Ricordo che nel millenovecento novantuno era uscito Dangerous. Ne aveva una copia mia cugina, una cassetta edizione speciale che metteva nello stereo ogni fine settimana quando la domenica andavamo a pranzo da lei. Sulla copertina c’erano gli occhi di Michael Jackson contornati da una composizione barocca, almeno così me lo ricordo, fatta di elefanti, statue d’oro e scimmie. Era un album spaziale, niente che io avessi ascoltato prima era paragonabile.
Mi faceva venire in mente le Adidas blu che portava David Starsky nella serie Starsky e Hutch, i muscoli di Josh Brolin nel film I Goonies, la bellissima ragazza bionda che Ethan Hawke cerca di conquistare nel film Explorer e le avventure nei boschi di Stand by Me.
Io sono cresciuto in provincia e certe storie alimentavano ogni giorno la nostra testa da ragazzi, storie di avventura ambientate in paesini americani del Mid-West, dove c’era la possibilità che avvenisse qualcosa di straordinario tipo in E.T. Noi altri vivevamo su quel modello e ci credevamo a tal punto che se non ce le forniva la vita certe esperienze, e la vita non ce ne ha mai fornita una, eravamo in grado di ricrearle in laboratorio con le nostre mani e di vivercele quasi come se fossero state vere. Così quella volta in cui Giulio Camertoni disse che aveva visto un pazzo nei boschi, l’abbiamo seguito senza starci troppo a pensare, perché per noi rappresentava l’unica alternativa alla tristezza della vita di provincia.
Era una caldissima estate e non avevamo con noi troppe cose, per non rischiare di rendere il viaggio pesante. Lo stretto indispensabile, diceva Andrea, per muoversi come si deve nei boschi. La frase la ripeteva sempre suo padre che era il gestore della ferramenta del paese. Quando entravi nel suo negozio, qualunque cosa comprassi, lui quando batteva il conto ti diceva: “Giusto lo stretto indispensabile”.
Andrea era il cugino di Giulio e tra i due non correva buon sangue, questo perché Giulio sfotteva spesso il cugino per quella malformazione che aveva fin dalla nascita. Ma non era solo per quello, c’era di mezzo anche un storia di eredità non risolte e le due famiglie si odiavano a morte, sebbene poi fossero la stessa famiglia. La grande villa che gli aveva lasciato il nonno l’avevano divisa con un ampio muro, alto due metri che era visibile dalla statale che facevamo per andare da loro.
Nello zaino quel pomeriggio avevo messo proprio lo stretto indispensabile: una corda lunga sei metri con cui mio padre si arrampicava sul pino ogni primavera per tirare giù quei bruchi che dalle mie parti si chiamano Processionarie. Una scatola di merendine Tegolino e la mia pistola Falcon ad aria compressa.
Giulio aveva confessato la storia sul matto alla fine di una partita a pallone in cui le avevamo prese di santa ragione da alcuni bastardi che vivevano dall’altra parte del paese. Negli spogliatoi c’era una sensazione di disperazione quel pomeriggio e ce ne stavamo tutti a mugolare qualche diavolo per come era finita. Fu in quel momento che uscendo dalla doccia Giulio disse:
“Ero con Fabio, al fosso, e stavamo pescando lungo il ruscello. Abbiamo visto il pazzo venire su dai boschi con in mano il fucile. Mio padre dice che va a caccia, ma io non ci credo. Così ci siamo nascosti. Sentivamo le sue chiavi sbattergli nella tasca e il rumore avvinarsi sempre di più, fino a quando non si è fermato. Ho messo la testa tra alcune foglie e l’abbiamo visto in faccia, era sporco di sangue”.
“Come sporco di sangue?”, aveva detto Francesco, che era il ragazzo più buono di noi.
“Aveva la faccia piena di sangue. Secondo me aveva appena ammazzato qualcuno”.
“Dovremmo andare a vedere”, disse Andrea.
“Non ci possono andare i bambini handicappati come te. Se quello ammazza che facciamo con uno come te?”.
“Sei uno stronzo”, gli rispondeva Andrea.
“Non ci possono venire tutti. Bisogna avere abbastanza coraggio, non è una cosa facile”.
Quella era la frase che invece ripeteva spesso Giulio: non è una cosa facile. Lo amavamo e lo ritenevamo il nostro capo proprio per quelle sfide che proponeva, così avventurose e che non ci facevano passare il pomeriggio davanti alla televisione a guardare qualche film per l’ennesima volta. Questa è una cosa che non si dice mai sui ragazzi cresciuti in provincia. Conoscono a memoria, come se la loro infanzia fosse stato un mondo molto chiuso, parecchi film. Per dire I Goonies, io sono ancora in grado di dirvi a menadito la battute iniziali:
“Eh muoviti”.
