Giardini e natura. Lo sguardo del cinema (parte prima)

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Poco cinema e molti batticuori quando ci si andava da ragazzi. Che possa essere cominciata lì la mia passione per il cinema, mi sembra poco probabile; più che altro...

Poco cinema e molti batticuori quando ci si andava da ragazzi. Che possa essere cominciata lì la mia passione per il cinema, mi sembra poco probabile; più che altro si andava a far caciara. Era una palestra per battute salaci o grevi, per i primi incontri con le ragazze al buio. Una specie di società semi-segreta, “i tubisti”, impegnata in tutt’altre faccende che non a vedere il film. Questi ultimi poi non aiutavano certo: ‘cappa e spada’ o polpettoni storici, soldati romani con le vaccinazione per il vaiolo in bell’evidenza sul braccio e bellone in pepli neanche troppo discinti. Il western all’italiana ancora al di là da venire. Altri film proprio non arrivavano, o sarebbero andati deserti, nelle sale cinematografiche della mia prima adolescenza. Il grande cinema l’avrei poi scoperto a Roma, negli anni dell’università; ed era tutta un’altra cosa. Ma cercando bene, qualche impressione mi è restata, di quelle agitate sere d’estate (il cinema lo ricordo come una occupazione soltanto estiva): a volte una sala con i finestroni aperti, a volte un’arena sotto il cielo stellato, i sedili delimitati da una fila di fioriere in cemento; ma sempre il profumo delle ‘belle di notte’. Un fiore poco appariscente su una pianta disordinata e insignificante, ma un profumo che si insinua e rimane nella memoria; che poi mi è sembrato di riconoscere – se non il fiore in sé, la sensazione – in ‘Nuovo Cinema Paradiso’ di Tornatore.

 Pianta e fiori di Bella di notte (Mirabilis Jalapa – Fam. Nyctaginaceae) al profumo di ‘sera d’estate’. Dai piccoli semi neri si sviluppano piantine che in una sola stagione formano un tubero fittonante capace di rivegetare negli anni successivi, in forma di cespuglio alto fino a 1 metro circa

Durante i miei anni da studente fuorisede, nella grande città fiorivano le sale d’essai: il Filmstudio fu il primo. Ricordo che sbagliavo sempre la traversa, per via degli Orti d’Alimbert, fino a che non comparve, lì vicino, una scritta nera a spray sul muro: una gabbia stilizzata – sarà stata la vicinanza con Regina Coeli – con la scritta Né gabbie né gabbiotti / Nuclei Armati Passerotti. Da allora la strada la trovai sempre. E furono anni di scoperte: il cinema francese della nouvelle vague e tanto cinema giapponese; le rassegne; la scoperta che si poteva approfondire su un Autore in verticale, vedere tutte le sue opere (Mizoguchi ce l’ho in testa da allora!). Poi sarebbero venuti Massenzio, l’estate romana e tutto il resto…

