Più forte di tutte era l’impressione che, su qualunque rapido
e impetuoso legno fossi, questo non era tanto diretto
a un porto a prora, quanto fuggente da tutti i porti
di poppa. Un senso rigido e di smarrito,
come di morte, m’invase. Convulsamente le mie mani afferrarono la barra, ma con la pazza idea
che la barra si fosse, per qualche incantesimo, in qualche modo invertita. Mio Dio, che mi succede? Pensai.
Herman Melville, Moby Dick.

Lo stretto di Aden nel suo punto più ravvicinato è largo poco meno di trenta chilometri, le grandi navi portacontainer lo attraversano ogni giorno portando i loro carichi dall’oriente all’occidente e viceversa. Se vengono dall’emisfero Boreale, dopo aver attraversato il canale di Suez, sfilano davanti a sei nazioni senza cambiare rotta: Egitto, Sudan, Arabia Saudita, Eritrea, Yemen e Somalia. Poi sono costrette a virare per evitare la parte estrema del corno d’Africa e l’isola di Socotra e allineano la prua sulla rotta nord-est; se il mare è calmo in mezza giornata di navigazione sono nell’oceano Indiano. A quel punto la maggior parte degli equipaggi sente la serenità scendergli nel petto e chiede al suo dio una benedizione, per averli fatti arrivare salvi in mare aperto, nell’oceano Indiano, dove sono fuori da ogni pericolo.
Quattromila chilometri più a est, c’è una leggenda che si rinnova ogni giorno e che inocula nei pescatori la paura opposta che provano i marinai dei grandi mercantili.
Un povero pescatore di granchi di nome Ganesh, nella tarda primavera del 1988, scese con il figlio in mare e caricò la sua piccola barchetta con tutti gli attrezzi che gli erano necessari. Reti, cannule, e ciarpame. Il figlio aveva appena appreso i primi rudimenti del mestiere e non era mai uscito in mare. Il padre decise che quello era il giorno in cui si sarebbe svezzato.
Costeggiarono la costa dell’India meridionale, vicino a una località chiamata Purakkad e portarono la piccola barca in legno con un motore da dieci cavalli a largo, circa a dieci chilometri dalla costa, dove il fondale da settecento metri sale fino a una profondità di quaranta e tante boe rosse segnalano la presenza di nasse.
Lavorarono tutta la mattina e si fermarono solo per mangiare e bere. Il figlio se la stava cavando bene e il padre era soddisfatto e sentiva di averlo allevato come si deve. Quando il tempo si fece brutto e le onde iniziarono a scuotere la piccola imbarcazione. In pochi minuti venne giù la pioggia, inattesa e aspra, e colpi l’uomo e il piccolo uomo come tanti proiettili maledetti.
La leggenda racconta che il piccolo uomo fu sbalzato in mare da un’onda mandata dal diavolo in persona che ogni cento anni deve nutrirsi di carne vergine. Il padre non si diede per vinto e lo cercò fino alla fine dei suoi giorni e anche oltre. In alcune zone dell’India, dove questa storia è tramandata, i pescatori giurano di avere visto la piccola lancia e di avere udito, nelle giornate di nebbia, delle urla di dolore. Temono il mare i pescatori di quelle zone e sentono il peso dell’infinito e della morte violenta.
“Senti Ganesh, questa sera è infuriato”.
“Quando Ganesh è così incazzato bisogna pregare o la pesca finirà in malora”.
“Ganesh viene sempre dal mare e porta con sé in mare”.
“Preghiamo, preghiamo”.
Una portacontainer è stata creata e studiata per lunghe tratte e non la scalfiscono le leggende e non la incrina l’infinito oceano con i suoi pericoli, perché anche con una tempesta o con uno tsunami alto venti metri, il mercantile resterebbe a galla e il suo equipaggio sarebbe salvo. Questa cosa la conosce persino quello scemo di Abdullahy, un uomo di quarant’anni con la pancia gonfia e la testa larga, quasi deforme. È soprannominato il Testone e d’ora in poi lo chiameremo anche noi il testone. Lui è l’addetto al rampino, ma se avesse una lancia, starebbe dietro dove ora si trova suo cugino Yasef e guiderebbe l’assalto.
Al suo fianco con la testa poggiata sul lanciarazzi c’è Hassan. Hassan non conta molto come dice Yasef e se non avesse quel lanciarazzi sarebbe a mendicare in qualche pidocchioso paese dell’entroterra come fanno i suoi sei fratelli.
“Non dovevi prenderlo con noi”, disse una volta Testone.
“Ci servono le armi pesanti. Le hanno tutti tranne noi”, gli rispose il capo.
Con gli occhi brucati e una maglietta della Nike nuova con sopra stampato l’autografo di Ibrahimovic, c’è Mussa Yudi Hussein. Si fa gli affari suo in disparte e mastica Khat lentamente, ogni tanto alza gli occhi e si guarda intorno, se non vede niente torna a fissare il Kalashnikov che ha in mano. Lui è chiamato Yudi e ha un’ottima vista, è lui che decide quale nave assaltare e quale lasciar perdere. Con un cannocchiale scruta gli orizzonti e legge le scritte sulle navi, è l’unico che riesce a farlo, gli altri vengono abbagliati dalla luce che come una spada viene dritta dal mare.