“Jacky sta arrivando”.
“Francis è chiuso apri”.
“Ecco un momento”.
“Lascia la maniglia”.
“Apri questa porta”.
“Ma se non lasci la maniglia non posso levare la sicura”.
So che il film inizia poco prima, ma con mia sorella abbiamo registrato parecchi film con l’inizio tagliato. Allora non eravamo troppo in gamba a usare il videoregistratore e molto spesso ci accorgevamo all’ultimo che c’era un bel film, così dovevamo rimediare qualche vecchia videocassetta, riavvolgere il nastro e registrarci sopra. Ma finivamo sempre le operazioni quando il film era iniziato, così i Ghostbusters per me cominciano con loro che entrano nella biblioteca, non prima.
Quando Giulio finì di parlare eravamo persi in quel limbo che solo una forte emozione può dare. Organizzammo la spedizione a vedere il pazzo in pochi minuti. Dovevamo tornare a casa e prendere tutto quello che ci poteva tornare utile. Il viaggio non sarebbe stato lungo, circa venti minuti a piedi dal campo di ulivi di Giulio. Ci saremmo visti lì giù, dove c’era un piccolo torrente, da cui le fattorie circostanti prendevano l’acqua per l’irrigazione.
Casa mia era distante quindici minuti dal campo di pallone e sette da casa di Giulio. Durante tutto l’anno, io passavo i tardi pomeriggi a casa sua a giocare al Commodore 64. Lo consideravo il mio migliore amico, anche se poi col tempo ho scoperto che la cosa non era ricambiata e fu quasi come scoprire che mio padre non era poi tutto quello che avevo pensato.
Comunque durante l’inverno facevo la strada quasi ogni sera tutta di corsa per paura di incontrare il pazzo che abitava vicino la casa di Giulio. Non ho mai saputo chi fosse. Non abita più lì. Mio padre dice che è morto tanti anni fa, quando io non ero ancora nato, ma io me lo ricordo e mio padre da tempo non ci prende più tanto con la memoria. Era un omone alto più di un metro e ottanta, con lo stomaco in fuori, calvo sulla fronte e con gli occhi in fuori come se avesse avuto una strana malattia oculare. Era una cosa da farsela sotto trovarselo davanti di notte, in piena campagna, col sole tramontato.
Quel pomeriggio impiegai dieci minuti a tornare a casa e quattro per arrivare nel campo di Giulio. Un vero record considerando che c’erano tre strade abbastanza lunghe e due campi che si estendevano per un ettaro.
Il torrente era in secca, perché non pioveva da un bel po’ di tempo, anche se i bordi del canale erano umidi e sul fondo scorreva un rigagnolo minimo in cui sguazzavano tanti girini.
Il secondo che arrivò fu Francesco che in quel periodo si era fissato con una canzone di Michael Jackson intitolata Bad. Non sapeva l’inglese e neanche una parola della canzone, ma non riusciva a fare a meno di imitare la Moonwalk. La madre gli aveva comprato un paio di mocassini college neri, che lui indossava con i calzini bianchi per somigliare a un ballerino di black dance. Una delle cose più buffe che si siano mai viste in giro, tra l’altro dovete immaginarlo con un paio di pantaloncini corti multi colorati come andava di moda nei primi anni novanta.
Il terzo fu Andrea. Era ancora furibondo per come si era comportato Giulio e come prima cosa iniziò prendere in giro Francesco che nel fango del canale provava a imitare la Moonwalk.
“Guarda quanto sei brutto”, gli diceva Andrea.
“Zitto storpio”, aveva gridato Giulio scendendo di corsa la discesa.
Aveva a tracolla uno di quegli zaini americani che aveva riportato dal suo viaggio a Orlando, in Florida. Suo padre era medico e una volta l’anno, grazie ai convegni medici, portava la famiglia in vacanza in qualche posto lontano.
Appena arrivato tirò fuori dallo zaino la sua Falcon e una di quelle torce Mag Lite, quelle che hanno in dotazione i poliziotti americani, con il corpo lungo anche quaranta centimetri. Per quanto ci sforzassimo di rimanere lucidi, di non farci mettere i piedi in testa, era troppo, lui sarebbe sempre stato il nostro capo, almeno tanto quanto gli Stati uniti lo erano per il mio paese e la cosa avveniva in un modo così naturale e così bello che stento a capirne il significato.
“Seguiamo il canale fino allo stagno. Vi porto dove ero a pesca con Fabio”, disse Giulio.
“Sicuro che non è in casa?”, chiese Francesco.
“Le serranda sono tirate giù, non c’è nessuno”.
