School Of Essential Ingredients di Erica Bauermeister

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Erica Bauermeister aspetta, in piedi, nel salotto dell’albergo. Alta, slanciata, mentre ci avviciniamo ci chiediamo cosa c’è in lei che calamita lo sguardo: il sorriso caldo e luminoso?

Erica Bauermeister aspetta, in piedi, nel salotto dell’albergo. Alta, slanciata, mentre ci avviciniamo ci chiediamo cosa c’è in lei che calamita lo sguardo: il sorriso caldo e luminoso? O la zazzera di capelli sale e pepe? O forse è l’eleganza naturale dei gesti a infonderle quella malia?
È venuta qui in Italia da Seattle per presentare il suo primo libro: La scuola degli ingredienti segreti: un romanzo dove si intrecciano le storie degli alunni di una scuola serale di cucina, della loro insegnante Lillian e delle sue composizioni culinarie. Storie da cui emana lo stesso calore, la stessa leggerezza, o come si voglia chiamare l’alone che circonda la loro autrice. Ancora sorpresa dal successo avuto dal suo libro in altre lingue, in altri paesi: ogni paese sembra cogliervi qualcosa di diverso.
“Chi poteva immaginarlo?” Ride e si stringe nelle spalle con un sorriso pieno di ironia.
Per il momento la sorpresa d’esordio della sua avventura romana è stata, ci racconta, un’intervista televisiva dove l’intervistatore parlava, parlava e voleva risposte che servissero solo a confermare la sagacia delle sue affermazioni. Domande con risposta incorporata.
“Uhi che battaglia” dice Erica Bauermeister passandosi la mano sulla fronte. “La domanda non arrivava mai. E appena cominciavo a dire qualcosa, mi interrompeva.”
Si preoccupa che il prosieguo del giorno sia tutto così.
Ed invece sarà una piccola giornata meravigliosa, tra visite alla radio ed interviste in albergo in forma di lunghe conversazioni sui divani e corse in taxi nelle strade romane assolate.
Con un tassista che, timidamente, le dice “Signora lei è bellissima, con quei capelli. Le donne sono ossessionate dalle tinture”.
Si incantano in tanti a guardare le sue ciocche bianche nel nero, ad ammirare quel gesto di audacia.
“Belli” dicono le donne, “… però bisognerebbe avere il suo viso, la sua eleganza.”
Ed Erica Bauermeister sorride e si schermisce.
L’italiano lo capisce e, un poco, anche lo parla.
In Italia, a Bergamo, dove si erano trasferiti per il lavoro di suo marito, ha vissuto due anni, dal 97 al 99, e in quei due anni ha imparato moltissimo: sulla cucina, sulla scrittura e su molto altro. Dice con un sorriso pieno di gratitudine. In Italia è nata l’idea del libro.
O meglio l’idea è venuta dopo: tornata a Seattle le mancava il calore del cibo, la celebrazione anche del più semplice pasto. Le mancava la presenza attorno di persone che dedicassero tempo alla preparazione di un piatto e potessero restare per ore sedute attorno ad un tavolo. Per questo, per ritrovare quella sensazione, appena tornata, si è iscritta ad una scuola di cucina. E alla prima lezione, come succede nel libro, le è stato chiesto di ammazzare un granchio.
Mentre era lì, in procinto di compiere quell’atto omicida, ha immaginato un altro personaggio che, come lei, davanti al granchio si sentisse profondamente turbato. Si è guardata intorno. Ha visto gli sconosciuti che la circondavano pronti a svolgere lo stesso atto. Ed ha immaginato le loro storie.
Il corso di cucina è finito lì, ma nella sua mente era nato il romanzo. Erano apparsi i personaggi: una donna anziana che sta perdendo la memoria, un uomo ed una donna sposati da quarant’anni con un tradimento alle spalle, un ingegnere pieno di regole, e tanti altri.
“I due anni a Bergamo sono stati un grande esercizio. Una grande fucina di personaggi. Vivevo in un mondo che non conoscevo, mio marito al lavoro, i miei figli a scuola con un’interprete che li ha affiancati per un anno. Quando non hai nessun elemento a cui afferrarti devi farti tante domande sulle persone. Per capire come vivono, cosa sentono. Ed è anche quello che fai con i tuoi personaggi”

