Bufalino, Camilleri, Brancati, ecc. e la natura prismatica

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Cosa riesce a cogliere una foto in bianco e nero… ci penso mentre guardo la mostra, mentre vado in giro a vedere i presepi e i concertini organizzati nelle piazze e quello in grande nella chiesa del Duomo.

Cosa riesce a cogliere una foto in bianco e nero… ci penso mentre guardo la mostra, mentre vado in giro a vedere i presepi e i concertini organizzati nelle piazze e quello in grande nella chiesa del Duomo. Sono immagini, foto del mio paese.

“Anni fa, non so più quando, ma dovette essere prima che i poeti cominciassero a piangere sulla morte delle lucciole, mi accorsi, uscendo di casa una mattina, ch’era tempo di tornare a far pace col mio paese. Uno abita a lungo in un posto, ventre materno, scoglio di Acitrezza, cella di Regina Coeli. E a un certo punto si stufa. Allora scalcia contro l’addome, va sulla spiaggia a guardare le navi che passano al largo, cerca lime nelle pagnotte. L’avevo fatto anch’io a più riprese, ma troppo debolmente per riuscire ad andarmene senza ritorno. Sicché me n’era venuto, contro le solite selci che mi toccava ogni giorno battere su e giù con le suole, una sorta di malanimo inerte, a cui mancava un niente per diventare rancore. Le avevo amate da ragazzo, quelle pietre. Quando bastava qualunque partenza a darmi pena, e non mi staccavo dal finestrino finché vi resistesse – in piedi, come un pastore, sul suo gregge di tetti e di soglie – la sembianza familiare di un campanile. Altre volte, di ritorno dalle vigne, dove m’ero nascosto a leggere un libro vietato, se mi coglieva alle spalle il buio col suo corteo di briganti e di lupi, non dovevo che levare gli occhi all’orizzonte laggiù, e sentivo quietarmisi il cuore, all’accendersi del primo lume, ogni antica paura di solitudine e di diluvio. Veramente una complicità di sangue m’aveva allora legato alla persona del mio paese: non diversa da quella che, tra tenere scherme e guardinghi abbandoni, ci unisce talora umanamente a una donna. Dirò di più, il paese riassumeva per me ogni concepibile luogo di intimità collettiva: mercato, arengo, chiesa, teatro, camposanto… Nemmeno dopo, quando ebbi in sorte di esserne esule per un po’, mai vi fu sera che non lo pensassi,dalla mia locanda di figliuol prodigo, con una stretta di cuore assai simile a un rimorso. Altri tempi. E che non durarono. Da un giorno all’altro quest’immagine del paese come focolare e grembo di tutti mi cadde dal cuore. E sarà stato il diffondersi di una coscienza che venne in uso di chiamar planetaria; o il fastidio giovanile per certe forme patriarcali e stantie del convivere; o la rassegnazione al fatale incenerirsi delle isole rurali sotto la trionfante lava delle megalopoli… certo non mi sentii più dentro la cerchia delle mura comuni un affiliato di bande, un congiurato al sicuro, bensì il casuale usufruttuario degli stessi marciapiedi, degli stessi fiati di fumo; né m’avvenne più d’affacciarmi a parlare da una finestra con l’amico della finestra di fronte (…) Ma ecco all’improvviso quella mattina, un grido d’ambulante che non sentivo da tanto mi morse e persuase il cuore. Poche sillabe rauche da una gola di vecchio. Eppure mi dissero con eloquenza una cosa: che era ancora vivo, benché ridotto a gridare vili verdure, il Maciste dall’ugola eroica, il banditore di cene, che avevo fanciullescamente adorato ai piedi di un palco d’assi inchiodate, ai tempi delle sue glorie. Allora pensai, io che avevo succhiato tanti suoni e fumi di libri, e m’ero gremito di parole come di albumine, per flebo,un malato;pensai quanto somigliasse al mio quel destino sconfitto, accanto a una carretta di magre lattughe. Che non comprai, d’altra parte… Rifeci dunque pace col mio paese. Pace? Un armistizio, piuttosto, uno dei molti. Essendo il dilemma paese-città – per chi nasce in una profonda provincia, e la provincia è un’isola, e l’isola è sul parallelo di Tunisi – uno di quelli sui cui corni non si finisce mai di ferirsi le dita…”

da Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino

 

Un crocchio di vecchi, mi pare di riconoscere un parente e il bidello della scuola elementare e l’altra foto, è zi Biagina, quella da cui vado a comprare l’aglio; c’è una luce particolare in quel gruppo di agnellini, li rende ancora più miti; e gli uccelli in volo sulle colline; lo sguardo di quel vecchio mi parla e le mani… le mani; ci sono le mani di una donna che afferrano le mandorle dopo averle sgusciate, ci sono le mani che le schiacciano e sono mani grosse incrostate dal tempo e dalla fatica. Perché mi pare di sentirla la consistenza di quelle mani?, e l’odore, l’odore del vento; so che quelle mani prepareranno i dolci di Natale con le mandorle, con le mandorle e i fichi; le conosco io, le attese, i riti, le insonnie per la preparazione di quei dolci, conosco i profumi, il calore del forno. C’è tutto dietro quello sguardo di vecchio, tra le rughe del suo viso c’è tutto, le sue mani sono come quelle di mio nonno e del nonno di mio nonno che ci sputava dentro a quelle mani prima di afferrare il manico dello zappone , prima di farsi il segno della croce e attaccare col lavoro; si ammorbidiva i calli così,si dava forza e malediva la sorte cattiva e la miseria.