Il capitano è Yasef, cugino come ho detto di Abdullahy, e non accetta ordini da nessuno. Durante la guerra civile dice di avere ucciso trenta persone, tutte che lo meritavano. E’ convinto di potere arrivare a sessanta e di potere aggiungere altre trenta tacche sull’elsa della sua spada. Deve ringraziare Dio se gli ha dato la possibilità di avere una lancia con cui recuperare parecchia roba da rivendere. Yasef è di certo una persona ricca.
“Quando tutti noi saremo passati sul tuo cadavere saremo contenti”, dice Yusuf, ma il vento è così veloce che nessuno sente le sue parole. Erano dirette al Testone che nemmeno si è voltato.
Yusuf continua a fissarlo mentre sente la velocità aumentare, si stringe a un cordone legato sul lato sinistro della lancia e sputa in mare, ma il vento lo frega ancora e gli fa attaccare lo sputo sulla guancia. Testone si volta e mentre con il busto si piega in avanti per ammortizzare un’onda, inizia a ridere. Sono due figure ricavate dal nero della luce.
“Parlavo di te, non ce l’hai più una casa lo sai?”, urla Yusuf.
“Non ti sento”, urla Testone.
“Non hai più un cazzo di niente, solo quel rampino con cui ti farai del male”.
“Non ti sento”.
“Tu sei uno che parla con i bianchi”.
“Non ti sento”.
La lancia solca il mare, si alza e si abbassa spuntando le creste delle onde. Non c’è mare mosso, un po’ di onda lunga forse. Il fuoribordo Yamaha 50 cv spinge a una velocità esagerata la lancia, basterebbe un’onda poco più grande e finirebbero in mare a trenta nodi, cioè sessanta km\h.
Questa barca che chiamerò lancia viene dallo Yemen. E’ un guscio di vetroresina senza nessun tipo di supporto metallico o allestimento. Vengono rubate nei cantieri navali ancora spoglie, dopo che sono state fatte asciugare per giorni in larghi campi di cemento nei sobborghi di Adan o in una zona che si chiama Dal Al Amir. Dopo l’asciugatura dovrebbero essere allestite con corrimano e sedili in plastica e altri oggetti che completano l’imbarcazione da diporto. Ma spariscono non appena sanno galleggiare, così come i bambini, da queste parti, spariscono non appena vengono al mondo falciati da qualche malattia.
Ci vengono montati motori fuori bordo Yahamah o Johnson, che non solo sono le migliori marche del settore, ma anche le più care e le più reperibili. Tecnologia giapponese e americana. Le targhette in metallo riportano quasi sempre lo stesso periodo di immatricolazione: sono motori della fine degli anni ottanta.
La roba che tengono sul fondo della chiglia è tenuta giù dai loro piedi e per stare sicuri tengono i fucili in mano con la culatta piantata contro la vetroresina. Yasef non accetta repliche, o si fa alla sua maniera o lui taglia la gola e getta in mare prima il corpo e poi la testa. Non accetta nemmeno che si mastichi khat. Fa bere ai suoi uomini, questo sì, ma niente droga. L’unico a cui è consentito è Yudi perché sa quanto gli faccia bene alla vista quella roba.
Le foglie della Chata edulis Forsk, arbusto che cresce nell’Africa orientale o nell’Arabia meridionale, sono ricche di sostanze psicoattive. Gli alberi di media grandezza vengono coltivati nello Yemen, in Kenya e in Etiopia. Le foglie quando vengono essiccate trasformano un alcaloide chiamato Catinone, presente in maggiore quantità nelle foglie giovani, in un’efedrina chiamata Norpseudefedrina. Yudy mette le foglie in bocca e le mastica una a una, fino a formare un bolo che tiene in una guancia e lo succhia muovendo la mandibola, come se fosse un corteggiamento con una prostituta che nell’arco di tre ore cede la sua mercanzia.
Deve cercare due navi Yudy. Sanno di due navi. Un tale che conoscono bene e che ha sposato la sorella di Hassan le ha individuate con un radar. Sono a quaranta miglia dalla costa e non sono ancora fuori pericolo, nel ventre immenso dell’oceano. A breve dovrebbero incrociarle. Una nave batte bandiera della Liberia, l’altra di Panama, sono entrambe portacontainer e sono entrambe navi europee.
L’orizzonte è vuoto e la costa l’hanno persa di vista circa tre ore fa. Sono in mare aperto e non hanno nessun problema con l’oceano indiano. Forse ne avrebbero di paura, se fossero nati in altri posti, posti più pacifici, ma la realtà è che non ci pensano, non li riguarda come concetto la paura per il mare. L’unica cosa che temono sono gli altri uomini.