Alla fonte del libro c’è l’Italia e molto altro: la perdita nell’arco di pochi mesi delle tre persone a cui il libro è dedicato. Il padre e due amiche. “Un cerchio avvolge le persone che stanno per morire, entrare in quel cerchio per assisterle è un bellissimo e orribile onore. Che non lascia tempo per la superficialità.”
È stata Karin, una delle sue amiche, malata di tumore, a cui aveva fatto leggere ciò che al momento stava scrivendo, a dirle “Credo che dovresti scrivere qualcosa che ti venga dal cuore”.
Ed è stato allora che Erica è tornata sulle storie degli allievi del corso di cucina. Storie che aveva iniziato a scrivere appena tornata dall’Italia e che poi aveva accantonato senza finirle.
“Ho finito per prima la storia di Tom, la cui moglie muore di tumore. Che strano che avessi iniziato a scriverla quando Karin non era malata. L’ho scritta mettendoci il dolore della perdita di Karin. Terminata quella storia, spontaneamente ho terminato tutte le altre.”

C’è qualcosa di audace, e allo stesso tempo di molto semplice,  che ricorda il fascino dei suoi capelli, nella franchezza, nell’umiltà  con cui accenna, ogni volta che si crea l’occasione, agli ostacoli e alle peripezie della sua carriera letteraria.
Voleva scrivere dai tempi del college e, dai tempi del college, sapeva che se mai avesse scritto, avrebbe parlato delle piccole cose della vita. Quelle a cui si presta poca attenzione, quelle che, però, riempiono la vita. Per anni ha scritto senza pubblicare, c’erano i bambini piccoli e il limite di un’attenzione intermittente. “Ho lavorato alla pubblicazione di ‘500 Great Books by Women’, un saggio sui più bei romanzi scritti da donne. Ho letto tantissimo. Che è sempre la cosa migliore da fare, se vuoi scrivere. Ho scritto tanto e per fortuna non mi hanno mai pubblicato.” Racconta, ridendo, durante le interviste e tra un’intervista ed un’altra, e poi seduta al ristorante, mentre si guarda attorno e ascolta l’elenco delle portate di Armando al Pantheon, e poi le assapora e studia ogni piatto come ascolta ogni domanda, con la sua disponibilità, il suo stupore.
Racconta della sua famiglia: del marito che non legge narrativa, ma che il suo libro alla fine lo ha letto, su consiglio di un parente, ride, e si è appassionato. Racconta dell’entusiasmo dei suoi figli per la pubblicazione. E racconta dei piatti che cucina per ognuno di loro, per i loro giorni di tristezza, di stanchezza. Se osservi qualcuno riesci ad indovinare il piatto che gli piacerà e gli darà conforto. “Biscotti al cioccolato per mio figlio, morbidi e rigonfi il giorno che ha bisogno di conforto, e sottili e crocchianti per me quando ho bisogno di energia. Il ragù per mio marito, per quando torna a casa con quell’espressione sul viso da “giornata nera in ufficio”. I ravioli con salsa di tartufo bianco per mia figlia.” Le sue dita si muovono con delicatezza sulla tovaglia e si riesce ad immaginarlo il conforto dei suoi piatti.

– Per ognuno di noi esiste il piatto speciale – dice, nel libro, il personaggio di Lillian, l’insegnante del corso – il piatto che porterà un ricordo, un’epifania, che cambierà il corso della vita. Perché mangiare vuol dire anche questo: saper ricevere qualcosa dagli altri.
“C’è un po’ di magia nel libro. Un poco di realismo magico, e comunque il realismo magico non funzionerebbe se noi stessi non credessimo che nella magia c’è una quota di verità” – spiega Erica Bauermeister a chi le chiede se davvero il cibo può avere un così grande effetto.
Come una donna ha detto a Lillian da bambina: “Spesso i più grandi doni ci vengono da ciò che ci è mancato nella vita.”
“Volevo che il personaggio di Lillian incarnasse una di quelle figure che a volte capita di incontrare nella vita. Qualcuno che incontri per caso, ti guarda e ti dice esattamente quel che c’è da dire, la frase che ti cambia la vita. A me è successo: ero in un rifugio in montagna, ho visto un amico che non vedevo da tempo, era con sua moglie che non conoscevo. Abbiamo iniziato a parlare e lei d’un tratto mi ha chiesto: “Cosa fai nella vita che ti rende felice?”
Quella frase detta in quel momento, mi ha fatto ripensare a tutta la mia vita. Mi ha fatto tornare a scrivere.
Credo che Lillian riesca a guardare dentro il cuore dei suoi alunni, un po’ come uno scrittore. Per scrivere devo sentire compassione, empatia per un personaggio; se non riesco a guardarlo con gli occhi del cuore, non ne scrivo. Lillian ha una madre che legge sempre. Io leggevo sempre quando i miei bambini erano piccoli ed ho provato ad immaginare cosa volesse dire avere una madre che legge sempre.

