che si usi il termine almodovariano per indicare gli ultimi fatti italiani?”. “Grazie no, preferisco che il mio nome venga tenuto lontano da questo genere di scandali. Oltretutto, dove è in questi fatti l’allegria, l’irriverenza, la provocazione? Se dovete parlare di me dite solo che sono un regista per cui il cinema è la cosa più importante della vita, che tratta tutti i suoi personaggi, i buoni, i cattivi e i normali con grande libertà, con autonomia morale”. Il poeta spagnolo, su cui a breve produrrà un film, è un amico, una delle nuove ricchezze della sua vita. È stato in prigione 23 anni. Componeva versi che i suoi compagni di prigionia imparavano a memoria per diffonderli, un uomo torturato infinite volte e che alla fine della sua prigionia non aveva mai conosciuto una donna. Il film racconta di una notte d’amore con una prostituta a cui lui racconta la storia della sua vita.
“Sì è così che mi piacerebbe affrontarlo” dice Pedro Almodóvar alla giornalista, “…il racconto di una notte d’amore”. Nella sua voce, nel suo viso c’è la trepidazione, la meraviglia per il nuovo progetto, come chi tenga in mano un oggetto preziosissimo e delicato. In cui si riflettono le luci ed i bagliori della stanza.
“E perché questo improvviso interesse per la politica, per la Spagna e per Franco, che non è mai apparso nei suoi film?”
Almodóvar si concentra, soppesa le parole: “Non è una riscoperta della politica. Però ho incontrato un uomo straordinario. Un uomo che è sopravvissuto a tante torture, smettevano di torturarlo solo perché lo credevano morto, ma non ha mai fatto il nome dei suoi aguzzini. È come un santo”. Si ferma, fa una pausa come meravigliato dalla santità del suo personaggio. “Non fa il nome dei suoi aguzzini perché non vuole che i nipoti si facciano carico delle loro colpe. Quando ho iniziato a fare film, alla morte di Franco, mi interessava la realtà della strada. Nei miei film Franco non esiste. Volevo negare la sua esistenza, non volevo permettergli neanche il ricordo. Mi sembrava la critica più feroce che potessi fare: cancellare la sua esistenza. Ma ora il tempo è passato. Prima era importante dimenticare, ora bisogna ricordare e seppellire i morti”.
Alla base di questo film, ‘Los abrazos rotos’, come di ogni altro, c’è una vicenda personale. Emicranie violentissime che lo hanno costretto al buio e all’immobilità. Ma poi il dato personale appare trasfigurato.
“Tutti i miei film nascono da dentro di me e da ciò che avviene attorno a me, da ciò che sento, vedo e dalle cose che mi dicono. Quando vivevo immobile nell’oscurità ho cominciato a fantasticare sul mio personaggio, su un regista che diventa cieco, l’incubo di tutti i registi. All’inizio ero io, ma dopo, solo dopo, quando ho visto che si allontanava da me, che acquistava una sua vita, allora ho capito che poteva diventare una storia, altrimenti no, non mi interessa” dice con sprezzo “mettere le mie vicende in un film. Anche il doppio nome viene da me. Non ho mai creduto che una sola vita sia sufficiente”. C’è un fondo di malinconia nella sua voce, che si maschera e si trasfonde nell’ironia; il passare del tempo è un tema comunque doloroso, perché lavorare e girare film non offre a nessuno le chiavi dell’eternità. “C’è stato un momento in cui ho pensato che se avessi avuto un doppio avrei potuto avere una doppia, una tripla vita; in quell’occasione era venuto fuori il nome Harry Caine, che pronunciato velocemente diventa Hurricane”. Con le mani fa il gesto del turbinio, sorride e sembra di vederlo, l’uomo intento a provare gli pseudonimi con cui avrebbe ingannato l’unicità della vita. “Un inganno, lecito, ma sempre inganno, e ho capito poi che non mi sarebbe servito a molto.”
“Dei suoi film passati c’è qualcosa che, rivedendoli, cambierebbe, qualcosa di cui si pente?”
“I miei film non li rivedo mai” poi più conciliante aggiunge “se li passano in televisione può succedere che li veda e li giudichi. Con tutti mi identifico, non c’è nulla che rinnego, sono tutti perfettibili, ci sono parti di cui vado orgoglioso, altre che non mi piacciono. Ma così devono restare, accetto che il risultato sia stato quello, è una buona cosa accettare ciò che si è fatto. La perfezione bisogna lasciarla al presente, a ciò che si vuole fare”.
“Questo si ricollega all’ultima frase del film, la più importante mi pare: i film bisogna finirli sempre, anche alla cieca”
“Sì, è la frase più importante del film. Bisogna finire, andare avanti. Girare fino alla fine. Io lavoro sempre. Lavorare è terapeutico” E ride “Lavorare, lavorare sempre, ho sempre tre o quattro progetti sul mio tavolo. Quando giro, anche l’emicrania è meno violenta.”
