Allo stadio dei marmi il mio dio greco è in piedi tra il Discobolo e il Pugile, un ginocchio a terra, le braccia di bronzo al cielo, le vene che scoppiano nel pugno con cui stringe le mie mutandine.
Lo contemplo distesa di fronte al suo piedistallo, si alza un vento freddo e soffia lontano da noi, alla nuca e dentro la gonna solo un vento caldo che sa di fragola e miele, di ciambelle di mosto appena sfornate, è buio ma non intorno noi, imbottigliati nella luce di vetro di quando è appena piovuto.
Si sfila i calzoncini rossi, si lascia cadere faccia sull’erba, lancia al vento quel culo perfetto sotto lo sguardo di pietra dei lottatori invidiosi.
Questa è una delle sublimi vie con cui Georgeos si è avviato a spappolarmi il buon senso sigillarmi la coscienza scipparmi la luce del discernimento. Mi rincoglionisce. Lo adoro.
Georgeos mi è apparso la prima volta all’Auchan dell’Eur, reparto detersivi, ero in ginocchio sotto lo scaffale per prendere l’ultimo sacchetto rimasto.
– Scusa sai come si va da qui alla Tiburtina?
– Se aspetti un attimo
Sono in difficoltà, il detersivo è troppo indietro, devo sdraiarmi sotto lo scaffale, non fa cenno di aiutarmi.
– Più o meno, da che parte si va?
Mi giro veloce, gli dò la risposta più facile, per togliermelo di torno
– Puoi prendere la tangenziale
– Ah
Gira l’angolo e si riaffaccia da sopra lo scaffale
– La tangenziale?
– Sì
– Ah
Mi sono rialzata e non c’era più.
Al parcheggio sotterraneo in controluce una sagoma col neon sparato in testa e un’altra luce che proveniva dai suoi contorni, una visione spettrale e incantevole. Un odore che non sapeva di nulla che avessi comprato saliva dai bocchettoni, un inesistente arbre magique di miele, ciambelle di mosto e fragola matura. Ero già con la chiave sul cruscotto e la mano si rifiutava di girare, mi sono chiusa dentro. Mi ha fatto cenno di abbassare il finestrino
– Scusa
– Sì
– Non trovo la macchina
– Sì
– Era verde
– Beh, che macchina?
– Non so, forse una Uno
(…)