Certo, che senso ha dall’alto di un dolce far nulla rimpiangere un’epoca che non si è vissuta, che senso ha voler esserci per forza negli interni di quelle casupole sopra al presepe, voler lavare gli stracci dentro una pila, fuori, al freddo, insieme a una donnina che un meccanismo elettronico e un circuito di fili fa andare avanti e indietro? Un senso ce l’ha se penso alla mia gente, a quelli che non ci sono più, alla civiltà contadina che m’appartiene, a cui io appartengo, a quel passato, quel “tempo dei lampioni” che ci siamo scrollati di dosso troppo in fretta come fossero pidocchi o un parente da non far comparire. Un senso ce l’ha se penso al mio paese a com’era e a come doveva restare nel mio folle desiderio di mantenere intatta la dolorosa nostalgia, intatto il ricordo, quello mio e di quanti l’amarono prima di me, il mio paese. Nino Savarese, uno scrittore di un secolo fa: “Sullo sfondo di un cielo turchino vedo il mio altipiano; scendono tra il verde dei suoi fianchi le vie battute come nastri da un cesto….; le colline sembrano accavallarsi come onde che s’increspano nelle schiume bianche degli abitati; le masserie sembrano piccole navi dalle vele verdi sperdute nella vastità della terra… Questo paese che fu villeggiatura prediletta di regine, di principi e di imperatori… rinomato per la bellezza delle sue donne fin dall’epoca saracena… e che è stato sempre uno dei centri più colti della Sicilia, è rimasto tuttavia fedelissimo alle sue antiche tradizioni agricole e pastorali… Enna deve restare quel che fu ed è: un paese di sapore classico e rurale… con le sue stradette confidenziali, le famose fiere e le feste agricole del calendario e l’aria fina; senza pretendere a diventare una delle solite città, rumorosa meccanica e barocca… Per fortuna siamo sulla rocca e manco a farlo apposta non ci si può allargare né di qua e né di là. Dove e come siamo si resta e buongiorno a chi viene a trovarci”.

 

Racconta Andrea Camilleri:

“Io arrivai ad Enna nel ’47. Papà era direttore dell’Ast (azienda siciliana trasporti) e ci restammo tre anni. Per uno che vive ad un metro dal mare l’impatto con la montagna fu traumatico e il freddo…io andavo a letto col passamontagna tra quelle lenzuola come al polo nord. Dopo tre o quattro giorni in cui ero molto depresso, mio padre mi mandò in municipio, lì mi arrivò un calore particolare dal lato dove c’era scritto Biblioteca comunale e da cui non uscii più. Il direttore mi chiese: “Ti piace leggere?” Ed allora mi aprì alcune stanze dove c’erano i lasciti di Nino Savarese e Francesco Lanza. Era bellissimo vedere le riviste: La Ronda, La Voce, tutte ordinate negli scaffali. Io non posso escludere che Lanza coi Mimi siciliani mi abbia influenzato ed anche Savarese con Rossomanno e I fatti di Regalpetra che ho ripreso ne Il re di Girgenti. Ma poi solo due pazzi come Savarese e Lanza potevano fondare una rivista: Il Lunario, in cui assieme ai racconti davano anche consigli ai contadini su cosa coltivare ecc.

Io di quegli anni ricordo un’opera lirica al castello. Ci avevano raccomandato di portarci la coperta, ad agosto. L’opera era montata su un palcoscenico girevole. Noi avevamo le coperte, i nostri plaid sulle gambe e qualcuno portava anche un fiasco di vino. Ad un certo punto un vento terribile fece girare la scena più volte e anche la scenografia in fine volò via…sono scene che ti cambiano la vita. E la nebbia poi che calava… alla rocca di Cerere con una ragazza potevi fare…tanto da qui a lì non si vedeva niente. E poi Federico II, primus inter pares mentre legge le poesie, io lo immagino così nella torre e provai delle emozioni, che poi anche se non è vero è verisimile. E poi al Belvedere..un giovane mi disse, un giorno che passava un aereo, che dovevo guardare in basso, non in alto. Quel giovane era Franco Cannarozzo diventato Franco Enna, grande scrittore di gialli. Io non capisco l’apolidismo, le persone che riescono a dimenticare le proprie radici. Io ho un cordone ombelicale elastico che mi obbliga a tornare in Sicilia. I siciliani si dividono in siciliani di scoglio e siciliani di mare aperto, io se proprio mi devo confessare avrei preferito non essere di mare aperto; io la Sicilia la amo tutta. Enna dopo i primi disagi è un paese che m’è entrato dentro…”

Ma quale isolitudine! Il siciliano si isola anche nell’isola! Scriveva Brancati: il Sig. Accursio e il Sig. Nicola abitano nello stesso pianerottolo ma il Sig. Accursio per comunicare col Sig. Nicola deve attraversare il mare aperto. Tredici dominazioni non sono passate invano. Da ogni dominazione viene fuori la natura prismatica del siciliano.

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