“Nonostante il grande successo lei ha sempre mantenuto le distanze da Hollywood, anche ora che Penelope Cruz è andata in America.”
“Mantenuto le distanze” ride “sì è un bel modo per dirlo. Il racconto della Proulx, ‘Brokeback Mountain’ mi piaceva molto, ci ho pensato su freddamente. Mi sono chiesto: siamo certi che lì mi daranno tutta la libertà di cui ho bisogno? Mah! Mi sa tanto di no. Niente può essere migliore della libertà che ho qui. Anche il film lo dice: il materiale cinematografico è estremamente vulnerabile e appartiene all’autore, qualunque interferenza esterna lo distrugge, lo manipola, lo trasforma in un mostro.”
“E dopo tanti anni e tanti film, il cinema continua ad essere così importante per lei?”
“È ancora più importante, ora che il resto della mia vita si è ridotto, non ho trovato nulla con cui sostituire la meravigliosa vita notturna degli anni ’80, ’90. È arrivato il momento in cui ho dovuto scegliere tra una vita sana che mi permettesse di lavorare ed una vita intensa, e poiché sono dotato di molto buon senso, ho scelto di continuare a lavorare.” Sorride e sospira.
“In questo film come in altri si parla di rapporti di famiglia, di conflitto violento tra genitori e figli, c’è qualcosa di personale di cui voleva parlare?”
“No, no, no” si affretta a rispondere con la serietà, la comprensione, l’affetto, quasi un senso di protezione che modula la sua voce quando parla della sua famiglia. “Con la mia famiglia c’è stato solo un momento di scontro fortissimo, di grande violenza: quando ho finito il liceo e ho detto che sarei andato a Madrid. I miei genitori volevano che lavorassi in banca, mio padre ha anche minacciato di chiamare la guardia civile; è stata l’unica volta in cui c’è stata una tensione altissima, ma mio padre deve essersi reso conto che ero irremovibile. Sono arrivato a Madrid, il giorno dopo li ho chiamati al telefono, e la tenerezza e l’affetto erano quelli di sempre”.
L’interlocutore dà la risposta per conclusa ma Almodóvar ha voglia di parlare ancora, di aggiungere, lui è così: dà risposte sicure, taglienti, e poi sempre avverte il bisogno di chiarire, di modulare.
“Non volevano che andassi” riprende immerso nel ricordo “i miei genitori vivevano con il fantasma della fame, del lavoro sicuro. E comunque è vero: mi affascinano le relazioni familiari. Mi piace indagare nelle figure di padri enormi che annullano i figli con la loro grandezza. Ma soprattutto mi affascina la figura della madre: la madre che è sempre la vera genesi della famiglia, come il personaggio di Judit nel film, che nell’ombra e nel silenzio tiene unita la famiglia. Sono state le madri che ci hanno permesso di vivere in Spagna nel dopoguerra”
“E perché l’omaggio a Tonino Guerra?”
“Tonino Guerra, che uomo… Mi mandò quel libro: io non conoscevo la sua opera poetica, e poi quando l’ho letta non riuscivo a credere che si potessero scrivere cose così belle, una poesia narrativa, si vede che ha scritto per il cinema. Non è che un piccolo omaggio, dovuto.”
E ride orgoglioso, i suoi occhi scintillano. Il cinema deve piacergli anche per l’infinita possibilità che offre di rendere omaggio alle persone care.
“E un altro omaggio a Rossellini che pure è molto lontano dal suo cinema.”
“Questo dicono: che non c’è traccia di Rossellini nella mia opera, ma io lo adoro”. Il suo sguardo è attento come ogni volta che si parla dell’opera di un regista, che lui di certo ha studiato ed indagato a fondo “per tutti i narratori è una lezione di semplicità, di trasparenza. In Francia dicono che sia stato il profeta della Nouvelle Vague; inizia con lui il ritratto della vita, le sue storie si possono raccontare in cinque righe, è una grande prova di come una storia si possa raccontare in modo semplice.”
“Perché è ossessionato dagli autoscatti?”
“Perchè amo le foto più dei video. Le foto domestiche raccontano tantissimo della nostra vita, più delle immagini in movimento. Il tempo è una delle mie ossessioni, credo che mi ritraggo per questo, per vedere cosa cambia.”
Si è fatto serio.
Poi passa al riso.