Yasef controlla il serbatoio. È il terzo che cambiano. Sono partiti dal porto di Eyl all’alba e hanno riempito la lancia per metà di benzina. Un motore da 50 cv succhia mezzo litro ogni otto chilometri e il serbatoio più grande che hanno a bordo non arriva a contenere quaranta litri. La dotazione è composta da tre taniche da venti litri e due serbatoi da trentacinque. Non gli basterà per il viaggio di ritorno, ma sono speranzosi che non ne avranno bisogno. Yasef ha pregato tanto e ha rispettato tre digiuni in un mese, per questo si sente protetto da una buona stella.
Si fermano e Hassan cambia il serbatoio della benzina. Svita il tappo da quello vuoto e controlla quanta ce n’è rimasta.
“Non più di mezzo litro”.
Yasef annuisce.
Sono una briciola bianca su una lastra increspata che ha il colore dello zinco.
“Ci siamo”, urla Yudy in piedi sulle sue sottili gambe, mentre guarda nel cannocchiale.
“Una si chiama Maria K.”, urla Yudy.
“Io non vedo niente”, urla Yusuf.
“Stai zitto idiota”, urla Yasef.
Yudy continua a mettere a fuoco le due sagome lontane all’orizzonte. Ma sono ancora troppo distanti.
Vanno dritte nella direzione nord-est. Le due navi compaiono e si allargano come isole coperte da grattacieli in mezzo all’oceano o grandi atolli di immondizia meccanica. Sono grigie, disegnate nella foschia e galleggiano sulla linea dell’orizzonte.
“L’altra Msc”, urla Yudy.
“Io non vedo niente”, urla Yusuf.
“Vuoi stare zitto porco mangia gatti”, urla il capo.
I mercantili sono a circa due chilometri di distanza. La lancia è troppo piccola per essere avvistata e nessuno degli equipaggi delle due navi si aspetta un attacco così distante dalla costa. Procedono lente nella foschia di metà giorno, la nave Italiana (Msc) sembra quasi ferma, come un atollo nero venuto fuori con una poderosa attività vulcanica.
Rimettono in moto il motore e Rocky 4 affetta le dune di acqua. Suo cugino glielo ha ripetuto più volte, ma lui non lo vuole stare a sentire.
“Porta male chiamare con un nome maschile una barca”.
Yasef se ne frega e il nome lo ha scritto con la vernice rossa su un lato della fiancata. Il nome è mezzo colato per via dello smalto utilizzato, che va bene per le barche in legno e non per quelle in vetroresina. Ma il nome è visibile a poppa, dove sopra la scritta sbiadita del vecchio nome, ha scritto in modo accurato, dandogli almeno tre passate, quello nuovo.
Rocky 4 è il film preferito da Yasef. La scena che ama di più è quella in cui si vede la neve e Rocky si allena nella Siberia dimenticata da Dio.
“Tu hai mai visto la neve”, gli chiese suo cugino mentre lo guardava verniciare il nome.
“No, mai”, dice Yasef.
“Io sì”.
“Balle”.
“Una volta sono stato in un posto pieno di neve. Mene sono stato al sole per ore, era bellissimo”.
“Con la neve c’è il freddo”.
“E dove l’hai sentita questa cosa?”.
“E’ una cosa che si sa”.
“Come che si sa?”.
“Non farmi perdere la pazienza”.
“Ti assicuro che c’era una quantità di neve da poterci nuotare e ce ne stavamo tutti fuori dalla sua portata per non bagnarci”.
“La neve non ti bagna e si squaglia col sole. Basta anche poco sole per farla scomparire”.
“Non è vero”.
“Eri fatto di Khat?”.
“Non prendo più quella roba”.
“Dì la verità?”.
Nessuno dei due in realtà ha mai visto la neve. Solo il mare e il caldo e tanta pelle nera.
Sotto il cielo color zinco le nuvole sono nascoste nella spessa foschia e la lancia spacca le onde, ormai a ridosso dei due mercantili. Yudy esamina l’orizzonte cercando una risposta alle domande di Yasef. Muovendo la mandibola mastica il Khat e succhia le anfetamine contenute nel bolo, ragiona, toccandosi i baffi neri, su quale mercantile abbordare, mentre i due mostri meccanici si avvicinano.
La portacontainer più grande mai costruita dall’uomo è la Eleonora Maersk. Lunga 397.00 metri e larga 56 metri. Può caricare 1100 container, per un dislocamento (peso dell’acqua spostata dalla parte immersa dello scafo, equivalente al peso della nave) di 94750 tonnellate. Solitamente la spinta del motore è pari a un cavallo per tonnellata. Questa nave rientra nella categoria Post-Panamax.
Anche la Mary K. è una nave Post-Panamax e per passare dall’oceano Atlantico, al Pacifico deve doppiare il continente sudamericano, non come una nave dei tempi passati, ma come una nave moderna che riscrive le rotte e i viaggi e le scoperte. Non esiste più la nave che ha doppiato il capo di buona speranza per la prima volta, esistono milioni di navi che lo doppiano ogni giorno e ogni volta in modo drammatico, è come se fossero la prima goletta al mondo a trovare quel posto sconosciuto e il mondo viene riscritto e riscoperto, con rapidità.