“E come definirebbe i suoi personaggi?” Le chiedono
“Sto facendo una ricerca per il mio prossimo libro. Ci sono dentro tante cose, ma si parla anche di profumi. E ho imparato una cosa sui profumi: che sono fatti di tre note. La prima è velocissima, immediata, dura un istante, la seconda dura un po’ più a lungo, e la terza, l’ultima è quella che persiste. Per questo dicono che un profumo bisogna tenerlo sulla pelle per un po’, per sentirlo realmente.
Ecco ci sono personaggi nel libro che scorrono via come la prima nota, altri rimangono un po’ più a lungo. Altri sono una nota bassa, costante: Lillian, Tom, Isabel. Insieme fanno un profumo. Bisogna saperli miscelare bene. Scrittura e cucina richiedono entrambe una grande abilità nel giocare con gli ingredienti, con le emozioni. Entrambe richiedono intuito e posseggono sensualità. Mentre scrivevo passavo costantemente dall’una all’altra, e l’una rafforzava l’altra. Se scrivendo mi trovavo davanti ad un’impasse, cucinare mi aiutava a superarlo. Se ero stanca di cucinare, scrivendo ritrovavo le energie. Dall’una all’altra, ed è stato bellissimo.
Il cibo, la cucina sono meravigliose metafore, stanno ad indicare la possibilità di rallentare, di guardarsi attorno, di vivere la vita in modo più pieno, di sentirne i profumi, gli aromi. E cucinare è un piacere quando non si ha paura del successo, basta ascoltare gli ingredienti, sentirne la voce, le meravigliose conversazioni che intrecciano tra loro.”
E la cucina italiana sembra ispirarla più di altre.
“Sì è vero, sono stata in tanti paesi, ma…” e si guarda attorno. E il suo sguardo è vivo e vigile come quando cammina per strada, o, in taxi, guarda fuori del finestrino, e sembra ricercare i segni, le tracce di un paese che ha amato “C’è in Italia qualcosa che ti entra nel cuore. Mi colpiva in Italia la forza dei legami familiari, la profondità delle radici. Mi piace sentire la forza delle radici. Per questo quando siamo tornati in America era triste tornare, eppure sapevo che era giusto. Occorreva tornare se volevamo ritrovare le nostre radici. In America i rapporti sono molto più fluidi, ma l’importanza delle tradizioni è qualcosa che ci è entrata dentro e abbiamo cercato di trasmetterla ai nostri figli. E credo che ci siamo riusciti”. Si ferma e ride: “Mio figlio si è portato all’università il frullatore che usavo io ai miei tempi. Io lo usavo per fare i ‘Margarita’, lui lo usa per il pesto.”
Seguiamo il suo sguardo. La meraviglia e l’ammirazione con cui si posa attorno. E sembra anche a noi di vedere con occhi diversi ciò che ci circonda. Serve qualcuno che venga da fuori per scrostare la superficie annerita, ossidata.
“In America, anche se negli ultimi tempi le cose sono cambiate, il cibo è considerato come combustibile o come un affare: la maggiore quantità al minor prezzo.
Qui in Italia è un modo di guardare al mondo, di intendere la vita, una lezione dello spirito. Quando mangi non c’è passato, non c’è futuro. Un buon pasto serve a fermare il tempo, a farti entrare nelle cose. A farti sentire il tuo corpo ed i tuoi sensi.”
Intreccia le lunghe dita sulle ginocchia e ride.
Ogni personaggio apprende qualcosa di sé attraverso la preparazione di un piatto diverso. “È venuto prima il personaggio, o prima la ricetta? ” le chiedono.
“Oh no” – Erica si infervora – “prima sempre il personaggio. Solo il granchio è venuto prima e ho cercato poi un personaggio che gli si adattasse.
“Il bello, la sfida sono stati proprio questo: cercare un piatto, un cibo che corrispondano ad un’esperienza di vita, ad un momento esistenziale. Per Tom che ha accompagnato la moglie nei lunghi mesi prima della morte, è stata la preparazione del sugo. Il vero sugo fatto in casa richiede molto tempo. Tempo, cura, fatica, dedizione, per cosa poi? Per niente sembra. È così che si possono vedere le cose: come un dono immenso o come una perdita di tempo. Puoi pensare che il tempo e l’amore e la cura che hai dato a chi non c’è più non siano serviti a nulla, o puoi vederlo come il dono più grande della tua vita.
“In ogni storia sono collegati tre elementi: la persona, la cosa che deve imparare e il piatto corrispondente. Ian, l’ingegnere informatico ad esempio deve imparare a lasciarsi andare, a diventare più sensuale, non poteva essere sua l’esperienza del granchio. Per lui andava bene il tiramisù… Ho lasciato che fossero i personaggi a parlarmi: e questa volta è successo anche a me. Mi ricordo” – continua – “di quando a Seattle andavo ad ascoltare le presentazioni dei libri. E sempre gli autori dicevano: “è stato il personaggio a dirmelo, a parlarmi,” ed io pensavo che se lo inventassero. Cosa era quella storia? Così una volta l’ho chiesto ad un’autrice. Le ho detto: “Anche io scrivo, ma a me i personaggi non parlano, come mai? Lei mi ha sorriso con il suo bel sorriso e mi ha detto: “Forse sei tu che non li senti.”
Il povero granchio che ho ammazzato ha aperto la porta alle voci dei personaggi.
“La cosa più difficile è stata trovare la lingua dei sapori. Perché come diciamo in inglese “the fish is fishy” il pesce sa di pesce. Non c’è molto altro da aggiungere. Cercare di descrivere un sapore è un esercizio incredibile, che stimola tutti i sensi”.

