Martedì arriva al termine la seconda serie de “L’ispettore Coliandro” in onda su Rai Due. Perché parlare di lui? In fondo di ispettori, poliziotti e commissari ne è piena la nostra fiction televisiva. Eppure quest’eroe, così cinico e italiano, non somiglia a nessuno. E, soprattutto, non si affida al lavoro di squadra, ma rimanda all’immagine del singolo investigatore così come accadeva per le serie degli anni 70 e 80.
Un personaggio maldestro, sfortunato, impulsivo che strizza l’occhio un po’ a Callaghan e un po’ a “Monezza” di Milian senza riuscirci. Giubbotto di pelle nera, Ray Ban scuri e parolaccia facile; antieroe casinista e romantico. Il suo essere eccentrico lo porta a raccontare un’Italia oscura, nascosta dove agisce, spesso indisturbata la nuova criminalità. Coliandro rappresenta un interessante modo per raccontare la contemporaneità, la metà oscura della società, cioè le organizzazioni criminali, ma anche quei difetti e quelle contraddizioni di oggi, attraverso le gag che coinvolgono il protagonista.
Non si deve dimenticare poi che il personaggio, interpretato da Giampaolo Morelli, nasce dalla mente e dalla penna di Carlo Lucarelli (Il giorno del lupo) e la regia della fiction è affidata ai Manetti Bros.
Come in ogni prodotto del duo romano, anche in questa molta attenzione è rivolta alla post-produzione e al meticoloso lavoro di montaggio, tanto che a volte ci sembra di guardare un film di Quentin Tarantino.
La fiction, proponendo un interessante gioco sui generi e sottogeneri del cinema poliziesco, rende possibile un lavoro registico differente per ogni episodio. E così i piani e le inquadrature a volte spingono più verso la commedia, altre volte sull’azione e il mistero dove l’unica nota che si conserva intatta è data dallo stile dell’ispettore. A valorizzare una regia originale e creativa si ritrova, poi, una scrittura fluida, capace di coniugare attentamente tutti gli elementi del genere senza mai semplificare o rallentare i tempi del racconto. Si nota, inoltre, una struttura rigida nella forma e dinamica nella narrazione dove ogni personaggio è ben caratterizzato e assolutamente funzionale.
E proprio i personaggi rappresentano l’elemento forte della serie. Individui come Trombetti (Silvestrin), il magistrato Longhi( Logan) e Gargiulo (Soleri) non sono solo figure di contorno, ma sempre attentamente disegnate e coinvolte nel circoscrivere lo spazio preciso in cui agisce il protagonista.
Un personaggio che demolisce, in un certo senso, l’idea di politically correct che sembra attraversare la nostra televisione, ma al tempo stesso un uomo pieno di valori e onesto. Un Coliandro che non è testardo, né uno troppo dedito al lavoro, una persona un po’ stupida, a volte ignorante e piena di pregiudizi. Ma soprattutto una persona in grado di comprendere i suoi limiti e sempre pronta a tornare sui suoi passi e cambiare idea.
Coprotagonista insieme agli attori c’è Bologna, la metropoli più piccola del mondo, bellissima e coinvolgente, una città che, come affermano i registi, «ti entra dentro e non ti lascia più. Una città che ami e a volte odi per come penetra nella tua anima».
Il mix risulta vincente e la confezione supera ampiamente i limiti di budget offrendo un ritratto interessante dell’Italia minore. Quattro film che, con ironia e sarcasmo, raccontano le due facce di una stessa realtà: da un lato, le problematiche di una società sempre più malata e criminale; dall’altro l’aspetto più popolare del popolo italico che riesce a ritrovarsi nel sentire e agire del protagonista.