“La Mary K.”, urla Yudy.
“Perché?”, urla Yasef.
“Come ci muoviamo di qui, l’altra nave ci avvista e le navi italiane sparano”.
“Per me è uno sbaglio. Dobbiamo puntare a quella più vicina”, urla Yusuf.
“Non è uno sbaglio. E’ così che bisogna fare”, urla Yudy.
Yusuf odia tutti gli uomini, non fa eccezione con nessuno. Se questi negri fossero gli ultimi uomini rimasti in vita, lui, senza pensarci due volte, ucciderebbe tutti e si gusterebbe la pace di un mondo senza esseri umani. Urla spesso che la guerra gli ha rubato tutto e che non gli è rimasto altro che quel mitra, gli altri uomini, soprattutto su quella lancia, non lo sopportano per questo, lo tengono solo perché nel corpo a corpo sa stendere anche un bianco di un quintale e mezzo. Soprattutto quando è ubriaco.
Glielo hanno visto fare più volte negli assalti passati e si fidano di lui e della sua mole. Le armi non arrivano spesso dallo Yemen e in periodi di scarsità quelle poche che si hanno si vendono per sopravvivere. Una volta hanno abbordato un peschereccio occidentale, solo con tre sciabole. Il cuoco, che era un russo alto più di un metro e novanta ha iniziato a difendersi con una padella. Yusuf non si è fatto intimidire e con una destrezza naturale lo ha mandato al tappeto e poi lo ha colpito con la stessa padella finchè il cuoco non è diventato cieco.
A un miglio dalla nave, i cinque si srotolano sulle facce dei passamontagna di lana e iniziano a sudare come animali stanchi. Si mettono in parallelo e si portano sulla poppa del mercantile. Le onde che produce li sbatte come uccelli morti dalla testa nera, che si piegano e si rialzano negli ultimi spasimi mortali.
Tolgono la sicura alle armi. E’ il momento più critico, se c’è a bordo qualche battitore non c’è molta via di fuga, lui in alto e loro in basso.
Yasif mette la lancia nella scia delle eliche e lo scafo di Rocky 4 si calma come un cavallo domato. Il mercantile è stupendo e a pieno carico. La chiglia da quell’angolatura sembra un grande calice rosso che poggia sul pezzo terminale del timone. L’acqua gorgoglia di energia e si monta come panna. Il ponte di comando è bianco, pitturato di fresco, e ha nel mezzo il nome della nave scritto in nero e bordato di oro. Le tante scale gli sono appiccicate come tante ghiotte decorazioni.
La Mary K. ha la sovrastruttura, l’isola in cui si trova la plancia e il ponte di comando, a poppa. Sorge come un piccolo palazzo nel mare dei container. Il fumo che viene fuori dalle grate e dai due comignoli si disperde in alto, come un’altra scia, dopo quella lasciata nel mare, che si confonde con la vernice bianca della sovrastruttura, come se fossero fatti del medesimo materiale.
La lancia supera due grandi onde e si porta ancora una volta sul fianco del mercantile. Gli uomini tengono le armi puntate sulla murata e sui ponti di coperta e vedono i container riposare sulla tolda, uno sopra l’altro, tanti colori, ognuno con il cuore ripieno di un tesoro.
Testone fa ruotare il rampino, la lancia è in parallelo, il motore al minimo. Nessuno dal ponte della nave si oppone, nessuno spara.
“C’è qualcosa che non va”, urla Yusuf.
“Tu stai zitto che ci porti male”, urla il capo.
Sotto la murata di poppa si vedono le reali misure come se fino a quel momento tutto fosse stata un’allucinazione. La lancia è una conchiglia coperta di sporcizia umana, davvero piccola, che si muove a scatti sull’infinita fiancata di metallo del mercantile, urtando con la prua a cui sono stati legati sei copertoni usurati di camion per ammortizzare il colpo.
Testone si mette all’opera appena suo cugino dà il comando. Vedono la corda scorre e distendersi lungo tutta la murata della nave. Il Rampino scavalca il parapetto e la corda ricade di qualche metro, poi si blocca come se gli fosse stato ordinato. In due la tirano assicurandosi che il rampino si sia incastrato su uno dei parapetti del ponte o in qualche ansa metallica. La lancia si avvicina bruscamente allo scafo del mercantile e lo urta e i due che stanno a poppa finiscono seduti.
La corda è piena di nodi. Testone si mette il kalashnikov dietro le spalle e inizia la salita. Hassan rimane con il lancia siluri in mano, sarà l’ultimo a salire. Dietro Testone sale Yudy, poi Yusuf e in fine Yasef assicurandosi che la cima, incastrata col rampino e legata a Rocky 4, tenga la presa.
La corda è tesa come uno spiedo lurido e gli uomini ci si arrampicano come tanti bocconcini di carne bruciata.
Testone si affaccia dalla murata e fa segno di salire. Hassan sale.