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Una delle più immediate relazioni tra il cinema e un giardino è nell’essere entrambi una costruzione dell’intelletto. Un giardino non è la natura, ma la sua rappresentazione. Niente di quanto si trova in un giardino sta lì per caso; le singole piante e la loro disposizione sono state prima pensate e poi assemblate a formare un giardino; in modo analogo sono costruite le singole scene ed è realizzato un film nella sua interezza. Questo è il punto di partenza teorico. Ma poi il giardino, licenziato dal suo progettista, comincia a vivere di vita propria. Incuranti delle intenzioni del creatore, le piante stabiliscono rapporti tra loro; si espandono e si auto-limitano a seconda del caso e della necessità; si muovono a cercare la luce e un’esposizione migliore per le loro fronde. La disseminazione avviene in modo casuale e imprevedibile. Gli uccelli e altri animali colonizzano il giardino e apportano del loro: semi con le deiezioni, impollinazione da parte degli insetti e ibridazioni interspecifiche. Tutti i cambiamenti – inclusi le morti e le nuove nascite – che sono la caratteristica della vita. Un film, invece, non cambia. Ma cambiano i suoi spettatori; cambia la vita intorno e il modo di guardarlo. A volte, oltre le intenzioni dello stesso Autore, che forse – succede anche in letteratura – ha dato vita alla sua opera rispondendo ad un’esigenza che gli diventa chiara solo in seguito, o magari anche mai. Il cinema ha messo in scena i giardini in tutte le sue possibili metafore. Abbiamo visto come il formalismo nella costruzione dei giardini abbia raggiunto la sua massima espressione nel settecento [Vedi su “O”: Passeggiate per i giardini del mondo
 del 13.05.07]. Alcuni film hanno registrato con esattezza questi aspetti, ritraendo i giardini accuratamente realizzati in cui si svolgevano i fatui passatempi e le schermaglie ritualizzate dell’aristocrazia del tempo. ‘Barry Lindon’ di Kubrick, ma soprattutto ‘Vatel’ di Roland Joffé rimandano a questo mondo di totale asservimento della natura – includendo in essa oltre alle piante, anche gli animali e gli esseri umani più poveri – ai capricci dei potenti. Nel film di Joffé, François Vatel (Gerard Depardieu) è il maestro delle cerimonie – organizzatore di eventi e giardiniere, gastronomo e botanico – di un potente del tempo, il principe di Condé, che nel suo castello di Chantilly ospita, nell’aprile del 1671, il re Luigi XIV. Saranno tre giorni di grandi banchetti e strabilianti scenografie per allietare e sorprendere l’ospite regale, e i giardini, per l’occasione addobbati, ne sono lo scenario essenziale. Nel ricevimento il principe di Condé e il suo cerimoniere mettono in gioco la reputazione, il favore del re, e la vita stessa…

‘Vatel’ film di Roland Joffé del 2000, con Gerard Depardieu, Tim Roth e una splendente Uma Thurman. Sugli aspetti culturali e storico-gastronomici del ’700 Joffé si avvalse della consulenza di Dominique Michel,  esperto della cucina del XVII e XVIII secolo.

‘Barry Lyndon’, film di Stanley Kubrick (1975); sceneggiatura dello stesso Kubrick dal romanzo di William M. Thackeray: The Memoirs of Barry Lyndon del 1844. Il film ottenne nel 1976 quattro premi Oscar, per ‘migliore fotografia’, ‘migliore scenografia’, ‘migliore colonna sonora’ e ‘migliori costumi’ (a Milena Canonero)

Kubrick, con la sua caratteristica ossessione per il perfezionismo, si documentò, per le scenografie del suo ‘Barry Lyndon’, sui maggiori paesaggisti del tempo che andava a rappresentare, e girò le scene nei luoghi stessi dove la vicenda si svolge, in Irlanda, Inghilterra e Germania; esse vennero effettuate con l’ausilio della luce naturale e, per le scene notturne, con candele e lampade ad olio. Le riprese durarono 300 giorni, in un arco complessivo di due anni: un tempo spropositato per qualunque film, ma non per Kubrick!

‘Il Casanova’ di Fellini: la locandina e una scena. Le poche volte che in Fellini è rappresentato un giardino, il verde è sempre in secondo piano e quasi non si nota

Tra il 1975 e il ’76 uscirono nelle sale, a breve distanza di tempo, due diverse visioni del ‘700: il ‘Barry Lyndon’ di Kubrick e il ‘Casanova’ di Fellini. Ora, senza voler entrare in valutazioni di merito sui film e sui registi, ma fermandoci solo all’aspetto naturalistico, il film di Fellini è totalmente alieno dalla rappresentazione della natura; addirittura le onde del mare, in ‘Casanova’, sono ottenute – seppur con indubbia maestria artigianale – con dei fogli di plastica. Basti pensare a un altro dei suoi capolavori: ‘Amarcord’. Pur trattandosi di un film sui ricordi di un’adolescenza in provincia, che di sensazioni legate al mondo della natura dovrebbe averne tanti, nel film esse sono singolarmente poco presenti. Ricordo ancora la nebbia in cui si sperde il nonno; lo svolazzare della lanugine dei pioppi, ‘le manine’ che annunciano la primavera; qualche albero, Volpina su una spiaggia a ridosso del mare. E poi i paesaggi lunari de ‘La voce della luna’… Ma certo Fellini privilegiava altri aspetti, rispetto a quelli naturalistici: prediligeva il sogno, il ricordo, i volti, l’infinita varietà dei comportamenti umani. Il giardino, o più in generale la natura, possono essere metafora dell’inconscio, del pericolo: insidia e minaccia. Famoso il labirinto verde in ‘Shining’ di Stanley Kubrick: l’immagine del labirinto di siepi dell’albergo viene inquadrato più volte, anche dall’alto; la stessa struttura interna dell’albergo richiama l’idea di un labirinto. Essi rimandano – lo dichiarò lo stesso Kubrick – al labirinto della mente nel quale progressivamente si perde il protagonista Jack (Nicholson).
 Nel labirinto lo spazio e il tempo si confondono; nel cinema lo spazio diventa simbolo del tempo.

