Piante e animali di Lemuria. Cronache di viaggio (prima parte)

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Laggiù laggiù / nell’indaco laggiù foschia… foschia… / enigma fantasia… [Paolo Conte in "Chissà"; dalla raccolta ‘Elegia’ (2004)]

Laggiù laggiù / nell’indaco laggiù

foschia… foschia… / enigma  fantasia…

[Paolo Conte in “Chissà”; dalla raccolta ‘Elegia’ (2004)]

 

Il quadro è diviso in due parti: sotto il blu turchese del mare; sopra il celeste del cielo, pennellato di nuvole bianche. C’è solo una piccola interruzione dove le due metà si uniscono. Una mancanza, o una disattenzione del pittore, si direbbe. Una piccola lacuna color indaco di forma allungata, come se la trama del cielo si fosse strappata in quel punto, in una riedizione del ‘Truman Show’.

Da lì si potrebbe forse fuggire dal mondo ed entrare in un’altra realtà?

Ma la barca continua ad andare e quella che sembrava una piccola irregolarità del quadro diventa sempre più grande, cambia colore: grigio, verde scuro, poi tutte le gradazioni del verde.

Una piccola laguna color indaco di forma allungata, come se la trama del cielo si fosse strappata in quel punto, in una riedizione del ‘Truman Show’

Geograficamente, Ankazoberavina è davvero un puntino – neanche riportato nella maggior parte delle mappe della zona – vicino a un’isola più nota (Nosy-Be), a nord-ovest e a poca distanza da un’isola ben più grande (due volte l’Italia!) – il Madagascar, appunto – che i nativi chiamano la Grande Terre.

Nella zona nord-ovest del Madagascar, l’asterisco rosso indica un arcipelago di piccole isole intorno a Nosy Be, tra cui Ankazoberavina

Nel piccolo braccio di mare intorno all’isola si fanno in effetti incontri straordinari, immaginati solo nei sogni (o visti al cinema, che ne è il succedaneo più accessibile).

In avvicinamento all’isola – appena visibile all’orizzonte nella metà di sinistra della foto (cfr. prima immagine) – la prima sorpresa è stata l’incontro con i delfini

E passi per i delfini, che sono comuni anche nei nostri mari, ma chi avrebbe mai immaginato di vedere le balene, in questa vita?

L’isola (Ankazoberavina) vista ancora più da vicino; in primo piano due balene di passaggio (…toh!), con relativo sbuffo

– Che ci faccio qui? – una domanda che ha attanagliato tanti altri, prima di me – sulla rotta verso una piccola isola sconosciuta ai più? E come e perché proprio in Madagascar?

Un amico che ora non c’è più usava fare delle cene in cui riuniva gruppi di ‘matti’, secondo lui omogenei per una particolare follia. Fu così che ci fece incontrare, noi innamorati dell’Oriente, con un altro gruppo che invece aveva preso una direzione diversa; verso l’Africa, il Madagascar.

Le storie erano andate avanti quasi parallele, con modalità simili…

Si capita, più o meno per caso, in un posto che a differenza di tanti altri nel mondo, attira per qualche misterioso motivo. Si va una volta, un’altra, un’altra ancora; si è desiderosi di far vedere agli amici il luogo e la gente, gli usi e le tradizioni che hanno attratto noi. Si prende ad andarci sempre più spesso e anno dopo anno si cominciano a mettere radici.

Così è stato per noi e immagino anche per loro, che si sono innamorati di un’isoletta a meno di un’ora di lancia a motore dall’isola più grande, Nosy be; ne hanno chiesto la concessione per uso turistico eco-compatibile e hanno cominciato a lavorarci sodo. A distanza di una dozzina d’anni ne hanno fatto una piccola riserva naturale, un posto dove tornare spesso, con amici e conoscenti; poi, per le necessità di far fronte alle spese di gestione e per un tam-tam discreto tra appassionati, è sorto un piccolo resort con alcuni bungalows autonomi e delle strutture comuni: una libreria, la grande cucina, una veranda aperta sul mare per incontrarsi e per mangiare insieme.