Sulla passerella di poppa di solito c’è sempre un uomo che fuma una sigaretta e che si prende i suo dieci minuti di riposo guardando il mare. Molto spesso è lui che per primo avvista i pirati, come una vecchia sentinella sopra al ponte di vedetta. Altre volte ci sono dei liberi battitori.
Il più importante gruppo di liberi battitori italiano è la Security consulting group. Qualcuno li chiama security advisor o se volete mercenari. Vengono assoldati dagli armatori per tenere sotto controllo il prezioso carico della nave. Per lo più sono ex militari che continuano il loro lavoro fuori dall’esercito e con retribuzioni molto superiori. La Mary K. ne ha conosciuto qualcuno. Erano tre persone israeliane che l’hanno tenuta sotto scorta per sei mesi.
Anche la nave da crociera Msc Melody, assaltata dai pirati nella primavera del 2009, è stata protetta da liberi battitori israeliani. In questo ramo, sono i migliori. Per la difesa delle navi usano storditori acustici, proiettili veri e proiettili di gomma, elettrificazione delle murate di poppa e di prua. Yudy sa che le navi italiane hanno risolto il problema della pirateria, mentre le altre ancora no e così per tutti loro, le altre navi, rappresentano la speranza più grande, cioè che a bordo ci sia un bianco paffuto e profumato per cui chiedere un riscatto, e se non c’è che la nave sia piena di oro e metalli preziosi e che il profumo si sparga per tutto l’oceano indiano.
C’è un forte odore di nafta e i pilastri sono lucidi, senza gravi segni di usura. I negri si muovono maldestri come se stentano a capire quello che hanno davanti agli occhi. Brilla il corridoio del primo ponte che si perde nell’oscurità e brillano i centino tubi che lo rivestono, come se fossero l’inizio di una miniera piena d’oro.
Yusuf sente che qualcosa andrà storto e capisce che la nave è nuova. Non vuole in nessun modo essere preso alla sprovvista e pensa solo a questo, gli altri anche ci pensano, ma meno. Il proiettile in corpo gli acuisce le sensazioni e le paranoie. Però una cosa li accomuna, un pensiero che scorre in sottofondo ai cinque negri: di solito ci gettano contro di tutto pur di mandarci al creatore, qui ci mancava poco che ci invitavano a salire e a derubarli.
Yassif tira fuori un taccuino su cui sono annotate la via più breve per arrivare sulla tolda e da lì al ponte di comando e in plancia.
“Perché non c’è nessuno?”, dice Yusuf.
“Ti hanno già sentito e stanno andando a prendere le armi”, dice il Yasef.
Yudy prende il taccuino in mano e oserva la mappa. L’ha disegnata lui, non il capo. Ha pagato un personaggio poco chiaro che vive a Eyl, lui ha dei contatti in Europa. Yudy ha dovuto sborsare un bella cifra per averli e probabilmente sono anche sbagliati, ma non importa, tengono alto il morale della ciurma.
“Dividiamoci”, dice Yudy.
“D’accordo dividiamoci”, dice Yasef.
“Come dividiamoci?”, dice Yusuf.
“Hai qualche altra soluzione?”, dice il capo.
“Certo che ne ho un’altra, rimaniamo uniti e saliamo in plancia”, dice Yusuf.
“No, voi tre battete i ponti e noi saliamo in plancia”, dice il capo.
“Non possiamo fare altro, te ne rendi conto da solo”, dice Testone.
Yusuf guarda il suo largo cranio. I muscoli ammassati in modo innaturale sopra la fronte e sui lobi laterali formano tre protuberanze che danno la nausea.
“Andate dritti per il ponte due, non state a perdere tempo con i container per ora”, dice il capo.
“Se trovate qualcosa raggiungeteci”, dice Yudy.
Yudy andrà con Yasef, mentre suo cugino Testone dall’altra con Hassan e Yusuf. Sono sicuri che troveranno molta roba, tanta che non gli basterà rivenderla ai quindici piazzisti che hanno a Eyl.
“Chi trova per primo un bianco, raggiunge gli altri”, dice Yasef.
Yusuf guarda Yudy che ha gli occhi pieni di capillari rotti e le pupille dilatate nonostante sia sotto il sole. La guancia gonfia si muove in piccoli movimenti, le labbra succhiano e qualcosa di occulto, un alone intorno alla figura, suggerisce che è in pieno godimento. Lo guarda bene prima che sparisca nel boccaporto col capo.
La cosa migliore che può succedere è trovare un bianco che da solo sta facendo qualche riparazione in uno dei ponti. Con in mano un bianco dalla plancia di comando il capitano delle nave ti sta a sentire e a nessuno dell’equipaggio vengono grilli per la testa. Il capitano asseconda i tuoi ordini e nel giro di pochi minuti sei il nuovo capo del bastimento. Ma se i corridoi sono vuoti, se non ci sono rumori sospetti nell’aria, vuol dire che la faccenda è complicata.
