Giardini fantareali

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Abitavo in un casale in campagna. Ci ho vissuto per molti anni. A una trentina di chilometri dalla città si abbandonava la via consolare e ci si inoltrava...

Abitavo in un casale in campagna. Ci ho vissuto per molti anni.

A una trentina di chilometri dalla città si abbandonava la via consolare e ci si inoltrava per stradine tortuose tra le vigne, in piena campagna. Un passaggio a livello, una piccola discesa, e si imboccava sulla sinistra una stradina in terra battuta; c’era qualche sasso e molte buche, ma si poteva percorrere agevolmente in macchina, purché non avesse il pianale troppo basso.

A circa duecento metri dal bivio, sulla destra, c’era un cancello di ferro rugginoso che una volta era stato verde, e un vecchio casale, sovrastato da un pino e altri alberi ad alto fusto. Quella era casa mia.

…un vecchio casale, sovrastato da un pino e altri alberi ad alto fusto.

A voler rifare quella strada alcuni anni dopo, seguendo le stesse indicazioni, si sarebbe trovato ancora il passaggio a livello, la via dissestata e le buche, ma nessun cancello sulla destra, e nessun casale. Solo una siepe continua di rovi.

Di tanto in tanto qualcuno provava a sbirciare attraverso la siepe, o ad aprirsi un varco tra i rovi: cacciatori per lo più, o ragazzini in cerca di avventure. Si trovavano allora in uno spazio non troppo grande – duemila metri quadri, più o meno – completamente vuoto; un ammasso di vegetazione disordinata da cui emergevano delle macchie più alte, tipiche dei terreni incolti: malvone, rovi e sambuchi.

A guardare con attenzione, qualcosa di strano si poteva notare qua e là, tra le erbacce e i rovi. Delle fioriture a volte, come isole di colore del tutto fuori posto in quel verde inselvatichito. Una macchia di bocche di leone, per esempio. Non i piccoli fiori selvatici della linaria, ma vere bocche di leone di diversi colori: giallo, rosso, arancio. Si sarebbe potuto pensare che era stato il vento a spargerne i semi, prendendoli da chissà dove…

Da un’altra parte, aggirandosi per quel campo selvatico, si sarebbero potuti trovare degli asparagi. Non solo quelli selvatici, comuni nelle siepi, dalla vegetazione fitta e spinosa di color verde scuro; ce n’erano anche degli altri, grossi come un dito, come quelli coltivati, che vegetavano in alte e morbide asparagine di color verde chiaro.

…isole di colore del tutto fuori posto in quel verde inselvatichito.
…non i piccoli fiori selvatici della linaria, ma vere bocche di leone di diversi colori
…gli asparagi selvatici, comuni nelle siepi, e quelli coltivati…

Chissà quante altre piante, insolite o inaspettate, si sarebbero potute trovare in giro, se qualcuno si fosse dato il pensiero di liberarle dai rovi o avesse avuto voglia di guardar bene, negli angoli più nascosti…

Ma a chi sarebbe mai potuto venire un desiderio del genere?

Nessuno notava altro che la siepe esterna, e forse neanche quella, uguale a tante altre lungo la stradina…

… la siepe esterna, uguale a tante altre lungo la stradina…

Solo io avevo un motivo per essere curioso e per cercare, come un segugio, tracce e segni nascosti dal tempo e dall’intrico della vegetazione. Per me era diverso…

Negli anni, ero tornato più volte da quelle parti; avevo un passaggio quasi segreto che condividevo con le volpi e i cani selvatici, nell’intricato sottobosco di una pianta di lauro, proprio ad un’estremità della siepe più fitta. Non che mi importasse di essere visto, e poi, seppure fosse accaduto, nessuno avrebbe avuto niente da dire, perché quel terreno era mio, e lì – l’ho già detto – c’era la mia casa.

 

Era una strana casa. Un rudere riattato della fine del 1600, residenza di non so quale cardinale; poi passato di proprietà della Curia. Poi frantoio e più tardi abitazione, e chissà quanti altri usi di cui non ho mai saputo niente. Ci doveva aver abitato molta gente nel corso degli anni, a giudicare dal numero dei buchi e dalle impronte di serrature che si trovavano sulle porte vecchie e sconnesse.

Ai tempi dell’acquisto, in famiglia erano stati fieramente contrari al mio progetto. Non riuscivano a capire, i miei, che una casa così era proprio quel che desideravo e non l’avrei cambiata con nessun’altra al mondo.