 

L’arrivo dal mare sulla piccola isola, fa immediatamente pensare alla locandina del film che ha riportato ‘di moda’ il Madagascar: parliamo del cartone animato uscito recentemente, che – potenza del cinema – ripropone i lemuri, la flora e i paesaggi come poi effettivamente si ritrovano sul posto…

La lussureggiante vegetazione dell’isola, vista dal mare. Si riconoscono, sulla parte alta a sin. della foto, almeno tre palme del viaggiatore (v. in seguito)

Dal punto di vista geologico il Madagascar è un’enorme massa di terra che circa 140 milioni di anni fa si è staccata dall’Africa, con tutto il suo carico di vita, piante, animali, che da quel momento in poi hanno preso una diversa strada evolutiva; quindi tutto richiama qualcosa di già visto, ma ne è allo stesso tempo differente…

La presentazione del film di animazione “Madagascar” (2005) della ‘Dreamworks’, per la regia di Eric Darnell e Tom McGrath

Il Madagascar è davvero una terra capace di attirare i naviganti che ne fanno la conoscenza. Già nei nostri viaggi per il mondo insieme alle piante [Vedi su “O”: Piante e uomini in viaggio (seconda parte) 
del 22.10.07] abbiamo incontrato quel tal botanico – Philibert De Commerçon – che partito nel 1776 per la spedizione di circumnavigazione del globo di Louis Antoine De Bougainville, sulla via del ritorno si fece lasciare in Madagascar e non tornò mai più in Francia. Nell’isola si diede ad un’opera forsennata che lo portò a classificarne tutta la flora in breve tempo, prima di morire a soli 43 anni. Un hippie ante-litteram, potremmo considerarlo, da quel che scriveva ad un suo amico a Parigi: “Difficile, quando si è al cospetto di tesori così ricchi, generosamente sparsi su questa terra fertile, non sentire pietà per quei poveri teorizzatori che passano la vita nel chiuso delle loro stanze a escogitare vane sistematiche…”

Come in tutto il Madagascar, anche sulla piccola isola è presente la cosiddetta ‘palma del viaggiatore’ (Ravenala madagascariensis – Fam. Strelitziaceae), che non è in realtà una palma, ma un’erbacea ad alto fusto, come il banano. Tanto diffusa, da essere raffigurata nel logo della compagnia aerea nazionale

Quando si approda sull’isola, il comitato di ricevimento è dei più originali, anche se, dopo gli incontri precedenti, la meraviglia si è parzialmente scaricata. Si tratta della piccola colonia di lemuri, stanziali sull’isola, che vengono a informarsi sui nuovi arrivati. Questi che si vedono in giro sono meno frequenti di quelli ad abitudini notturne, che di giorno dormono al riparo, preferibilmente nel cavo degli alberi.

I lemuri incontrati poco dopo l’approdo sulla piccola isola. Addirittura tre insieme, nella immagine di sinistra

I lemuri sono pro-scimmie arboricole dai grandi occhi, tipiche del Madagascar, che era chiamato appunto Lemuria, nell’antichità. Tanto umanoidi nei tratti e nel portamento, tanto inquietanti gli occhi, che essi furono considerati dai primi colonizzatori come morti senza pace che venivano di notte a tormentare gli uomini; cosi che i primi missionari pensarono anche di battezzarli. Comunque – a loro parziale giustificazione – qualche motivo per essere indotti in errore lo avevano, dal momento che in latino ‘lemures’ significa ‘spiriti della notte’ e nell’antica Roma esistevano delle ricorrenze chiamate Lemùria, sembra istituite dallo stesso Romolo per placare lo spirito del fratello Remo, da lui ucciso.

A sinistra una buffa immagine di un lemure a due teste; si tratta in realtà di una femmina con il suo piccolo agganciato alla vita, che sembra non crearle impedimento alcuno. Nella foto di destra un altro curioso appollaiato tra i rami di un badannier (v. in seguito)
L’albero chiamato dai nativi ‘Badannier’, è tipico dell’isola, cui dà anche il nome (sembra che in malagasy ‘Ankazoberavina’ significhi ‘Albero dalle grandi foglie’). In termini botanici è una Terminalia Catappa – Fam. Sterculiaceae, chiamata anche Indian almond dalle noci (commestibili) che produce (particolare in basso a sin.)
Lungo i vialetti della zona curata dell’isola si trova – oltre al banano – un’altra vecchia conoscenza, il cimbopogone (Cymbopogon citratus o lemon grass – Fam. Graminaceae), dall’intenso profumo [V. su “O”: Profumo d’Oriente, del 18.02.07]
Un altro incontro notturno è con un animaletto che si nutre di insetti e di frutti caduti: è il ‘tenrec’ – Tenrec ecaudatus – unico rappresentante della famiglia dei Tenrecidae. Somigliante al toporagno e al nostro riccio, se ne differenzia per caratteri anatomici peculiari

Comuni in Madagascar – e presenti anche sulla piccola isola – sono le mangrovie che formano estese foreste costiere caratterizzate da una parte emersa a struttura arborea, da radici ramificate ancorate al terreno melmoso e periodicamente sommerse dall’innalzamento della marea; infine da spunzoni di radici emergenti tutt’intorno (pneumatofori) in funzione di strutture ‘respiratorie’, in un substrato povero di ossigeno per le radici.