Durante il tragitto tirammo fuori una ventina di barzellette e le mie erano quelle che facevano più ridere Giulio. A ripensarci mi convinco sempre di più che i bambini sono le persone più cattive che esistano, le meno portate a fare qualunque considerazione altruistica. Mi ricordo che non appena Giulio scoppiava a ridere mi sentivo forte come un Leone, intoccabile. E la stessa sensazione ce l’avevo quando prendeva in giro il cugino per quella malformazione.
Seguimmo il canale per circa tre chilometri e poi entrammo nel bosco. La provincia a nord di Roma è molto verde e piena di boschi di querce e le case fuori dai paesi sono abbastanza rade. Durante quel tragitto passammo vicino a tre fattorie e a due ville. Le recinzioni erano abbattute e i paletti di sostegno o marci o spaccati. Incontrammo un solo contadino. Era molto vecchio e si reggeva al bastone di una vanga, non ci disse niente, ricordo che ci guardava e rideva, tutto qui.
Non credo che la cultura anni ottanta abbia fatto parecchi danni, almeno non di più di quanti ne ha fatti la cultura anni novanta e poi quella del dopo undici settembre. Però noi che siamo nati nei primi anni ottanta o fine settanta, siamo stati educati con il gusto del meraviglioso. Come se la terra fosse non questo mondo, ma un mondo parallelo in cui potevano avvenire storie straordinarie e potentissime. Ricordo la prima volta che vedemmo War Games e che ci innamorammo dell’attrice Alexandra Sheedy, i sei mesi successivi li passammo a costruire strani oggetti nel garage di Andrea, convinti che potevamo entrare nel database del Pentagono. O quando Scuola di mostri ci ha spinti a credere che un nostro compagno di classe fosse un lupo mannaro, e che sua madre venerava il diavolo.
Ora non so come sia iniziato tutto questo, ma so qual è l’immagine più simbolica di quel periodo che per me rappresenta la mia infanzia, così come per questi altri tre ragazzi con cui ho condiviso la mia vita fino al liceo. Sicuramente Francesco che canta Bad di Michael Jackson con i mocassini college infangati e gli shorts multicolore. Anche se lo prendevamo in giro e dovete credermi era la cosa più ridicola che avessimo visto lui continuava.
Giulio ha sempre saputo bene l’inglese perché la madre faceva l’insegnate di Inglese. Ogni estate lui passava almeno un mese in un college vicino Londra, quindi non gli era difficile smontare Francesco quando cantava col suo inglese rimediato.
“L’inizio dice Your Butti is mine”, disse Giulio.
“E che vuol dire?”, chiese Francesco.
“Credo una cosa del tipo: il tuo bersaglio è il mio”.
“Il tuo bersaglio è il mio”, ripetè Francesco “ma che cavolo vuol dire?”.
Andrea iniziò a ridere di quella frase, soprattutto perché screditava la persona che più odiava su questo pianeta.
“Che ridi storpio”.
“Non mi chiamare storpio”.
“Il tuo bersaglio è il mio”, continuava a dire Francesco ridendo. Le sue scarpe erano dei blocchi di fango e lui continuava a dire quella frase a imitare la Moonwalk.
Questa fu l’unica conversazione su Michel Jackson di quella giornata e qui interrompo il mio racconto. Non credo sia giusto continuarlo in questo modo e su questi termini. Però era importante dire quanto a fondo ci abbia costruiti, formati, tutta una cultura, di cui solo oggi vediamo la fine. Oggi che siamo diventati abbastanza grandi.
Quel giorno siamo andati nel bosco a vivere la nostra ennesima esperienza avventurosa, e oggi ringrazio il cielo di essere nato in provincia, dove i ragazzini sono abbastanza creduloni da fare un piccolo viaggio per cercare il pazzo, vicino di casa di Giulio Camertoni, con la faccia sporca di sangue. So per certo che i ragazzi di città non le fanno certe cose, questo perché hanno dei divertimenti di gran lunga migliori.
Noi mangiavamo Sneakers alla fermata dell’autobus anche per un pomeriggio intero o ci chiudevamo a casa di Andrea a riguardare lo stesso film per almeno tre volte. Francesco, che era il più buono, lo mandavamo a comprare panini all’olio e wurster. Facevamo finta di mangiarci gli hot dog e bevevamo le cocacole dentro le buste di carta, come se fossero delle birre e noi le stavamo bevendo su qualche strada americana, dove è vietato girare col gli alcolici in mano.
Col tempo Michel Jackson è diventato poco più che un nome e per noi non ha significato più niente. Ma nell’estate del ‘91, o forse era ’92, quando uscì Dangerous… Volevo ricordare che c’erano quattro ragazzini che consideravano il mondo in quella maniera, una maniera che poi un po’ per volta gli è costata molto cara.