Di essa tutto mi affascinava; l’aspetto di solidità che emanava, i tetti sfalsati su piani diversi; l’antica cisterna di raccolta delle acque piovane. Una quantità di cose incomprensibili, venute su in epoche diverse, pensate da persone di cui era scomparso anche il ricordo.

Si poteva stare ore a rimuginare sul significato di una finestra di cui rimaneva soltanto la cornice con l’interno murato, situata a metà tra un piano e l’altro; o di un’altra finestra con la cornice più grande, come se fosse stata prima un balcone. E chissà quale storia poteva esserci dietro a un ballatoio che ad un estremo poggiava su due archi di fattura antica e dall’altra parte su un sostegno di travi in ferro e cemento, certo di epoca più recente.

Ma le stranezze erano dovunque; dai muri sghembi, alle botole murate che non portavano da nessuna parte; fino alla bambolina di spoglie di granoturco, murata insieme ad alcune bottigliette di vetro colorato, in un buco del muro, nella casa grande. Su ogni muro c’erano segni, ogni recesso nascondeva segreti su cui fantasticare e inventar storie…

Nelle case antiche rimangono impresse impronte, desideri. I sogni di tante persone; una fila interminabile lungo il corso del tempo. Di ciascuno la casa serba una traccia.

Quella casa era stata costruita con i sogni di molta gente.

Un sogno più grande – di un cardinale grosso e trippone (l’ho sempre immaginato così), che aveva fatto costruire quel rifugio in collina tra le vigne, con il mare in lontananza e le contadinotte più sottomano – e  altri sogni più piccoli. Qualcuno aveva aggiunto un piccolo corpo laterale; a qualcuno erano serviti due grandi capannoni. Altri avevano fatto un camino da una parte e murato una canna fumaria dall’altra; costruito una scala, che poi doveva essere crollata, perché su una facciata avevamo trovato una porta che apriva sul vuoto, a tre metri da terra.

Infine noi – gli ultimi arrivati – che avevamo messo altre serrature, fatto scale e soppalchi, abbattuto muri e creato altri spazi; messo piante da frutta, alberi e fiori.

Era tutto là. Le nostre realizzazioni insieme alle altre, mescolate insieme; e anche noi credevamo, come tutti gli altri prima di noi, che sarebbe durata per sempre.

Non è certo una scoperta: alle loro opere gli uomini hanno sempre dato la forma dei sogni. Ma a quel tempo ancora non sapevo che se è nel potere della mente creare un mondo, lo è anche cancellarlo…

 

Al casale, tra tutti i sogni di pietra lasciati in eredità agli ultimi arrivati, c’era una struttura che mi affascinava sopra ogni altra.

Era un sistema di gallerie estese sottoterra per più di mezzo chilometro, scavate nella roccia morbida sotto la casa. Ci si accedeva dal cortile interno, attraverso una scala in pietra, ripida e muschiosa.

…una scala in pietra ripida e muschiosa

Potrei parlare a lungo di quelle grotte, tanto le conoscevo bene; portavo con me una torcia elettrica e ne esploravo ogni recesso. Vi ero sceso d’inverno, la mattina presto, quando l’erba del cortile era strinata di brina; allora il caldo delle grotte era piacevole e rassicurante come un fiato caldo-umido. Altre volte, d’estate, mi lasciavo dietro il caldo afoso dell’esterno e mi ritrovavo nell’oscurità fresca e  odorosa di muschio. In realtà la temperatura delle grotte era costante; era solo il contrasto con le variazioni esterne che la faceva sembrare diversa.

Le grotte dovevano essere state in passato la cantina del casale, ma probabilmente erano molto più antiche della costruzione soprastante. C’era un lungo corridoio centrale e due bracci laterali che si diramavano poco dopo l’ingresso.

Lungo il corridoio laterale, a intervalli regolari, da entrambi i lati c’erano delle nicchie squadrate, verosimilmente il posto per le botti. 

…Lungo il corridoio laterale, a intervalli regolari, da entrambi i lati c’erano delle nicchie…

Le grotte erano abbastanza alte, circa due metri e mezzo; sulle pareti e sul soffitto erano nettissimi i segni delle picconate impresse in una pietra grigia abbastanza morbida che nella zona chiamano peperino. In alcuni punti c’era un gocciolamento continuo e l’acqua calcarea aveva formato delle piccole stalattiti, di tre, cinque centimetri.

Nella galleria di sinistra una colonna in muratura che rinforzava il soffitto era completamente coperta da concrezioni calcaree, perlacee sotto la luce della lampada, con sfumature verdastre.