Le mangrovie comprendono diverse specie, tutte molto interessanti dal punto di vista botanico e ancora confusamente classificate in tre diverse famiglie: Rhizophoraceae, Combretaceae e Verbenaceae. Un’altra loro caratteristica di rilievo riguarda i semi, galleggianti, in forma di sigari lunghi una ventina di centimetri, che costituiscono un esempio molto raro nel regno vegetale di ‘viviparia’; ovvero un seme che a maturità cade dalla pianta già provvisto di piccole radici, senza la necessità di dover germogliare nel luogo dove si fermerà.

Le mangrovie – nella foto Rhizophopora mucronata – Fam. Rhizophoraceae – sono piante molto particolari dal punto di vista dell’adattamento alla vita in acque salate, e preziose per la protezione delle coste
Le mangrovie formano estese foreste costiere, con un loro proprio ecosistema, peraltro molto delicato. Le propaggini emerse delle radici – dette ‘pneumatofori’ – contribuiscono all’ossigenazione della pianta
Fiori e seme di mangrovia. Quando il seme a maturità cade, già presenta degli abbozzi di radice ad una estremità. Trasportato dal mare su un terreno sabbioso o fangoso, esso non dovrà germinare, ma è già pronto a dare inizio ad una nuova pianta

Ma le sorprese non finiscono mai, per cielo mare e terra…

Aquile marine del Madagascar, dalla testa bianca, stanziali sulla piccola isola, dove hanno un albero preferito su cui andare ad appollaiarsi

Un altro incontro, andando per mare, è con le tartarughe marine che sono solite avvicinarsi alla costa per l’accoppiamento.

Nella foto in alto due tartarughe marine in accoppiamento, appena avvistate. Sotto: disturbate dagli intrusi, una delle due (la femmina verosimilmente) comincia a sbattere le pinne per avvisare il compagno: – Via via… Ci sono i guardoni!

Altre ancora se ne possono vedere sulla spiaggia, nel tardo pomeriggio o di notte, quando vengono a deporre le uova. Risalgono la spiaggia spingendosi faticosamente sulle pinne, che sono ben più adatte al nuoto che a muoversi sulla terra; cercano dopo vari tentativi un luogo che ritengono adatto e con le pinne posteriori cominciano a scavare. Raggiunta una profondità sufficiente depongono le uova in un numero variabile fino a 200. Le uova impiegheranno mediamente tra i 42 e i 65 giorni per schiudere, ma si sono registrati tempi anche molto superiori in relazione con un raffreddamento del suolo. La schiusa avviene quasi in contemporanea per tutte le uova. Un particolare interessante è che il sesso dei nascituri non è tanto in relazione con l’assetto genetico, come comunemente avviene, ma con la temperatura a cui si sviluppano, con una maggior percentuale di femmine negli strati superficiali (più caldi) della covata e un maggior numero di maschi in profondità. Uscite dal guscio le piccole tartarughe impiegano dai due ai sette giorni per scavare lo strato di sabbia che sovrasta il nido e raggiungere la superficie; quindi -al tramonto, in genere – si dirigono verso il mare.

La deposizione dura alcune ore; alla fine la buca viene accuratamente ricoperta e la tartaruga riprende il mare. Nel particolare della foto inferiore sono visibile le uova, di un bianco traslucido, poco più piccole di palline da ping-pong

Non avevo mai visto di persona la deposizione delle uova ma sulle tartarughe marine una storia da raccontare ce l’ho…

Avevo visitato, una quindicina di anni fa sulla costa occidentale dello Sri-Lanka, la sede di una fondazione dedicata alla protezione della specie – ‘Canon’s turtle conservation project’, mi pare che si chiamasse; ma non ne ho più sentito parlare; sarà forse scomparsa con lo ‘tsunami’ del 2004. Gli operatori facevano opera di educazione sulla popolazione locale e soprattutto pagavano ai raccoglitori abusivi di uova una cifra maggiore di quanto avrebbero guadagnato vendendole. Le uova venivano quindi reinterrate e protette fino alla schiusa. C’erano tre vasche con le piccole tartarughe, nate da uno, due e tre giorni, per renderle più resistenti prima di metterle in mare. Ai visitatori veniva data l’opportunità di portare sulla sabbia un certo numero di bestiole e di assistere al loro ingresso in acqua.