I tre si inoltrano nel mercantile, tra il ponte sovracoperta e il ponte due, un corridoio lungo e coperto di cavi e tubi che mandano strani riflessi. Sul pavimento in lamiera c’è una rete metallica che nasconde un canale di scolo e oltre al rumore delle vibrazioni, si sente l’acqua scendere, un’eco profondo come se il mercantile stesso bevendo.
Non si può pensare all’ingegneria a cui si è abituati a terra, perché non c’è niente di terreno. Con questo non voglio dire che non sono costruzioni umane, ma che le portacontainer sono costruzioni mobili, che non sono state create per rimanere ferme. Come dei nuovi animali marini non addomesticati migrano ogni giorno, cercando le rotte dell’abbondanza. Hanno la testa, il corpo, e delle pinne imponenti. Gli altri mammiferi li riconoscono come tali e li seguono come se fossero dei capo branco.
Lo spostamento dei delfini dalla costa tirrenica italiana alla Sardegna avviene per lo più sulla rotta dei traghetti di linea. I mammiferi non hanno più rotte autonome e seguono quelle tracciate dalle chiglie della Tirrenia ferry. Il fenomeno avviene per un motivo sostanziale: dietro la scia delle eliche i mammiferi hanno il mare spianato e quasi nessun possibilità di sbagliare rotta.
Anche i corridoi lunghi e illuminati da centinaia di luci sembrano gli interni di un corpo vivo. Si ha la sensazione di essere impotenti di fronte a una tale portata, malgrado sia stata creata dall’uomo e Yusuf prova questo camminando. Si guarda le spalle, come un uomo con due teste.
Il corridoio è buio, ogni dieci metri c’è una lampadina accesa avvitata in una gabbia metallica. Attraverso le sbarre del soffitto, proprio vicino agli angoli, si vedono le lamiere inferiori dei container riposare come dopo aver fatto un grande pasto. Testone li guarda e sa che se suo cugino è assente, deve essere lui a guidare verso quel tesoro gli uomini. Li guarda bene e apprezza il riflesso del cielo sulle lamiere non verniciate.
“Questa nave è piana di roba”, dice Hassan.
“Perché diavolo non incontriamo nessuno? Me lo sai spiegare?”, dice Yusuf.
“Staranno tutti dormendo”, dice Testone.
Fuori si sente il vento fischiare lungo le murate. I tre negri si inoltrano, i loro capelli ossuti e ispidi, da sotto il passamontagna, mandano riflessi azzurrognoli nella semioscurità. Camminano con rapidità lungo il ponte. Testone è l’unico a non avere il mitra e come arma tiene in mano una sciabola affilata di fresco da un cattivo fabbro, tanto che si vedono degli strani intagli lungo la lama.
“Tu non puoi rivolgerti così a mio cugino o ti impiccherà”, dice Testone.
“Non scocciarmi”, dice Yusuf.
“Non puoi parlare così nemmeno a me”, dice Testone.
“Ringrazia Dio che hai tuo cugino, altrimenti a questo punto saresti chissà dove”.
“Qui c’è una passerella”, dice Hassan.
“Scendiamo di un ponte”, dice Yusuf.
“Che cosa ne sai che dobbiamo scendere?”, dice Testone.
“Non c’è un cavolo su questo ponte, di solito le cambuse sono in basso”, dice Yusuf.
“Non sai un cavolo. Di solito le cambuse e gli alloggi sono sì in basso, ma verso poppa”.
Yusuf si guarda indietro e vede la luce della poppa lontana, saranno circa sessanta metri.
“E allora che ci siamo venuti a fare così avanti?”, dice Yusuf.
“Per trovare qualche bianco”.
“I bianchi sono nelle cambuse a poppa”.
Scendono con una scaletta a chiocciola e trovano un altro corridoio. Il ponte tre. Ci sono tanti tubi color argento e una luce gialla che dà fastidio agli occhi. C’è del vapore che fuoriesce e crea delle ombre. A terra c’è un’altra griglia che nasconde un canale di scolo e si sente l’acqua scivolare come se il mercantile continuasse a bere.
“Qui sotto non c’è nessuno”, dice Yusuf.
“Ora ne troviamo quanti ne vuoi”, dice Hassan.
“Sì, ma se non troviamo nessuno?”, dice Yusuf.
“Troviamo per forza qualcuno, altrimenti questa nave chi la gestisce”, dice Testone.
“Tu hai paura che sia un’imboscata”, dice Hassan.
Yusuf rimane in silenzio col mitra spianato in attesa che le sue paure vengano confermate.
Quando i tubi finiscono, il corridoio è largo un metro e ci sono centinaia di pannelli in acciaio avvitati tra loro come se fosse un impalcatura ossea, uno scheletro. Ci sono valvole dipinte in rosso avvitate sopra grossi tubi che passano ricurvi sopra i boccaporti. Il pavimento è ricoperto di linoleum. I tre li superano tenendo i due kalashnikov a altezza busto, con la culatta piantata sui bicipiti smilzi.
