La notizia è recente. La rete televisiva americana ha annunciato la produzione di altre due stagioni dei Simpson, facendo così diventare il cartoon, la serie Usa in prima serata di maggior durata (e successo) della storia della tv. Nulla può fermare la famiglia più gialla e irriverente della televisione.
Nel momento in cui si analizza la nuova ondata di fiction americana adulta, ci si dimentica il più delle volte che anche l’animazione si muove sullo stesso piano. Proprio i Simpson, nati nel 1989, non sono altro che gli eredi moderni della sitcom familiare.
Unici e insieme molteplici.
Dal punto di vista semiotico i gialli sono un vero e proprio condensato di tutte le più interessanti teorie della comunicazione di massa. Utilizzano svariati livelli di fruizione: sono un cartone animato, suscitando l’interesse superficiale dei bambini; in realtà il vero pubblico di riferimento della serie è un individuo dotato di una certa cultura, capace di andare al di là delle gag, di capire il vero messaggio di critica che si trova nei vari episodi e di intendere le infinite citazioni cinematografiche e non, di cui soni imbevuti.
Pertanto, i Simpson rappresentano un geniale gioco che usa, svela e distrugge tutti gli stereotipi attraverso i quali i media ci raccontano il mondo. E, in particolare, nei suoi vent’anni il cartoon è stato in grado di raccontare e dissacrare l’uomo post-ideologico, consumatore e televisivo, il suddito medio dell’Impero delle Merci.
La sceneggiatura riesce a mantenere alcune peculiarità dell’iconismo stampato, aggiungendo la cinematograficità che non ha pari in altri serial rendendolo altamente innovativo. Altra caratteristica è l’assenza di una storia cornice vera e propria e la meta finale. Al centro della scrittura, poi, vi è la comicità. Una comicità crudele e che va essenzialmente all’attacco, in grado di capovolgere tutti i luoghi comuni della nostra realtà. Ed il merito è di Matt Groening e del suo staff capaci nel custodire la loro raffinata intuizione satirica anche dentro la dozzinalità industriale della produzione televisiva. Eppure, come afferma Carl Matheson, i membri della famiglia Simpson si vogliono bene. E noi vogliamo bene a loro. Nonostante il fatto che la serie si spogli di qualsiasi parvenza di valore […] riesce sempre a trasmetterci la forza pura dell’amore irrazionale di esseri umani per altri esseri umani.
Al contrario di Fantozzi, grande maschera italiana di omino schiacciato dalla storia, Homer, ad esempio, non è affatto consapevole della sua sventura e della sua subalternità. È l’antieroe. Ma incosciente, non vittima del Sistema perché lui stesso è il Sistema. E noi adoriamo Homer e tutti i Simpson perché loro siamo noi; ridendo di loro ci distanziamo da noi stessi e riusciamo a guardarci in modo critico. Quella casa, quella famiglia, quella torpidità opposta come sola difesa allo schermo televisivo, quelle avventure picaresche nel labirinto della contraffazione sociale, dello sfascio ambientale, della menzogna politica, del fanatismo religioso, sono la caricatura esilarante della nostra impotenza.
Si permettono di irrompere spezzando i tabù, parlando di ciò che tutti sanno ma che dovrebbe rimanere non detto. Come ha scritto la sociologa Marina D’Amato nel suo libro “I teleroi” (Editori Riuniti, 1999): il cartone racconta le avventure della famiglia Simpson che sono in fondo la proiezione in chiave esasperata dei piccoli problemi di ogni famiglia.
E II Simpson rappresentano (ci rappresentano) proprio questa cultura del cinismo, questa spasmodica ricerca del successo. Come ha affermato Michele Serra su “Repubblica”: “L’epoca passa con i suoi veleni, i suoi crolli di borsa, le sue pazzie ideologiche. I Simpson restano, assaggiano tutto, digeriscono tutto: la pancia di Homer è la nostra assicurazione contro il Male. In prima serata, tutte le sere, speriamo per sempre”.