Salvatore “Toi” Bianca: “Io credo che si debba scrivere di ciò che si conosce bene. Io almeno sarei a disagio a scrivere d’altro”

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Ci sono cronisti di provincia con tante storie da raccontare. Non li vedrete mai in televisione disquisire su grandi temi sociali

Ci sono cronisti di provincia con tante storie da raccontare. Non li vedrete mai in televisione disquisire su grandi temi sociali; loro, i cronisti di provincia, sono in strada, tutti i giorni, a cercare, frugare, domandare: tutto per scrivere un “pezzo” decente che qualche distratto lettore di quotidiano degnerà appena di uno sguardo, saltando subito alla pagina degli spettacoli.
I cronisti di provincia lo sanno che non diventeranno mai famosi, eppure il giorno seguente sono ancora in strada .
A volte capita che una di quelle storie che non diventerà mai un pezzo da pubblicare su un giornale importante,  fornisca lo spunto ad un bel romanzo. “Dove finiva via Pitia” (Lombardi Editore) è firmato da Salvatore “Toi” Bianca, un giornalista che conosce bene il mestiere, quello fatto sulla strada, lontano dalle “veline” prestampate e dalle notizie di agenzia. Bianca inizia con un delitto e finisce a parlare di ambiente; Bianca è di Siracusa, territorio che, come gran parte della Sicilia, ha molti spunti da offrire ad un narratore.

Una citazione di Iggy Pop iniziale, una dei Dire Straits alla fine. Ma ci sono altri riferimenti musicali come gli 883: quanto è stata importante questa colonna sonora nel formulare la tua storia?
La musica è parte della mia vita e credo sia un elemento “culturale” unificante per la nostra generazione in Sicilia come in America, in Germania come in Giappone.  Il rilievo mondiale assunto dalla morte di Michael Jackson né è un riscontro eloquente. Mi piaceva, ed ho trovato assolutamente naturale, che la storia di un quarantenne siciliano di fine millennio avesse come colonna sonora non il “marranzano” ma la musica che abbiamo realmente ascoltato e quella con cui ci siamo emozionati davvero.

Si parte da un delitto e si finisce a “glielo hai spiegato che si pensa che il depuratore del più grande polo petrolchimico d’Italia non depurava?”:  insomma, non è il solito romanzo siciliano di coppole e lupare…
Io credo che si debba scrivere di ciò che si conosce bene. Io almeno sarei a disagio a scrivere d’altro. La realtà di Siracusa è stata ed è una realtà complessa e moderna, non riconducibile allo stereotipo di “coppole e lupare”. Il che ovviamente non significa che le lupare, magari nell’aggiornata versione del kalashnikov, non ci siano. Solo si intersecano con altre problematiche. Comunque sì, una storia come quella di via Pitia poteva accadere ovunque, anche se in realtà è accaduta a Siracusa.

Dialoghi serratissimi e vita di redazione sputtanata in tutta la sua mediocrità: una vita dura, lontana dai riflettori e dai giornali “che contano”. I giovani che vogliono fare i giornalisti cosa penseranno dopo aver letto il tuo libro?
Mediocrità? Non lo so, non credo. Sarà che adesso faccio un altro mestiere e non respiro più l’aria delle redazioni di provincia, ma io ricordo quella vita con grande nostalgia e, per la mia esperienza, sono convinto di mediocrità ce n’è tanta, credo di più, anche altrove. Non so cosa penserà un ragazzo del mestiere del cronista leggendo Via Pitia. A me sembra un mestiere bellissimo.