Yusuf non farebbe ostaggi, ruberebbe il carico e la nave se fosse possibile e volerebbe via. Ha con sé tutto quello che gli occorre per essere un buon mercante, tranne una barca, una tutta sua con cui fare degli assalti o magari una flotta con cui abbordare più navi. Il Testone invece ha suo cugino che lo tiene a galla e che prima o poi gli regalerà una di quelle lance e un piccolo esercito con cui fare assalti in autonomia.
Testone si ferma e si spiaccica su una lamiera. Ha visto qualcosa.
“C’è un boccaporto che da su una sala”, dice Testone.
“Che dici, te lo sei sognato”, gli fa Yusuf.
“Non è vero, è lì”.
“Io non vedo niente”.
“Io lo vedo”, dice Hassan.
Sono dieci metri, non di più, ma non si vede bene. La luce gialla che piove dal neon uniforma ogni disuguaglianza. Però c’è un boccaporto e dà su un’altra sala, forse un corridoio.
“Allora tu e Hassan andate avanti, io vi copro le spalle”, dice Testone.
Per Hassan è una buona idea, è sicuro che coglieranno qualche marinaio lasciato solo. Ma Yusuf ha parecchio da ridire.
“Dove sono finiti tutti. Non c’è nessuno. E se sono in quattro armati e ci aspettano dietro quella porta?”.
“Non c’è nessuno li dietro, ora se vuoi entrare, combiniamo qualcosa”.
“È un’imboscata”, dice Yusuf.
Ogni cuccetta è vuota e in ordine, come se non ci avesse dormito nessuno. I pochi libri sono in fila su una mensola di metallo a due metri dal pavimento. Sopra i comodini ci sono dei televisori portatili e qualche pacchetto di sigarette. Le uniche facce che si vedono sono quelle attaccate alle pareti e sono facce di persone dell’est-europa o filippini . Ci sono mogli con figli in braccio e donne senza figli, puttane nude e foto di aerei. Tutto sommato dalle foto si nota che l’equipaggio è composto da marinai misti.
L’international Mariners Mengemant Assocition of Japan ha dichiarato che sui mercantili giapponesi sono utilizzati cinquanta mila marinai filippini che vengono pagati dai mille ai mille e duecento dollari al mese, con un tempo di permanenza in mare che è di dieci mesi.
Uno dei colossi nipponici, la Mol, ha dichiarato che entro la fine del 2009 assumerà 17,800 marinai filippini. Ma non è solo una stranezza del Giappone, se si pensa su scala mondiale, si deve considerare che un terzo dei marinai che lavorano sui mercantili sono filippini, così come più della metà degli ostaggi fatti dai pirati nel 2008.
Le agenzie di reclutamento migliori sono quelle che si trovano a Rizal Park, nel cuore di Manila. Ma anche quelle del porto di Costanza sul mar nero non hanno niente da invidiargli. Se non fosse che i marinai del ex blocco dell’unione sovietica, sono trattati come gli schiavi del ventunesimo secolo. Il regime comunista ha garantito un’educazione di base a tutti i suoi cittadini, di fatto i marittimi romeni hanno competenze tecniche discrete, ma data la povertà del loro paese, vengono pagati meno del minimo sindacale, cioè meno di cinquecento euro al mese stabiliti dall’Internationl Shpiping Federetaion. Non hanno sindacati marittimi forti che li difendono come i marinai filippini e non sono tutelati dal loro governo. Non hanno nessuno e molto spesso, le stime dicono un imbarco su due, sono costretti a pagare per avere il lavoro. Con quattrocento euro si può venire imbarcati su una portacontainer di media grandezza che fa il giro del mondo. Non servono operai specializzati, qualche rudimento di base e un’ottima condizione fisica sono quanto di meglio si può avere per essere assunti nei mercantili.
Una volta un lontano cugino di Yusuf, dopo aver avuto l’undicesimo figlio e dopo averne persi quattro, gli disse che se fai tanti figli e sei povero non ha molta importanza quanti ne muoiono, l’importante è farne ancora di più così hai la certezza che il bilancio con la morte sarà attivo. Certo, aveva aggiunto, essere uno di quei tanti figli significa diventare anonimo tra tanti fratelli e se dovesse succederti qualcosa nel mezzo di un oceano, se ti capitasse di morire, saresti la persona più sola su questa terra, la più abbandonata e anche la più sacrificabile, perché nata in un posto dove la lotta contro la morte è così accanita che non si piangono troppe lacrime se qualcuno viene a mancare. Ma d’altro canto che altre possibilità abbiamo…
Yusuf non ricorda questa storia, perché sa che lo riguarda ogni volta che prova a ricordare i nomi dei suoi fratelli.
“Non avevi detto che le cuccette stanno a poppa?”, dice Yusuf guardando i letti in ordine.
“Infatti, credo che siamo a poppa”, dice Testone.
“Allora dov’è l’equipaggio?”.
Hassan gira tra le brande con aria assorta. Tocca gli oggetti e inizia sentire anche lui che qualcosa non va.
“Giriamo ancora un po’, poi cerchiamo di salire sulla tolda e aprire qualche container”, dice Hassan.
