Simona Vinci è nata a Milano e vive a Bologna. Dopo l’esordio nel 1997 con Dei bambini non si sa niente (Einaudi Stile Libero, tradotto in dodici paesi), ha pubblicato, sempre da Einaudi, In tutti i sensi come l’amore (1999), Come prima delle madri (2003), Brother & sisters (2004), Stanza 411 (2006) e Strada provinciale tre (2007). Nella collana VerdeNero delle Edizioni Ambiente è uscito, nel 2007, Rovina. (dalla quarta di copertina di Nel bianco di Simona Vinci, Rizzoli 2009).
Dopo Strada provinciale tre e Rovina, mi sembra che con questo nuovo libro lei stia proseguendo con coerenza la strada di quella che si potrebbe definire una critica radicale del progresso. Nel bianco è un viaggio paradossale in un luogo insolitamente esotico, l’estremo nord artico (il piccolo villaggio isolato tra le montagne groenlandesi), che parla più a noi e di noi occidentali, del nostro paesaggio, del nostro ambiente e di come l’abbiamo rovinato. In tutto il libro c’è un avvertimento politico che ho letto anche nelle descrizioni del collasso della civiltà vichinga e nella veloce descrizione dell’Islanda. Secondo questa lettura Nel bianco potrebbe essere considerato un libro reazionario (in senso buono, ovviamente)?
Ho passato quattro anni ad occuparmi di cemento e di devastazione del paesaggio, non ne potevo più e al tempo stesso non riuscivo astaccarmi da quei temi. Mi è sembrato che paradossalmente, avrei potuto andare a cercare il rovescio: un luogo tutto bianco, vuoto, dove c’è solo il ghiaccio e non ci sono strade, né villette a schiera né capannoni, ma guardando e raccontando quel vuoto, tutto quello spazio inviolato, lo sapevo benissimo che avrei inevitabilmente continuato a guardare e raccontare il nostro ‘pieno’. Le tematiche ambientaliste sono spesso noiose tanto più, che a troppa gente fa comodo che di certe questioni non si parli. L’Italia è un Paese incredibilmente arretrato, e in un Occidente che comunque per la tutela dell’ambiente (che poi vuol dire tutela degli esseri umani che in quell’ambiente ci vivono) fa molto poco, noi siamo i peggiori di tutti. Ma è solo da questa sensibilità nuova per il territorio che ci ospita – e che va curata, approfondita, stimolata – che si può pensare di ripartire. Ho questa immagine bizzarra del pianeta che a un certo punto si scoccia di noi parassiti e si scuote per scrollarci di dosso e liberarsi di noi come farebbero un cavallo o una mucca con le mosche e le zecche. È questo, che vogliamo? Venir scrollati via e sparire nel nulla? Forse sì.
Al di là del significato politico, c’è ne uno più profondo, sotterraneo e filosofico che attraversa il libro e che non è meno paradossale: il viaggio come fuga dal proprio demone, dal proprio doppio, alla ricerca di una solitudine che diventa formativa e che fa cambiare la prospettiva sulle cose (pag. 174). Ogni viaggio è un ritorno al proprio essere. Ci sono mille riferimenti letterari, ma mi è venuto in mente, soprattutto negli episodi in cui lei cerca l’estremo isolamento e scopre la necessità dell’altro, il finale del film di Sean Penn Into the wild tratto dal libro di Jon Krakauer sull’esperienza ordalica di Christopher Johnson McCandless (morto nel 1992 dopo un inverno di isolamento in Alaska): “la felicità è reale solo quando è condivisa”. La frase è di Tolstoj, in realtà, e forse troppo cattolica, ma non crede che si possa sposare bene alle sue conclusioni?
Non ho ancora una conclusione. E non sono sicura che non si possa essere felici se non si condivide questa felicità. La pienezza dell’esistenza si può percepirla sia da soli che con qualcuno. Però, siamo cittadini del mondo e abitanti dello stesso pianeta: non ho bisogno di un amico del cuore o di un legame di sangue per condividere un momento con qualcuno. Dovremmo tutti imparare ad essere più aperti a chi ci è – anche casualmente, anche per poco tempo – di fianco. Viaggiare, in questo senso aiuta molto, ma non è necessario andare in capo al mondo, può bastare prendere un autobus verso una zona poco conosciuta della nostra città: condividere quel tragitto con altri, osservarli, cercare di entrare in contatto con loro, anche questo è un modo di uscire da sé per scoprire qualcosa di sé. La zona più proficua per imparare qualcosa è quel confine tra se e l’altro, spesso quel confine diventa una barriera. Infrangerla insegna molto.
Gli inuit sono i personaggi non protagonisti che attraversano quasi anonimamente il suo libro. In realtà sembrano incarnare tutta l’emarginazione dell’umanità: sono un popolo completamente sradicato, non solo culturalmente, privo di futuro e senza prospettive, come i nativi americani, come tutti i rom d’Europa e in generale tutte le minoranze emarginate. Condivide questa lettura e che cosa pensa dell’imminente indipendenza della Groenlandia?
Il referendum sull’Indipendenza della Groenlandia si è svolto lo scorso anno e c’è stata una nettissima vittoria dei sì. Temo però che un paese tanto ricco di risorse minerarie e tanto povero di infrastrutture e tra l’altro così scarsamente abitato troverà un ‘nuovo padrone’. L’illusione è certamente quella di guadagnare più soldi e diventare più liberi ma non so se andrà davvero così.
A pagina 63 si legge quasi una dichiarazione di poetica con la definizione della letteratura di “ponte lanciato al di là dell’abisso”. Oltre a essere una formula riuscita e non consolatoria sui motivi della scrittura, esprime la necessità di trasmissione contro l’oblio. Che cos’è l’abisso per Vinci e quali sono le sue ossessioni? Si può dire che alla fine Nel bianco è un libro ottimista?
Ho cercato di aprirmi quanto più possibile all’imprevisto. L’imprevisto dei luoghi, degli esseri umani e delle storie che abitano in quei luoghi. Non so se questo atteggiamento lo si possa definire ‘ottimista’. Certo è che mi pare sempre più l’unico sensato. La scrittura è testimonianza, sguardo empatico capace di raccontare oltre che sé anche l’altro. Perché alla fine, laltro sei tu. La letteratura che si chiude nella sua monade mi interessa sempre meno. Meglio un tentativo imperfetto di dialogo che uno straordinario, inutile monologo.