‘Shining’ – titolo originale The Shining (La luccicanza). Film del 1980 di Stanley Kubrick da un romanzo di Stephen King (…che a detta del regista inglese “non era poi un gran capolavoro!”)
Schema del labirinto che è fuori dall’Overlook Hotel

Ancora, la natura è vista come un’insidia, una lusinga che attrae e ottunde i sensi in una pericolosa lascivia, in ‘Pic nic ad Hanging Rock’, film d’esordio del regista australiano Peter Weir. La storia, ambientata ai primi del ’900, racconta di una innocente gita all’aperto di un gruppo di ragazze di un collegio, accompagnate da due istitutrici. Dall’ambiente civilizzato della scuola, con le sue gerarchie, limitazioni e regole di comportamento, la compagnia si immerge nella natura vitale e selvaggia dell’Australia, prima accogliente e calorosa – le ragazze si abbandonano all’abbraccio dei prati in fiore – poi sempre più minacciosa e inquietante, sullo sfondo della formazione rocciosa di Hanging Rock, il cui potere magnetico ferma gli orologi e condiziona l’inconscio dei personaggi. Ogni componente della messa in scena – la fotografia di Russel Boyd con un velo messo sull’obbiettivo, per ottenere un ‘effetto sfumato’, le frequenti riprese dal basso dell’aspra formazione rocciosa, l’accompagnamento sonoro del ‘flauto di pan’ di Gheorghe Zamfir – tutto converge verso la realizzazione di un immaginario opprimente e angosciante, dominato da Hanging Rock, luogo misterioso e simbolico, tra il sogno e la realtà. Progressivamente il film si carica delle aspettative e delle convinzioni dello spettatore che nell’inspiegabile scomparse delle tre giovani può scorgere ciò che vuole, desidera o teme.

‘Picnic ad Hanging Rock’ film del 1975 di Peter Weir, tratto dal romanzo omonimo della scrittrice australiana Joan Lindsay (1967). All’inizio del film una delle ragazze fa una citazione, parafrasata da Poe: “Quel che vediamo e che ci si mostra è solo un sogno; un sogno dentro a un sogno”

Sono rispettivamente del 1972 e del 1982 ‘Aguirre furore di Dio’ e ‘Fitzcarraldo’: due film che costituiscono delle pietre miliari nella pur ricca filmografia di Werner Herzog. Herzog è un regista estremo, capace di avventure fantastiche, nell’ideazione e nella realizzazione. Come scenario dei due film scelse una location naturale e assoluta: l’Amazzonia vera, al di fuori dei grandi mezzi e delle falsità della macchina del cinema di Hollywood. Avventurosi e visionari, questi film possono essere visti come un ibrido tra finzione e realtà, storia e documentario. Il ‘making of’ delle opere di Herzog è interessante quanto i film stessi. La personalità estrema del suo ‘attore feticcio’ – Klaus Kinski – risponde alla sua idea filosofica dell’uomo: un pazzo visionario immerso in una natura aliena, ma più che altro indifferente, che richiude in silenzio le ferite ad essa inferte da quell’inconsulto agitarsi. Una natura, che anche nei suoi aspetti più crudeli esprime una forza inconciliabile con l’essenza dell’uomo.