“Prima un bianco. Poi i container”, dice Testone.
“Che tu sia maledetto”, dice Yusuf.
Tutto sommato la nave ora è una nave fantasma, con un carico che sta facendo litigare i tre uomini, pronti a tutto pur di diventare ricchi. Possiamo arrivare a dire che un equipaggio reale non c’è mai stato e non ha mai dormito in quelle cuccette. I muri sono pieni di grafie diverse e di frasi, graffiate sulla vernice, in lingue diverse. Nessuno dei tre le sa tradurre e forse nemmeno il filippino che dormiva nella cuccetta sei sapeva tradurre quello che incideva il romeno della cuccetta dieci.
Per parlare usavano un English Pidgin, fatto di non più di duecento termini, perfetti per lavorare, ma non per conversare o per lamentarsi. Questa cosa accadeva anche nel diciottesimo secolo alle navi Inglesi che trafficavano con la Guinea. Per evitare che le ciurme ammutinassero, prendevano equipaggi misti,
così che il vincolo della lingua creava tante entità anonime, un mucchio di gente a cui veniva negata la principale arma della ribellione: la capacità di riunirsi.
“Usciamo fuori e cerchiamo il capo”, dice Hassan.
“Dobbiamo trovare qualche bianco o non vedremo un soldo”, dice Testone.
“Usciamo, usciamo”.
Fuori il mare è calmo e piatto come uno strato di domo pack e la Mary K. lo taglia. I container sono lì, a pochi metri, sono usciti dove Yusuf voleva uscire e non sanno cosa fare. Non gli è mai capitata una cosa simile. Di solito ci sono spari a vuoto e urla, si sentono le ossa che si rompono, perché loro non si fidano di nessun uomo e sentono il desiderio, come Yusuf di metterli tutti in ginocchio. Quella pace quasi li terrorizza, così forse doveva apparire l’oceano ai primi naviganti. Un posto innaturale e ordinato che trama nel peggiori dei modi, nel silenzio.
“Apriamo questi container e carichiamo la lancia”, urla Yusuf.
“Non sei tu che comandi”, urla Testone.
“Allora che dobbiamo fare?”.
“Saliamo in plancia da mio cugino e lui saprà cosa fare, anzi a quest’ora avrà trovato qualcosa”.
“Allora perché non ci ha contattati”.
“Ci sarà un motivo tu che dici?”.
“Allora saliamo sopra, così quel drogato di Yudy ci dà un’altra delle sue idee”.
“È mio cugino che comanda non Yudy”.
“Tu non hai capito proprio niente testone. È proprio vero, sai solo usare il rampino”.
“Vuoi che ti faccia un altro buco in pancia?”, urla Testone.
La madre di Yusuf era convinta che sarebbe morto per setticemia, così ha iniziato a piangere accanto al suo letto. Il dottore è venuto da uno dei villaggi nelle vicinanze e lo ha visitato, ha detto che bisognava operarlo, ma che lui non aveva nessuno strumento per farlo. Ha lasciato a Yusuf una scatola con dentro dell’aspirina e gli ha detto di prenderla più volte al giorno, non importava quando.
Con i pianti delle donne e il proiettile infilato dentro le carni, beveva la sua medicina ogni mattina. Qualcuno aveva detto a sua madre che l’acqua del Puntland è la migliore che esista e la più pulita e lei ne portava un secchio pieno il pomeriggio, con una pezza gliela passava sulla ferita che si era infettata e mandava un odore di formaggio. Yusuf non credeva a queste storie, ma con la morte a tenergli la testa sulle sue gambe ossute, non c’era molto da fare.
Si era lasciato fare quegli impacchi, ma la febbre era salita di colpo e Yusuf vedeva quell’uomo sparargli in mezzo a una quantità di macerie. Lui si sentiva solo e aveva freddo e continuava a correre, tra i palazzi distrutti e tanti canali pieni di sangue.
Poi era guarito e da allora si portava quel proiettile nello stomaco, che gli ricordava che era impossibile guarire dalla paranoia dell’agguato.
Yusuf non ascolta le parole del Testone e fa a modo suo. Con la paura di essere colpito, controlla col Kalashnikov puntato in aria, il castello con il ponte di comando. I container sono in fila come degli insetti in letargo che covano alle sue spalle. Non ne vuole aprire uno. Li vuole aprire tutti e succhiare via tutto il loro ripieno, con metodo, con tranquillità, come se fosse una cosa molto importante.
“Che tu sia dannato”, gli urla Testone.
Ma il compagno non avverte la sua voce spazzata via dal costante vento. Yusuf si muove col fucile alzato, con la culatta spinta sulla spalla e la guancia destra poggiata sul ferro della canna. Non teme il mare, non teme le onde, teme solo che possa essere un‘imboscata. Un altro proiettile in corpo. Davanti ai suoi occhi c’è il tesoro chiuso in tante scatole di metallo corrugato che brillano al sole. Sa di non essere concentrato abbastanza e il passamontagna gli fa esplodere la testa come se fosse in un forno di mattoni.