4 al giorno. È la media italiana dei morti sul lavoro. Un dato incredibile e per lungo tempo passato sotto silenzio. C’è una data precisa in cui si è ricominciato a parlare di “morti bianche” nel nostro paese: il 6 dicembre 2007. Quella notte un incendio divampò nella linea 5 della fabbrica torinese delle acciaierie ThyssenKrupp. Morirono sette operai, l’ultimo dopo 24 giorni di atroci sofferenze.
“La tragedia della Thyssen non è un semplice incidente ma il simbolo di una storia lunga e dolorosa: quella della sicurezza sul lavoro in Italia.” A parlare è Diego Novelli, giornalista, scrittore, sindaco comunista di Torino negli anni ’70 e curatore di un appassionato libro, scritto a più mani, intitolato proprio “ThyssenKrupp”.
Perché, per tanto tempo in Italia, si è parlato così poco di “morti bianche”?
Era un vero tabù. Negli anni ’50, quando facevo il cronista, di morti sul lavoro ne ho visti tanti ma allora era vietato morire in fabbrica. Si moriva in ambulanza o in ospedale. La mattina dopo si leggeva: “tizio è morto nel tragitto verso l’ospedale”. Morire in fabbrica avrebbe voluto dire far aprire un’inchiesta, bloccare il reparto, fermare la produzione. Eppure io ho visto con i miei occhi un uomo tirato fuori da una vasca di acido in cui era caduto o un altro, trafitto da parte a parte da un serpente d’acciaio incandescente. Morirono in ospedale ma li uccise la fabbrica.
Quanto sono state importanti le testimonianze dei familiari delle vittime, per questo libro?
Fondamentali. Le vittime e le loro famiglie sono i protagonisti di questo libro. Abbiamo parlato di loro, di questi ragazzi quasi tutti sotto i 35 anni, ognuno con i suoi piccoli grandi sogni. Quello con la passione per i motori, quello fissato con la discoteca, quello che si stava per sposare. Ma abbiamo voluto andare oltre, scavare nel contesto, nella storia delle loro famiglie. Erano tutti immigrati di seconda o terza generazione. Ci siamo fatti raccontare dai padri, dai nonni, di quando lasciarono la loro terra, il loro sole, negli anni ’50, per venire a Torino, abbandonando tutto. Pastori, braccianti, contadini, in una settimana venivano ammaestrati come le scimmie per essere buttati in catena di montaggio e ritrovarsi poi magari, a distanza di anni, in cassa integrazione.
Erano operai figli di operai?
Sì. E avevano, strano a dirlo, passione per il loro lavoro e per la fabbrica.
Cos’è la fabbrica?
La fabbrica è un microcosmo sociale. Per gente che lavora su turni che raggiungono anche le 16 ore consecutive, la fabbrica è il luogo dove si creano legami alternativi a quelli che diventa complicato gestire all’esterno per questione di tempo. I giovani si frequentavano anche fuori dagli stabilimenti, erano amici non solo colleghi.
La fabbrica è il luogo della fatica ma anche della solidarietà e della comune identità. Una figura emblematica in questo senso è l’anziano del gruppo di vittime, Rocco Marzio, a cui mancava poco alla pensione. Contava i giorni in un misto di ansiosa attesa e malinconia. Parlando con i suoi parenti mi è venuta in mente quella vecchia canzone, “Giuseppina vuol bene alla fabbrica” che racconta di questa donna, licenziata dopo tanti anni di lavoro, che però ogni mattina si ritrova davanti ai cancelli.
E quella fabbrica di Torino, com’era?
Nel caso dell’evento che raccontiamo, era il suo contesto. Per avere un’idea di questo contesto abbiamo raccolto informazioni sulla storia della famiglia Thyssen e delle loro acciaierie e poi sulla storia della fabbrica di Torino. È venuto fuori che quegli impianti dovevano essere dismessi, erano già in fase di smantellamento ma si lavorava ancora perché pochi giorni prima era arrivata una commessa enorme a cui la Thyssen non riusciva a far fronte con il lavoro dei soli impianti di Terni. A Torino si andava avanti a produrre ma non c’erano più nemmeno gli estintori.
In questa tragedia ci sono anche responsabilità esterne?
Ci sono. Diverse istituzioni avrebbero dovuto vigilare e non lo hanno fatto. Il sindacato non si è mai pronunciato sul fatto che si continuasse a produrre in un impianto inagibile, per paura della reazione degli operai all’eventuale chiusura. Nelle nostre ricerche ci siamo poi imbattuti nei controlli periodici che la Asl doveva fare sulla sicurezza. È venuto fuori che alcuni degli incaricati di questi controlli erano allo stesso tempo consulenti della Thyssen.
Era necessario descrivere l’arrivo delle vittime in ospedale?
Era necessario descrivere la realtà di queste stragi quotidiane. Era importante raccontare come sono arrivati in ospedale: investiti da un gettito di olio bollente non sono morti ustionati ma bolliti. Avevano l’aspetto dei polli lessati tirati fuori dalla pentola. Così sono morti sette uomini.
Poi c’è la descrizone dei funerali.
Sì. Ho una certa pratica di funerali “collettivi” perché quando ero sindaco, c’era praticamente un morto ammazzato a settimana. Quello che mi ha colpito di più, al funerale del primo operaio morto, è stata l’assenza della città. Non saremo stati più di 500. Ma poi, mano mano che i media si occupavano dell’incidente, cresceva la partecipazione ai funerali. E anche la sottoscrizione lanciata dai sindacati ha dimostrato quanto, dopo giorni di informazione, la gente si fosse sensibilizzata.
Quindi è cambiato qualcosa dopo questa tragedia?
Dobbiamo sperare di sì. Oggi c’è informazione sulle “morti bianche”. È stato fatto anche un importante lavoro dalla procura di Torino. A meno di un anno dal fatto si è già conclusa la fase istruttoria del processo a carico della Thyssen, con un’accusa gravissima per l’amministratore delegato, quella di omicidio volontario. La Thyssen era a conoscenza della situazione degli impianti e del fatto che un incendio sarebbe potuto scoppiare da un momento all’altro. Presto si arriverà a sentenza.
Che senso ha questo libro?
È un frammento di battaglia culturale. Abbiamo voluto lasciare una testimonianza documentata di questa tragedia simbolica. Si fa un gran parlare di post-moderno, della classe operaia che non esiste più. Ma oggi questa è la faccia truce del capitalismo. Non si può piangere dieci minuti e poi voltarsi dall’altra parte conoscendo questa macchina di morte. Perchè si muore ancora in questo modo? Il lavoro, in Italia, fa quattro morti al giorno. Quattro al giorno.