Solo una settimana fa, nel pomeriggio del 16 febbraio 2009, Candido Cannavò era a Roma, nella Sala delle Conferenze della Camera dei Deputati, a parlare con forza e vigore di disabilità. Da stamane, dopo il malore che lo ha colpito lo scorso giovedì, lo storico direttore della “Gazzetta dello Sport” non c’è più.
Pensare a Cannavò è pensare al colore rosa del “suo” giornale, diciannove anni di reggenza del giornale sportivo per eccellenza, una vita dedicata al giornalismo. Ma il suo ultimo lunedì pomeriggio lo ha impiegato nell’altra sua passione: il sociale. Il congresso Non può il silenzio presentava il libro di Eleonora Romano, da cui lo stesso congresso prende nome, si tratta dell’autobiografia di una ragazza che ha creato una serie di reazioni a catena. La sua decisione e il suo coraggio di dire la sua, nonostante le difficoltà oggettive, hanno dato lo spunto per far nascere una serie di progetti dedicati alla scrittura come rottura di un mutismo culturale e sociale. Candido Cannavò ha partecipato con entusiasmo perché si occupava da anni dell’argomento, perché avendo conosciuto Eleonora Romano aveva apprezzato il suo impegno e la sua capacità.
“Un grazie ad Eleonora, che ha scritto un libro diviso bene, noi sappiamo che il giornalismo e qualsiasi forma di scrittura ha bisogno di semplicità.” Una lezione di scrittura regalata in un congresso che parlava di letteratura, con argomentazioni difficili da trattare, perché discutere di diversità è complesso ed è facile cadere nel pietismo.
Cannavò non era un sentimentale, era un uomo dai sentimenti forti. Nelle sue parole di quella sera c’era un invito al coraggio. Si occupava di disabilità e di impegno sociale, forse perché vi riconosceva una parte di se stesso e della sua fatica. A soli diciannove anni decise di dedicarsi al giornalismo sportivo e iniziò il suo percorso come redattore sportivo de “La Sicilia”. Era l’Italia del dopoguerra, un’Italia che si stava rialzando e lo sport diventava un momento di aggregazione e di riconoscimento sociale. A quel concetto di sport Cannavò è rimasto legato nel tempo. Così lo ha ricordato il presidente Napolitano rivolgendo parole di stima al lavoro del direttore che “ha raccontato con passione e acutamente divulgato i valori di lealtà e di competizione che hanno reso sempre più popolare il gioco del calcio e lo sport italiano“.
Un coraggio che derivava dalla passione. Nel presentare il suo libro E li chiamano disabili, Rizzoli, spiegava: “In copertina c’è una ballerina, guardate la gamba in alto, la sensualità, solo dopo, con maggiore attenzione ci si rende conto che non ha le braccia. Questa ragazza, Simona, con l’aiuto dei suoi genitori e qui, in questo incontro, di genitori ce ne sono tanti, si è realizzata, in primo piano nel ballo: ha ballato per il Giubileo e in mondovisione per l’inaugurazione delle paraolimpiadi di Torino; ha una sua compagnia di ballo. Ma è anche laureata e parla quattro lingue. In lei c’è la sintesi del perché siamo qui. Non guardate il corpo. Considerate che queste sono persone come noi. Simona parla della bellezza della sua vita. Una volta, a Verona, concluse il suo discorso dicendo: Ragazzi la vita è bella, amatela! Su questo mio libro, da quando è uscito tre anni fa, ho fatto centoventisei conferenze e ho scoperto che c’è un’Italia vera” Quell’Italia vera che lo seguiva e lo apprezzava perché non si sentiva strumentalizzata. Quei genitori durante il convegno si sono sentiti compresi e hanno applaudito alle sue parole.
Capace di far sentire la sua voce fuori dal coro. Anche chi non segue lo sport ricorderà, che pur ammettendo le responsabilità di Pantani, da grandissimo appassionato di ciclismo quale era, non dimenticò mai le sue qualità come sportivo, ricordando le sue imprese ardite, anche quando la distanza lo dava per sicuro secondo, il “pirata” trovava la forza per ribaltare la situazione e vincere. Durante lo scandalo che colpì il ciclista tutti spararono a zero, tranne Cannavò che tenne sempre presente al pubblico che la forza conosce anche la debolezza. Perché gli eroi non esistono, piuttosto ci sono uomini che possono anche sbagliare. Il direttore lo sapeva bene, trattò il mondo delle carceri in Libertà dietro le sbarre, Rizzoli, e da lì iniziò il suo percorso scritto tra chi doveva far conto con delle difficoltà superiori alla media.
Durante il congresso ha riso e ringraziato tutti: “io ho dato uno e ricevuto mille anzi un milione”. Sempre avido di conoscere chi potesse insegnargli, come i suoi preti “da strada”, a cui, nel suo ultimo libro, Petracci. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede, riconosceva il merito di lavorare semplicemente e con uno sguardo agli altri, la sua generazione aveva imparato a muoversi così.
Arrivederci, direttore, avevamo ancora da imparare…