“E adesso con questa storia che ho compiuto sessant’anni, lo sanno tutti. Non si può più mentire in santa pace. Ma io l’ho sempre detto che nascondo l’età e continuerò a farlo. Pensi cosa sono arrivati a fare: il giornalista di un giornale della Catalogna è andato al mio paese natale a chiedere il mio atto di nascita, per sapere quanti anni avessi… L’ho chiesto a mio fratello e lui mi ha detto che sono documenti pubblici e quindi tutti hanno il diritto di sapere. Comunque io continuerò a mentire…”
“E cosa le hanno dato i 60 anni?”
“Mi hanno dato la coscienza del tempo che mi rimane, è stato come a Capodanno quando si fanno i propositi per una vita migliore”.
“Comunque negli anni lei è riuscito a mantenere una grande immagine pubblica insieme ad un’assoluta difesa della sua vita privata”
“Ho fatto sempre enorme attenzione, la solitudine è già tanta; se dividi la tua vita privata con persone con cui non dovresti dividerla, aumenta e aumenta anche il vuoto. Questo mondo nostro del cinema ha già la sua buona quota di vuoto.”
“E le sue esperienze passate di attore, di cantante le rimpiange?”.
“Sono ricordi non rimpianti, non avevo la vanità per continuare a fare l’attore, ma l’esperienza del palcoscenico è unica, la raccomando a tutti. È un luogo speciale: salire sul palcoscenico e vedere la reazione immediata”.
È nella migliore delle disposizioni, pure ogni tanto la sua ironia si fa feroce. Quando parla di persone, di collaboratori, che lo hanno deluso. “Ha fatto cose grandissime” dice di un musicista, “ma la nostra collaborazione non è andata lontano”. E spiega e argomenta.
Finché si ferma perplesso: “Avrò esagerato? Non intendevo offendere, cioè è importante che prima venga detto tutto il bene e poi magari si dica che la nostra collaborazione non è stata delle migliori”. Sorride e si stringe nelle spalle. Ha perfetta conoscenza del valore di certi sbagli, come i personaggi dei suoi film che sanno quanto contano i potenti, ma c’è anche un gusto infinito, un senso di liberazione, per quelle verità, dette e spiattellate. Che siano gli altri a moderarle, ritoccarle e se non le modellano, tanto meglio. È felice delle cose che gli scappano dette. “Certo forse non andava detto così, ma è la verità”.
E la verità lo preme, per questo spiega a chi gliela chiede, la ragione dell’attacco nel suo blog al critico cinematografico di El Pais. “Non criticava i film, li insultava. Quando a San Sebastian si è permesso di insultare Bertolucci, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, e a Venezia ha dichiarato felice di essere uscito a metà del film di Kiarostami e per giunta si permette di farne la critica.
Oggi, dopo quanto è successo, i miei rapporti con El País si sono enormemente raffreddati, la qual cosa ovviamente non è buona. Però almeno ora il critico cerca di argomentare meglio le sue affermazioni, è più moderato, più riflessivo. Non si deve usare il giornalismo per attaccare le nostre fobie, e difendere le nostre filie, le nostre inclinazioni”.
Altro poi dirà e con altro giocherà in conferenza stampa, l’usuale effervescenza di parole: “Sì è vero, una volta finito il film mi sono accorto che era un grande omaggio al cinema, un atto d’amore come regista e come spettatore; quando ero bambino in Spagna il cinema era l’unica vita vivibile, un mondo parallelo, per quanto irreale, che ci teneva vivi. Poi nell’adolescenza e nella vita adulta ho continuato ad amarlo: il cinema perfeziona la vita, il cinema rende la vita più perfetta, o meno imperfetta.”
Gioca con Penolope Cruz che gli siede accanto, che nel film interpreta uno dei personaggi femminili più tristi dei suoi film. “Un personaggio condannato sin dall’inizio, come scrittore avrei voluto salvarla, ma la storia comanda e forse è stato il personaggio che più ha risentito del mio pessimo stato fisico dell’epoca”.
Penelope Cruz, dentro la quale vivono mille donne diverse, che ha un’enorme forza interiore, ed insieme una vulnerabilità infantile che la rende meravigliosa. “Con lei risparmio molto tempo, sa già tutto, non devo spiegarmi di nuovo. Lei ha una fede cieca in me”. E Penelope sorride, si diverte, deve essere grande l’emozione di sentire le tante donne dentro di lei nascere forgiate tra le mani di Almodóvar.
Gioca con Penelope e gioca con tutto, con la provocazione, con la Chiesa; ora che le interviste non sono più incontri individuali, la conferenza stampa è un’occasione per salire di nuovo sul palcoscenico. Come negli anni di gioventù. E parlare di crocifissi, e dichiararli immagini dell’iconografia pop in modo che i giornali dopo poche ore ne parlino. Sparita ormai ogni cautela, ogni reticenza. “Non rimpiango l’epoca in cui salivo sul palcoscenico. Ma era un’epoca molto bella. E se non fosse per l’età sarei tentato di tornarci.” Ha detto. E coglie ogni occasione per riassaporare l’emozione di un tempo.
