L’ultimo film di Clint Eastwood, in questi giorni nelle sale, è costruito con grande perizia dagli sceneggiatori Nick Schenk e Dave Johannson e condotto con mano ferma dal regista. Descrive l’impatto di un vecchio americano dal brutto carattere, veterano della guerra in Corea, con l’invasione di asiatici (‘musi gialli’) nel suo quartiere alla periferia di Detroit. Il vecchio Clint – Walt Kowalski nel film – è un burbero solitario, che ha perso da poco la moglie e ha cattivi rapporti con i suoi due figli e le rispettive famiglie. Vecchio meccanico, mantiene con meticolosa cura una vecchia Ford ‘Gran Torino’ del ’72 (da cui il titolo), che subirà un maldestro tentativo di furto da parte di una banda di teppisti. È il modo in cui Walt viene in contatto con la comunità dei suoi aborriti vicini che – come viene spiegato dalla giovane della famiglia, Sue, a lui e agli spettatori – sono di una particolare etnia – Hmong (o Miáo o Mèo), sparsa tra le regioni montagnose di Laos, Vietnam, Cina e Birmania – immigrati in massa negli Stati Uniti negli anni successivi alla guerra del Vietnam, per aver fornito un sostanziale aiuto agli americani contro l’esercito nord-vietnamita. Nel nuovo paese, pur con una buona integrazione, hanno mantenuto i loro costumi e fanno rumorose riunioni in occasioni di nascite e altre ricorrenze. È ad una di queste che l’attonito Walt si trova a partecipare, e deve riconoscere che trova più affinità con loro che con la sua famiglia. L’aspetto etnico-antropologico offre un ulteriore motivo di interesse al classico rapporto di scambio tra il vecchio Walt e il giovane Thao. Un’iniziale ostilità, una progressiva cauta apertura e poi un aperto sostegno contro le vessazioni dei teppisti, che giungeranno al punto da richiedere un’azione estrema, una sfida che il vecchio combattente non potrà eludere.
Ma certi film fanno venire pensieri che vanno oltre la sostanza del film stesso e portano altrove; anche molto lontano. L’innesco è venuto dall’eccezionale prolificità di questo grande del cinema e – forse – dalle scritte accattivanti della pubblicità del film, viste sul giornale: “Eastwood: un regista che ringiovanisce invecchiando!”
Imperscrutabile Clint, di cui nessuno che lo avesse conosciuto ai tempi dei film con Sergio Leone avrebbe detto che ci fosse anche un cervello fino, dietro quella faccia dal ghigno sprezzante. Tanto che lo stesso Leone ebbe a dire in un’intervista: – Come scelsi Clint Eastwood? Per la verità, più che di un attore, avevo bisogno di una maschera, e Eastwood, a quel tempo, aveva due sole espressioni: con il cappello e senza cappello”.
– Invece – racconta Sergio Donati, lo sceneggiatore di Leone – stava rubando con gli occhi; imparava un mestiere… E nessuno di noi se ne era accorto!
Esemplare Clint, per la sua ricchissima filmografia e per poter – noi spettatori – seguire la sua evoluzione umana attraverso gli anni, nelle sue opere di grande successo, come attore e poi come regista.
Ma la domanda è: avrebbe fatto Clint Eastwood – classe 1930 – due film come ‘Million Dollar Baby’ (2004) e questo attuale ‘Gran Torino’ se non fosse nel frattempo diventato vecchio e ancora più vecchio? Perché essi sono il seguito ideale uno dell’altro; lo stesso personaggio, indurito dalla vita, che si confronta con la morte. Con analogie non casuali. Le figure di un figlio e di una figlia acquisiti, sentiti come un legame più profondo che non un figlio vero; un bilancio globale della propria esistenza; la protezione, il dono di sè; anche simili sono alcuni dei personaggi di contorno, come la figura di prete.
Clint sta facendo questi bei film non malgrado stia invecchiando, ma perché è invecchiato, e questi temi sono adesso per lui pressanti, ineludibili.
Perché le categorie e la visione del mondo cambiano nel tempo: lo vediamo nella vita di ognuno, prima ancora che al cinema.
Ci sono stagioni della vita in cui un aspetto è talmente prioritario da sovrastare tutti gli altri. Penso a periodi come l’adolescenza e la scoperta del sesso che si fa in quell’età; allo stato d’animo della persona innamorata, o gelosa; a quel che succede se c’è una malattia importante. Per ciascuna delle voci si potrebbero scrivere un romanzo o citare decine di film. In queste situazioni si operano della ultra-semplificazioni: si divide il mondo – che rimane ricco e sfaccettato – secondo categorie fittizie in accordo con la propria particolare necessità.
La vecchiaia è un’altra di queste condizioni: così coinvolgente che tutto sottomette alla sua presenza. La classificazione che spontaneamente si fa a questa età è dividere il mondo tra vecchi e giovani. E si può invecchiare bene o male. Si possono odiare i giovani perché hanno ancora tutta la vita davanti; o farsi carico di proteggerli, e vigilare su di essi. Come fa il vecchio Clint in questi suoi due film: capace come pochi di affrontare problemi universali come la vita e la morte, con finezza e misura; di fermarsi sempre in tempo sullo stretto crinale tra il drammatico e il patetico.
Dalla vita ai film come lungo un filo continuo: giunge infine per lui, come per tutti, l’ultima antinomia, quella cruciale tra la vita e la morte. Si possono specchiare, le vite di ognuno, nei film e sul volto di questo americano, scomodo e legnoso, ma comunque grande.
E si arriva alla sequenza conclusiva di “Gran Torino”: la resa dei conti.
Una scena da manuale (rigorosamente da non rivelare): la sintesi di una vita.
Abbiamo ancora davanti agli occhi la figura di Clint pistolero ne “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” (1966): gli occhi stretti come a proteggersi dal sole (anche se è notte); i gesti lenti e solenni, poche parole. L’eterna sigaretta in bocca; la ricerca dell’accendino…
E quando si riaprono gli occhi dopo una tempesta di spari – bunghete banghete rat rat rat – si è certi che ancora una volta sarà riuscito a vincere lui… Il vecchio Clint!
Se non a vincere – non è di quei duelli che si possano vincere – almeno a beffarla, l’antica Nemica.