Tu scrivi: “Sono stato 8 anni con una donna, ora posso stare altri 8 senza”. Ne vogliamo parlare?
Ma sì, parliamone. Tony Rossitto, il protagonista del romanzo, è uno ferito nel cuore. La moglie lo ha lasciato non sopportando più quella vita da “moglie di giornalista”, capace di stroncare anche la più appassionata delle storie d’amore. Lui le da ragione ma sa anche che non riuscirebbe a rinunciare al suo lavoro perché non sa fare altro, perché non sarebbe più lui. E così crede che dopo Anna la sua vita sentimentale possa essere messa in cantina e dimenticata. Ma è una fesseria, come la storia dimostra…

Mi vorrei soffermare ancora su alcune frasi del romanzo:  la prima è “I crimini urbanistici, quelli grandi, avvengono lentamente ed hanno troppi colpevoli. Nessuno pagherà mai per l’odorosa Grottasanta, oggi grigia di condomini annoiati e privi di fantasia. Nessuno pagherà, ed io non ho nemmeno una foto sfocata per ricordare dove finiva via Pitia”. Denuncia o semplice nostalgia?
Molti hanno letto in questo ed altri passaggi del libro una sorta di crepuscolare nostalgia per la “vecchia Siracusa”, una sorta di sindrome dell’emigrante, quale di fatto sono avendo lasciato la Sicilia 8 anni fa. Io devo dire che quelle cose le ho scritte mentre vivevo a Siracusa e non avevo idea che di lì a poco me ne sarei andato e ho scritto quella parte del romanzo con rabbia, con furore. Perché, al di là dello spunto narrativo, della strada che non ricordo dove finiva, c’è l’incazzatura per la devastazione estetica di una città che poteva essere davvero bellissima e per la sostanziale impunità per coloro i quali hanno consentito che ciò accadesse. Ma quello che è accaduto a Siracusa è successo praticamente nelle periferie di tutte le città italiane.

L’altra frase:  “è  la mia vita che non trova più le polaroid del suo passato”. Ti si potrebbe contestare che la Siracusa che conoscevi non esiste più ma l’odierna è migliore…
La Siracusa di oggi è per molti aspetti migliore di quella della fine degli anni ‘60, quando via Pitia era una trazzera delimitata da muri a secco. Si stanno cercando di mitigare alcune schifezze dei decenni passati, si sta cercando di costruire il nuovo in maniera esteticamente decente. Restano i ricordi personali perduti che non rappresentano di per sé un dato oggettivo o un giudizio politico esaustivo. Nel caso specifico sono i miei ricordi calati dentro un romanzo. Ognuno può leggerci quello che vuole.

Passiamo all’editore che è siracusano come te: una scelta dettata da motivi campanilistici oppure…?
Ho finito di scrivere “via Pitia” cinque  anni fa. E’ il mio primo romanzo e volevo capire quanto valeva. L’ho mandato “al buio” ad una serie di concorsi letterari per inediti trovati su internet. Tre volte sono stato premiato fra i finalisti, molte altre volte non ho avuto alcun riscontro. L’ho mandato ad alcune case editrici con una lettera di presentazione di un amico che sembrava ben introdotto. Ho ricevuto alcune cortesi lettere di rifiuto, qualcun altro non mi ha manco risposto. Alla fine, una mattina dell’anno scorso, quando ormai avevo perso le speranze, ho incontrato Arnaldo Lombardi, che conoscevo da tempo. Mi ha chiesto del libro perché una persona che aveva letto il manoscritto gliene aveva parlato bene. E così, molto casualmente, è cominciata l’avventura.

Infine, permettimi una intromissione personale: nel 2006 ho pubblicato “Venti righe in cronaca” e le assonanze con “Dove finisce via Pitia” sono incredibili: viene da pensare che la vita del cronista è assai scontata nelle sue frustrazioni e dinamiche di rapporti con poliziotti, colleghi e magistrati: secondo te c’è ancora qualcuno che crede in questo mestiere?
Secondo me sì, altrimenti non si spiegherebbero le centinaia di migliaia di ragazzi che si iscrivono alle facoltà di Scienze della comunicazione e similari. Poi i pochissimi che riusciranno a fare i giornalisti passeranno attraverso la novena del disincanto e ci saranno come sempre, ed in tutti i mestieri, quelli puliti, idealisti, appassionati e i cinici, i corrotti, gli stronzi.

In chiusura, ti faccio una proposta: visto che stile e tematiche dei due romanzi coincidono parecchio, il prossimo libro lo scriviamo a quattro mani?
Visto che si tratta di noi, non sarebbe meglio dire “a quattro piedi”?

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