Come nel photocall a Fontana di Trevi.
Un bagno di folla nelle strade.
Come è stato? Gli chiedono.
“Straordinario. Una festa piena di affetto. Senza l’aggressività dei photocall, tutti i paparazzi a spintonarsi… La strada è il luogo di tutti, uno di quei momenti che mentre li vivi sai già che faranno parte della tua vita e dei tuoi ricordi.”
“È vero la strada, la vita, è lei ora che sembra farla da padrona nei suoi film, prima era un personaggio a guidare l’azione, ora sembra che siano le folate della vita ad irrompere nella sua scrittura” gli chiede Vincenzo Mollica, forse il suo giornalista preferito, con cui almeno ci sono abbracci calorosi da amici.
“È vero, la stesura di una sceneggiatura per me è un processo lungo, la vita entra ed interagisce, le mie storie mi accompagnano per anni, scrivo le mie sceneggiature più come romanziere che come sceneggiatore, e quindi la vita entra, entrano le cose che leggo, entrano i film che vedo, entrano e sono vivi.”
“E come vorrebbe che si vedesse questo film, i suoi film?”
“Con semplicità. I film, come le persone, come i libri, bisogna vederli con semplicità, senza metterci altre cose, le storie sono cose semplici, vorrei che si guardassero i miei film senza pregiudizi. È quello lo sguardo migliore, con la stessa libertà con cui il regista li ha girati.”
Ora è riapparsa la dolcezza, la tenerezza sul suo viso. Anche nella sua giornata i generi si alternano, la veemenza del mattino che si stempera ora che gli impegni sono quasi alla fine.
E di nuovo la dolcezza e la commedia seduti attorno alla tavola del pranzo: con la sua famiglia, il fratello Agustín, le sue collaboratrici di El Deseo: “Il 90% delle persone che lavorano con me sono donne; sarà un caso, però le donne mi influenzano di più, parlano di più e offrono più materiale”. Chiunque collabori con lui ed entra nella famiglia si siede attorno al suo tavolo e attorno al tavolo ci sono i sorrisi, la leggerezza, la forza e l’indipendenza di ognuno. È una bella famiglia.
La conversazione corre leggera: gli scherzi e le battute sui cibi che ingrassano, commenti sulle interviste che erano ottime, i fatti del giorno, i ricordi improvvisi di persone che vengono citate, “Tullio Kezich era grande vero?” “L’hai conosciuto Pedro?” “No. Un giorno ero con qualcuno, e lui prende e chiama Tullio Kezich di fronte a me e me lo passa ed io dico buongiorno e lui dice buongiorno, che altro si poteva dire? Ma chi ci aveva presentato era così contento”. Chiede notizie della Loren, della Pampanini, si gode il gioco che è la vita con le sue sorprese, sebbene sia solo una e non ci siano doppi che tengano.
Ci sono le frasi che lui appunta su un piccolo taccuino, brevi segni a matita, quasi trasparente, commenti estratti dai giornali che risuonano nel tavolo, la quotidianità che sempre lo afferra. “Molte volte i tratti dei miei personaggi, anche dei minori, li prendo dalla sezione di cronaca dei giornali, e sono proprio quei fatti che in genere la gente trova più assurdi, incredibili, strampalati”.
“La chiesa attacca l’omosessualità. Niente omosessuali nella chiesa” dice qualcuno “Ma da quando? Per i prossimi sacerdoti? Ah va bene non li vogliono più omosessuali”. “E che vi pare se mettessimo un aspirante sacerdote omosessuale nella stessa condizione di un aspirante parrucchiere omosessuale a cui la pazza Accademia dell’Acconciatura vieta l’accesso? Mi piacerebbe creare questo parallelismo” dice, “Che vi pare?”.
Il suo blocchetto che scompare e riaffiora ogni tanto nel corso della giornata. Pieno di una scrittura leggera, minuta, a matita. Pieno di libertà.
La libertà di lui che tanto ci piace, e di cui neanche questa volta lo ringrazieremo. Bloccati dal pudore, colmi di riverenza, ce ne andiamo.
E, per superare la tristezza che arriva sempre al momento dei saluti, prendiamo una delle grandi figure di cartone che hanno decorato i set delle interviste televisive, con il viso di Penelope Cruz che affiora dall’abito rosso dopo la caduta dalle scale. Chiediamo il permesso di portarcelo a casa e attraversiamo le strade di Roma, la calca del centro in un sabato di pioggia. L’enorme cartellone sotto il braccio. Una manciata di colori, di allegria, di libertà, di vita profonda e leggera che non lenisce l’assenza ma ne conserva il dolce sapore.