…l’acqua calcarea aveva formato delle piccole stalattiti…
…colonna in muratura completamente coperta da concrezioni calcaree…

Le visite ‘di gruppo’ che avevo fatto alle grotte nei primi anni di permanenza al casale, accompagnato da pochi amici fidati, si erano progressivamente diradate, man mano che andavo sviluppando il mio rapporto segreto con esse. Cominciavo ad essere geloso di particolari nascosti che solo io avevo notato, delle scoperte che facevo ad ogni nuova discesa. Dopo un po’ avevo stabilito una tale familiarità con l’ambiente da lasciare la lampada spenta sempre più a lungo, anche perché durante le mie frequenti visite non avevo mai trovato nulla di pericoloso o di vivente, tranne qualche pipistrello, ed ero assolutamente tranquillo.

Non ricordo precisamente quando mi accorsi della lievissima luminescenza delle pareti, tale da permettere ad un occhio abituato all’oscurità di distinguere vagamente i contorni dei corridoi. Per molto tempo avevo usato la torcia elettrica e in seguito avevo pensato che quel vago chiarore venisse dall’apertura dell’ingresso. Col tempo mi resi conto che veniva proprio dalle pareti di roccia; ma non me ne ero stupito troppo, per quella sicurezza e fiducia che danno le cose che si conoscono bene.

Solo molto più tardi, un amico geologo aveva ipotizzato non so quale tipo di radioattività, come possibile spiegazione del fenomeno che si verificò. Ma a quel tempo tutto era già accaduto.

 

Continuavo a scendere nelle grotte sempre più spesso, come attirato da una magia, ma forse anche per sfuggire alla situazione pesante che si era creata in casa.

Quello non era un buon periodo. Nel piccolo gruppo con cui spartivo non solo la casa, ma anche i progetti ad essa collegati, qualcosa aveva cominciato a guastarsi. Alle divergenze iniziali era seguita una freddezza sempre maggiore tra i partecipanti al ‘grande esperimento di una vita alternativa in campagna’. Il piacere di tornare a casa e ritrovarsi insieme era finito; alcuni passavano la maggior parte del tempo in città, e quasi non ci si incontrava più. Cambiata l’atmosfera, scomparse le piccole cose che fanno una casa viva: le voci, le risate, i fiori a tavola che si avvicendano con le stagioni. Anche la cura del giardino, sistemato in principio con l’entusiasmo e la partecipazione di tutti, veniva tralasciata.

 

Non saprei dire con precisione quando incominciò.

Ormai l’unica cosa che mi attirava erano le grotte, e da mesi non facevo più il giro del giardino, per vederne i cambiamenti, come prima ero abituato a fare.

Rimasi colpito, durante un giro occasionale, di trovare tutta la parte a nord, dove nessuno più passava da tempo, completamente sommersa da rampicanti, rovi e altre erbacce.

Molte piante erano scomparse. Non che fossero secche o sofferenti… Proprio non c’era più alcun segno della loro presenza; come se non ci fossero mai state.

Ricordo ancora questa prima scoperta avvenuta in un giorno di ottobre.

Fu un autunno cupo e piovoso. Non parlavo quasi più con nessuno, ormai; il mio tempo al casale era suddiviso in parti diseguali tra le grotte, diventate la mia principale ossessione, e un allucinato inventario dei pezzi che uno dopo l’altro trovavo mancanti.

 

Erano aumentare a dismisura le piante invasive. L’edera che è normalmente presente sui vecchi muri si era espansa a coprire intere porzioni del fabbricato; così il ficus repens e i cissus.

L’edera si era espansa a coprire intere porzioni del fabbricato; così il ficus repens e i cissus.

La ‘luccicanza’ delle grotte sembrava in aumento o forse era solo una mia impressione, o l’abitudine. Neanche saprei descrivere adesso come passavo il mio tempo, là sotto: mi immergevo in quell’atmosfera caldo-umida, avvolgente, e vagavo senza uno scopo, sfiorando con le mani le pareti irregolari, sciaguattando con gli stivali nell’acqua limacciosa, a volte saltando da un sasso all’altro, tra quelli che emergevano dal fango.

Probabilmente i miei pensieri giravano intorno al casale, ma non potrei giurarci.

Mi stupivo sempre di come rapidamente passasse il tempo; a volte scendevo nel pomeriggio e mi trovavo ad uscirne che era già notte fonda. Sempre più preferivo il buio ovattato e la visione sfuocata della grotta ai contorni familiari della casa, taglienti e impietosi alla luce della luna.

