“In un momento in cui si è abbassata l’attenzione sul tema dei diritti civili e la situazione non è delle migliori, nemmeno in un paese come il nostro, sono felice di lavorare a questo spettacolo.” Alessandro Gassman è orgoglioso di portare in giro per l’Italia “La Parola ai giurati” di Reginald Rose, di cui è regista e protagonista. Il testo teatrale racconta della battaglia dialettica che si svolge all’interno di una giuria popolare chiamata a decidere della vita di un giovane immigrato accusato di omicidio negli Stati Uniti degli anni ’50. Parla di pena di morte e di diritti umani ed è realizzato sotto il patrocinio di “Amnesty International”.
Un tema difficile, ma lo spettacolo ha registrato un’ enorme successo di pubblico. Come te lo spieghi?
L’attrattiva di questo testo è nella sua grande attualità, anche rispetto alla realtà italiana. Possiamo dire che le condizioni sociali degli Stati Uniti degli anni ’50, luogo e tempo in cui si svolge il nostro dramma, per certi versi non erano così diverse da quelle dell’Italia di oggi. L’imputato è un giovane immigrato. In quegli anni gli Stati Uniti subivano flussi migratori simili a quelli con cui facciamo i conti noi oggi e le reazioni, i discorsi che si sentono qui ora, prima si sono sentiti li’: “vengono a rubarci il lavoro, le donne, sono diversi”. Quei “diversi” eravamo anche noi italiani che abbiamo la memoria troppo corta.
Che valore ha il patrocino di “Amnesty”?
“La parola ai giurati” può essere definito non solo uno spettacolo ma un “evento” molto importante. Grazie alla presenza di “Amnesty International”, a latere delle rappresentazioni, abbiamo potuto organizzare incontri e dibattiti che hanno registrato sempre grande partecipazione e nel corso dei quali abbiamo potuto conoscere molte storie di condannati a morte di tutto il mondo. Venendo a teatro, da quando abbiamo cominciato la tournée, l’anno scorso, più di duecentomila persone hanno avuto l’occasione di riflettere per due ore abbondanti su un tema importante come quello della pena di morte e dei diritti umani.
A quale conclusione si arriva nello spettacolo?
Reginald Rose, l’autore del testo, non si schiera contro la pena di morte ma insiste sull’elemento del “ragionevole dubbio”. Noi, grazie alla presenza al nostro fianco di un organizzazione come “Amnesty International”, possiamo fare di più, andiamo oltre: il loro è più di un patrocinio, ci permette di prendere posizione. La scelta di schierarci è chiarita anche dall’intervento-video, nel finale, di una donna rwandese, che ha visto il marito ucciso nel corso del conflitto etnico divampato nel suo paese e che dice semplici ma illuminanti parole: “vedere ucciso il suo assassino non mi ridarà indietro mio marito.”
Tu sei anche il regista dello spettacolo. Quello che colpisce di questa messa in scena è la suspense crescente, quanto ci hai lavorato?
Molto. Al centro dello spettacolo, dicevamo, c’è il ragionevole dubbio che viene pian piano insinuato dal mio personaggio nella testa degli altri giudici, all’inizio tutti fermamente convinti della colpevolezza dell’imputato. Era fondamentale concentrarsi sulla suspense e sull’onda di questo dubbio che cresce piano ma costantemente. Il mio modello è stata, più che le precedenti rappresentazioni teatrali, la trasposizione cinematografica di Sidney Lumet. Ho cercato di supplire alle manchevolezze degli strumenti scenici rispetto a quelli cinematografici per creare tensione, cercando di focalizzare l’attenzione, da regista, sulle reazioni di chi, al momento, non è al centro della scena ma ascolta solo.
Il tuo personaggio non è un po’ sopra le righe?
La giuria è composta da dodici persone, dodici caratteri, undici dei quali motlo riconoscibili anche nella nostra esperienza quotidiana: lo xenofobo, il razionale, il saggio anziano, ecc.
Il mio personaggio è certamente quello più difficile da trovare nella vita di tutti i giorni: è una specie di Gandhi, un illuminato. Ma la costruzione così astratta di questo protagonista è voluta. Ed è voluta anche la poca complessità dell’intreccio giallistico nell’economia del testo. Rose ci fa capire che la cosa che lo interessa è la riflessione sul dubbio. In quella giuria, alla fine, il vincitore sarà chi avrà ascoltato di più.
Perché dai le spalle al pubblico durante tutto lo spettacolo?
Volevo mimetizzarmi. Il ruolo del mio personaggio è quello di accendere la miccia. Ma poi l’attenzione si sposta sulle reazioni degli altri, che vengono provocati e stimolati a ragionare da me. Così sul palco si mantiene un respiro corale: la giuria è un microcosmo sociale fatto di dodici componenti. Il mio personaggio può definirsi il protagonista perché ha più spazio, più battute degli altri, ma bisognava togliergli un po’ di “luce” e trovare il modo di far concentrare il pubblico sui pensieri di tutti i giudici. Il senso dello spettacolo è nel loro percorso razionale dalla certezza assoluta al ragionevole dubbio.
Hai scelto “La parola ai giurati” anche per iniziare la tua avventura come direttore artistico di un Teatro Stabile. In questa veste, credi che il teatro possa svolgere un ruolo più attivo nella vita del Paese?
Dirigo il Teatro Stabile d’Abruzzo da quarantadue giorni e, tutte le scelte che ho fatto finora sono legate a quest’idea. La prima, ne stiamo parlando: “La parola ai giurati”, a maggio porteremo “Le Invisibili”, al “Valle”, tratto dall’ omonimo libro e poi abbiamo in programma per l’anno prossimo di mettere su uno spettacolo di un autore americano che ha per protagonisti i cubani che cercano di integrarsi a New York, solo che i nostri protagonisti saranno dei rumeni che vivono sulla Casilina. Penso che i teatri che godono di finanziamenti pubblici abbiano il dovere di affrontare questo tipo di discorsi, e dovrebbero farlo in modo ben più massiccio di quanto non facciano ora.