Il giornalista, alla fine, sfogliando il libro torna sulla frase che lo ha colpito: “Spesso i più grandi doni ci vengono da ciò che ci è mancato nella vita.”
“Ho scritto quella frase di getto mentre ero nel bel mezzo della storia di Lillian. E mi sono fermata, sorpresa. Credo che sia una delle cose più belle della scrittura: scrivi qualcosa a cui non avevi pensato e ti rivela qualcosa di te stesso.
Ho scritto quella frase e ho capito qualcosa che fino a quel momento mi era sfuggito. Che ha a che fare con mio padre. Ho amato moltissimo mio padre: un ingegnere, un musicista, un uomo molto brillante, tutto testa e razionalità, che di certo mi ha amato, ma non sapeva come mostrarmelo. Eravamo molto diversi. Ed io ho cercato, sempre, di entrare nel suo punto di vista, per capire come fosse per lui l’amore. L’amore che mio padre non riusciva ad esprimermi mi ha avvicinato alla letteratura. È stato mio padre a darmi la letteratura. Non so se riesco a spiegarmi… È stato così.
Ed è strano quanto è successo dopo. Invecchiando, ha sviluppato una malattia legata al Parkinson, che ha ridotto le sue brillantissime doti razionali. Per ironia della sorte mio padre, prima di morire, ha cominciato a vivere con il cuore. Ed io standogli vicino, accompagnandolo, ho imparato molto sulla dignità, sull’empatia ed il perdono. E questo ha cambiato profondamente il libro che stavo scrivendo.
Così, nella prima luce del tramonto, le interviste finiscono. Si è conclusa la giornata romana. Il tour di Erica Bauermeister prosegue: è prevista anche una tappa a Bergamo, la città dove tutto è iniziato. “Prima pensavo che Bergamo rappresentasse tutta l’Italia, non potevo immaginare che ci fosse gente ancora più calorosa”.

Giorni dopo abbiamo visto il suo libro, in libreria, tra quelli consigliati dai lettori di Feltrinelli. La recensione diceva solo: è uno di quei libri che ogni tanto si ha bisogno di leggere. E lì in piedi davanti agli scaffali ci è sembrato di rivederla Erica Bauermeister e di risentire la malìa che la circondava, che ci accompagna ancora da giorni giorni.
Era la malìa del vero, capiamo, di una verità umana, intima, dolorosamente appresa.
La traduzione del titolo, in italiano parla di ingredienti segreti; il titolo inglese, più pragmatico, parla di ingredienti essenziali.
Ingredienti segreti, essenziali, umanissimi: la dignità, l’empatia, il perdono. Speriamo di conservarli.

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