I manifesti dei due film di Herzog e due scene tratte da essi. A Klaus Kinki, morto nel 1991, Herzog ha dedicato un affettuoso e limpido film-epitaffio del 1999; un film del genere cosiddetto biopic (biographic picture) dal titolo: ‘Klaus Kinski. Il mio più caro nemico’

Tra le pietre miliari del cinema di tutti i tempi, in cui la natura è testimone (neanche troppo) silenziosa della follia umana, non si può non citare ‘Apocalypse Now’, di Francis Ford Coppola. Strana vicenda anche questa, giocata tra la fantasia e la realtà, per un film che cambiò la vita di molti di coloro che vi presero parte. Già la storia: il canovaccio base e il personaggio di Kurtz furono elaborati a partire da ‘Cuore di Tenebra’ (Heart of Darkness; 1899) romanzo breve parzialmente autobiografico di Joseph Conrad, che effettivamente risalì in fiume Congo nel 1890, nel cuore di quella che era al tempo ‘l’Africa nera’. La vicenda che Coppola voleva rappresentare riguardava la ‘sporca guerra’ americana nel Vietnam. Il film fu effettivamente girato nelle Filippine, fra difficoltà e disagi inconcepibili, inclusi i capricci del divo Brando, una sceneggiatura che veniva scritta di notte per il giorno dopo, l’incertezza sul finale. Da questa particolare combinazione di trasposizione temporale, discordanti intenti etico-narrativi e diversa ambientazione, Coppola ha creato un capolavoro che pare direttamente ispirato alle parole con cui Conrad stesso spiega il punto di vista di Marlow (nella trasposizione filmica il capitano Willard (Martin Sheen) inviato in missione segreta ai confini della Cambogia, alla ricerca del colonnello Kurtz (Marlon Brando): “…per Marlow il significato di una storia non si trovava, simile a un gheriglio, dentro il guscio, ma al di fuori; era un significato che avvolgeva la storia, che emanava da essa così come un bagliore diffuso da un fuoco o, meglio ancora, come di quegli aloni tenui che si vedono intorno alla faccia spettrale della luna”. Nel film la natura – violentata nelle piante, negli animali, negli indigeni adoranti un dio incomprensibile e crudele – è spesso offuscata dal fumo: il fumo dei fumogeni, disperso dalle pale degli elicotteri; il fumo del napalm, la nebbia palustre che nasconde il tempio-rifugio di Kurtz nella jungla cambogiana, i fumi sacrificali nel finale. Tutto è sipario e minaccia, cortina che occulta e insieme evanescente foschia che apre alla visione.

Nel 2001, ventidue anni dopo la prima uscita del film nelle sale, F. F. Coppola ha riproposto una versione ampliata e restaurata del film: il Director’s cut, ‘Apocalypse Now Redux’ (Redux significa qui ‘reduce’, ritornato: come da una battaglia o dall’esilio), con quasi un’ora di scene tagliate all’epoca della sua uscita (tre ore e 20 minuti contro i 153 min. originali)

La natura è spesso rappresentata al cinema in forma di metafora. A volte sono i colori, a volte le immagini a suggerire un’impressione. Un film sulla memoria riempie il passato di luce e colori; così può accadere che una scena sia inondata di fiori.

In ‘Ogni cosa è illuminata’ (Everything is illuminated), di Liev Schreiber del 2005 c’è questa scena del campo di girasoli, passata anche sulle locandine. Il film è una perla di produzione a budget ridotto, e malgrado abbia dovuto tagliare una intera parte della vicenda (dal romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer; 2002) riesce a rimanere fedele allo spirito del libro

In ‘Big Fish’, film di Tim Burton del 2003, Edward da giovane (Ewan Mc Gregor) conquista la donna della sua vita non con un banale mazzo di fiori, ma facendole trovare sotto la finestra un intero campo di narcisi (daffodils)

Abbiamo finora trattato della natura come è messa in scena nella filmografia occidentale. Che ci sia un modo diverso di approccio è possibile: se ne è già accennato a proposito della diversa sensibilità nell’uso dei colori da parte di registi appartenenti all’area del cinema asiatico, rispetto agli occidentali [vedi su “O”: Autunno: le piante e i colori (parte seconda) 
del 18.11.07]. È un argomento che dovremo riprendere… [Giardini e natura. Lo sguardo del cinema. 1. Continua]

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