Così passava l’autunno, e la casa, l’orto e il giardino sembravano dissolversi, portati via dalla pioggia che continuava a cadere.

La ‘luccicanza’ delle grotte sembrava in aumento…

Comunque non ero ancora del tutto preparato, quando una sera, tornando su dalle grotte trovai uno spazio aperto, inconsueto davanti a me, nella penombra. Delle mura, cui ero tanto abituato da non farci più caso, non c’erano più, e lo sguardo correva libero fino alla strada, conferendo una prospettiva irreale al panorama che conoscevo.

Ma il mio stupore era solo superficiale perché già allora, immagino, dovevo essermi fatto un’idea di quanto stava accadendo. Così rincalzavo la paglia sotto gli ultimi alberi per proteggerli dal freddo, come avevo fatto tutti gli inverni, o coprivo con teli le piante di limone rimaste; poi scendevo nel mondo sotterraneo di pietra luminescente a rammaricarmi dei sogni perduti.

Ma ormai, qualunque cosa accadesse era indipendente dalla mia presenza. Scoprivo differenze impressionanti dopo una assenza appena più lunga. Era grottesco, al ritorno, cercare in giro cosa fosse scomparso di altro; ricordavo bene, solo qualche anno prima, la curiosità per ogni cambiamento, ogni gemma o fiore in più.

Ai primi freddi dell’inverno i grandi abeti davanti alla casa erano stati cancellati, insieme alla vecchia mimosa in fondo al giardino; la casettina era già sparita alla fine di novembre e della casa più grande restavano le mura esterne ed un letto, nella camera in fondo, dove qualche volta mi fermavo a dormire.

 

A causa di un viaggio, rimasi lontano dal casale per un certo periodo. Non vivendo sul posto, avevo cercato di deviare i miei pensieri da quella strana storia. Ci stavo tornando infine, dopo oltre due mesi d’assenza. Scendevo per la strada tortuosa che dal paese portava a casa con i battiti accelerati e un senso di ansia.

Ancora adesso mi è difficile descrivere quello che provai: un vuoto previsto, forse anche atteso, che ero riuscito rimandare fino a quel giorno, l’ultimo, dopo il quale nessuna illusione sarebbe stata più permessa; qualunque possibilità di tornare indietro, perduta.

Così trovai quello scorcio inconsueto in un insieme per il resto familiare: la lunga siepe ma, all’interno di essa, un terreno vuoto, leggermente irregolare. Nient’altro.

All’improvviso non ebbi più forza nelle gambe per camminare né alle mani per stringere qualcosa. Rimasi fermo al sole ancora freddo della primavera appena iniziata, lasciando la tristezza fluire e stemperarsi.

Strano, in tutta quella desolazione sentivo solo la mancanza di un posto per sedere: la scala fatta con traversine di ferrovia dove mi mettevo sempre la mattina, al sole. Mi mossi, spinto da un pensiero improvviso. Cercavo l’ingresso delle grotte nel posto dove presumevo che fosse, ora che tutti i riferimenti spaziali erano scomparsi. Camminai a lungo guardando con attenzione il terreno, alla ricerca dei segni di un muro, di un colore diverso dell’erba. Niente.

Vagai ancora per un pezzo in quel campo e tra i miei ricordi, ma nell’uno e negli altri tutto si era ormai consumato.

 

***

Passarono molti anni. In quel luogo continuavo ad andare, come per una vecchia abitudine; neanche si può chiamarla nostalgia. Sempre lo stesso paesaggio; rovi e erba alta. Pensavo che dei rovi si parla sempre male: nessuno si ricorda che sono le stesse piante che ad estate inoltrata portano le more… Qualche anno facevo pulire, qualche anno no; una volta, di ritorno da un viaggio, mi dissero che dell’erba secca lungo una siepe era bruciata e le fiamme avevano minacciato le proprietà dei vicini; così promisi che ci sarei stato più attento.

 

Poi, poco a poco, le cose cominciarono a ricomparire; se non tutte, molte di quelle che ricordavo. L’evanescenza di quei giorni lontani si ricostituiva in solida pietra e nuove piante, e in un giardino ben curato.

Ma anche quest’altra storia è già alcuni anni che è accaduta, e tutto sembra di nuovo perdersi e sfumare, nel tempo che passa…

…tutto sembra perdersi e sfumare, nel tempo che passa…

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