Dal 15 gennaio al 10 febbraio al Piccolo Jovinelli a Roma è in programma “HIM” dei Fanny & Alexander, interpretato da Marco Cavalcoli, con la drammaturgia di Chiara Lagani e la regia di Luigi de Angelis. Su un grande schermo, dietro al palco, viene proiettato “Il mago di Oz” di Victor Fleming con Judy Garland e sul palco, solo, in ginocchio, c’è un piccolo dittatore-direttore d’orchestra che tenta di doppiare tutte le voci, i suoni, le musiche e i rumori del film. Un’idea semplice e folle, impossibile e credibile, esilarante e inquietante, megalomane e fallimentare allo stesso tempo, messa in piedi dalla compagnia ravennate come tappa del percorso ispirato dalla favola di L.F.Baum (tra l’altro i Fanny saranno di nuovo a Roma l’1 e 2 febbraio al Palladium con “Doroty. Sconcerto per Oz”). HIM è uno spettacolo spiazzante per la sua originalità e si presta a numerose letture: una politica, sul potere e la sua auto-rappresentazione; una religiosa, sull’onnipotenza che si annulla; una auto-riflessiva, sull’attore e i suoi limiti. L’abilità di Cavalcoli sta tutta nel mescolare rapidamente intonazioni e espressioni mimiche da Dorothy al Mago di Oz, dallo Spaventapasseri all’Uomo di Latta, dal Leone al cagnetto Toto, dalla feroce strega dell’Ovest alla buona strega del Nord. Il risultato è spassoso e imperdibile. Di seguito una breve intervista proprio al “mago” dello spettacolo:
Che cos’è HIM in due parole?
HIM è uno spettacolo che mescola teatro e cinema non privilegiando nessuno dei due linguaggi.
Il nome è preso da un’opera di Cattelan e l’attore dello spettacolo è vestito e assomiglia a Hitler.
Quello che colpisce dell’opera HIM di Cattelan è il fatto che si entra nella sala del museo e si vede un bambino inginocchiato nell’angolo, gli si avvicina quasi per dargli una carezza e improvvisamente si rimane orrificati nello scoprire che il suo volto è quello di Hitler. In questa c’è tutta l’ambiguità del simbolo dell’orrore di quell’icona del male e la tenerezza di questa figura indifesa. HIM porta in scena una figura simile, quasi fosse una statuetta votiva in un edicola, un dittatore inginocchiato, a tratti grottesco, ma anche molto piccolo.
Si può leggere il vostro lavoro come una metafora dell’attore: il protagonista è sia il direttore della scena che attore, perché doppia i personaggi e allo stesso tempo è parlato dagli stessi.
Hitler non è solo il primo simbolo assoluto del male in Occidente, ma è stato anche il primo dei dittatori del Novecento ad essere esplicitamente uscito dall’ambito della retorica, dalla grande retorica, per essere veramente un attore. Hitler, è documentato, ha fatto dei corsi di recitazione, ci sono delle foto dei suoi gesti studiati sulle registrazioni dei suoi discorsi e è veramente una figura costruita per la scena. Paul Ekman (studioso psicologo americano) ne parla come di un vero e proprio talento naturale. In questo spettacolo c’è un attore-dittatore che cerca di impossessarsi di un mito, di una favola, di un’opera. La sfida è vedere fino a che punto questa megalomania può esprimersi e dove è destinata a infrangersi sui limiti evidenti della rappresentazione scenica.
La rappresentazione di un’impossibilità?
Tecnicamente si, ma il pubblico ci crede come se questo attore fosse un imbonitore. La rappresentazione si spinge fino al limite per vedere a che punto il pubblico è disposto a crederci.
Nello spettacolo ci sono due aspetti: uno esilarante e uno inquietante. Da questo punto di vista lo spettatore è disorientato come se si trovasse di fronte a un comico film nazista.
Sicuramente il film contiene dei nodi molto inquietanti sia politici, sia psichici che culturali. Come tutte le grandi favole, “Il mago di Oz” è una divertente storia per bambini estremamente aperta alla crudeltà, anche alla crudeltà del teatro, quella di cui parla Artaud. C’è qualcosa di inquietante in questo tentativo megalomane di doppiare un intero film. Proprio per questa tensione verso l’assoluto, il singolo attore scompare, perché a un certo punto gli spettatori non guardano più lui, ma solo il film.