Le si vedeva allora vagare per un po’ disorientate, poi prendere decise la direzione giusta; venir lambite dalla schiuma dell’onda e dalla successiva trascinate via. Piccolissime: 5 – 7 centimetri di tartarughina, andare incontro all’immensità del mare.

Non abbiamo idea – noi specie umana dalle lunghissime cure parentali – di cosa possa significare affrontare il mondo a quel modo. Pensai – ricordo ancora – che non ci fosse nessuno più solo al mondo di quelle piccole tartarughe.

Piccole tartarughe migrano, dalla sabbia dove si sono schiuse, verso il vasto mare. Sembra che questa fase sia importantissima per l’‘imprinting’ del riconoscimento del luogo di nascita, dove da adulte torneranno a deporre le loro uova

Durante il viaggio e sul posto, mentre si vivevano queste esperienze, trascinati dall’entusiasmo per i luoghi e gli animali incontrati, si è anche pensato che una ricomposizione tra l’uomo e il mondo della natura fosse possibile.

Ma a riguardare le foto a distanza, appena qualche giorno più tardi, se ne percepisce più chiaramente l’irrealtà; si prende atto che il mondo è quello delle petroliere che fanno naufragio in prossimità delle coste, delle cinquanta balene che tutte insieme sono andate a morire in Tasmania (è una notizia di questi giorni); degli ultimi elefanti e gorilla uccisi dai bracconieri. Specie che si estinguono nel silenzio del mondo, a volte ancor prima di essere state conosciute.

Allora tutto quel che si è visto e vissuto prende una sfumatura quasi dolorosa di rimpianto; solo un nuovo episodio delle occasioni perdute della specie umana.

 

È come una “lettera del giorno dopo” che questo viaggio e le sue immagini solari mi rimandano. Ma sempre l’Africa mi ha lasciato un retrogusto di rammarico [V. su “O”: Piante e storie dall’Africa (seconda parte), del 27.08.07], che per una catena di associazioni mi ha fatto pensare alla presentazione di un libro recentissimo, sulla guerra in Vietnam [‘L’albero di fumo’, di Denis Johnson, Mondadori Ed. (2009), in uscita proprio in questi giorni].

In un episodio del libro, un giovane soldato di nome Bill Houston, annoiato e un po’ brillo, si aggira nella jungla. Vede una scimmia e quasi senza pensarci, le spara, colpendola al dorso. La scimmia cade lentamente. Meravigliato e  sconvolto lui stesso dell’accaduto, si avvicina e prende in braccio l’animale, come se fosse un bambino:

[…] “Si accorse, dapprima rapito, poi orripilato, che l’animale stava piangendo. Aveva il respiro rotto dai singhiozzi e le lacrime gli sgorgavano dagli occhi a ogni battito di palpebre. Guardava qua e là senza mostrare un particolare interesse per il marinaio.

“Ehi” – disse Houston, ma la scimmia non potè sentirlo. Mentre la teneva in braccio, il suo cuore cessò di battere. Houston la scrollò, ma capì che era inutile. Ebbe la sensazione di essere colpevole di tutto”.

 

Spesso succede, mentre uno è alle prese con un problema, di leggere delle parole che sembrano entrare in risonanza con i propri pensieri. Forse è un caso; forse è che si seleziona, nel vasto universo delle idee e delle parole, un particolare aspetto… Non sono io; è Gabriel Garcìa Màrquez che lo dice:

 

“Quando si vuole scrivere qualcosa, si stabilisce una tensione reciproca tra lo scrittore e il tema, in modo che lo scrittore sollecita il tema e il tema sollecita lo scrittore. C’è un momento in cui crollano tutti gli ostacoli, spariscono i conflitti e ti succedono cose che non avresti mai pensato…

E allora non c’è niente di meglio al mondo che scrivere”

 

[Da Plinio Mendoza: ‘Odor di guayaba. Conversazioni con Gabriel Garcìa Màrquez’ – A. Mondadori Ed. Milano; 1983]

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