All’interno della programmazione teatrale che lo ha visto in scena all’Argentina dal 10 al 22 Marzo con “La Menzogna”, Pippo Delbono e la sua storica compagnia, si sono presi un’esclusiva serata di “pausa” (il 19 marzo) da dedicare alla rappresentazione di “Racconti di giugno”, i racconti scritti da Delbono, messi in scena già da qualche anno e pubblicati nel 2008 da Garzanti (un libro da non perdere per tutti quelli che non hanno avuto l’occasione di riservarsi un posto per tempo in platea).
Solo un tavolo, che ospita una bottiglia d’acqua, una di birra ed un bicchiere vuoto, poco più in là una sedia e la parola a Pippo, che farà di questi essenziali elementi l’ambientazione per i suoi racconti.
È la storia di una vita dedicata all’arte del teatro pur di non morire di dolore insieme al suo primo amore.
Vittorio si chiamava.
E fu il suo primo compagno d’amore e di viaggi, di scoperte, di trasgressioni sempre più pericolose e con esse la smania di seguirlo ovunque, anche nel buio più massacrante, sempre e solo per amore.
Quando poi arriva l’eroina a soffocare la capacità serena di dichiararsi l’appartenenza l’uno all’altro, quando non si riesce più a conciliare l’amore con la semplicità di dirsi le cose, quando tutto inizia a passare attraverso altri linguaggi, aspri, violenti, è proprio in quel momento che per salvarsi Pippo sceglie il teatro come via di fuga da una realtà assassina, ma anche come insospettabile sentiero luminoso all’interno di se stesso.
E ce lo racconta con toni ora ironici, ora amari, per poi diventare furioso, lucido e disperato; ma soprattutto, ce lo racconta con il corpo.
L’ultimo saluto di Vittorio, morente, è il gesto di una mano debole, che si apre e si chiude senza difesa, intermittente tra la vita e la morte, e c’è Pippo in piedi sulla sua sedia, ed è il suo corpo a riprodurre le contorsioni di un dolore che ha contaminato la carne, la mente, l’uomo.
Il dolore che non rimane dentro ma esala attraverso l’esperienza del corpo, attraverso una danza che lascia affiorare ogni segno, ogni ricordo, ogni muta parola.
Il soffio smanioso e ripetuto dentro la bottiglia di vetro, che ci riporta al rombare dei motori che l’hanno lasciato insonne e colpevole durante il viaggio di ritorno sulla nave per l’Italia dove l’attendeva il suo amico, oramai lontano.
A Pippo rimane una maledetta eredità che scorre nelle vene.
È così che anche l’aids che lo stava uccidendo diventa una maledetta eredità d’amore.
Ma questa è solo una concisa parentesi nel contenuto dei racconti di giugno, composti da anelli che tengono legati tra loro i tasselli di un mosaico che racconta storie che si rifiutano di attraversare le consuete vie della conoscenza, dell’apprendimento, parlano invece all’inconscio, lo richiamano, lo sconvolgono, lo stordiscono fino a farlo arricchire, fino a portarlo a patti con la severa censura di un controllo cosciente e inscatolato, per permettere allo spirito di ripartire da dove non c’è certezza, lasciando così spazio ad una creatività reale, pura, libera.
Ed è una libertà gioiosa che abbraccia un progetto cosmogonico per noi inconoscibile ma pulsante, ed è con forza che Pippo, rifacendosi a Pasolini insiste: “se non si grida viva la libertà con gioia, non si grida viva la libertà, se non si grida viva la libertà con amore, non si grida viva la libertà”.
Non si potrebbe acclamarla, inseguirla in nessun altro modo; avremmo come guida l’ingratitudine, l’odio, la ferocia dell’irrisolto che danneggerebbero l’intenzionalità e distruggerebbero la meta.
Per mano a lui, sempre Bobò, Vittorio, al quale Pippo ha regalato un nuovo, incerto ma nuovo, inizio.
Nella voce che Bobò non ha, che si converte in gesto cesellato (lui che tocca e parla al mondo come se fosse di cristallo) è proprio lì, in quella delicata precisione che si nasconde la gratitudine per una libertà aspettata per quasi cinquant’anni, reclamata ed attesa sempre con amore e gioia.
Come noi non siamo più in grado di fare.