Nella notte romana grossi riflettori illuminano a tratti la passerella che serpeggia tra scure transenne, scuri i volti e i corpi che silenziosi ed estatici vi premono contro. I fari delle macchine rivelano per un istante l’ardore degli occhi, il palpito di taccuini branditi in aria per l’autografo. Nere figure sbarrano l’accesso alla passerella, dove noi sediamo su uno scalino nel buio, e prontamente si scostano al passaggio frettoloso degli invitati alla première di I am legend. Ad una curva delle transenne una parete di fotografi attende in agguato, i volti protesi e avidi. Scrutano gli invitati per un istante e più non si curano di loro. Sono ancora poche le prede ambite al cui arrivo un grido si leva da dietro gli apparecchi. Una donna famosa, non più giovanissima, vestita di bianco sorride all’urlo dei fotografi, si offre ai loro obiettivi, si addossa al muro: gatta, pantera, donna fatale, i fotografi la istigano, aizzando i suoi gesti contro la parete, e se anonimi invitati esitano, inciampando accecati dalle lampade, vengono sollecitati a: circolare, per cortesia, defluire. Carne umana poco appetibile, troppo anonima per essere immortalata. E loro, i non appetibili, defluiscono senza una smorfia, incassando il colpo, sorridendo sempre.
E urla e grida ora esplodono senza sosta: figure tigrate, in nero, in bianco, seminude, prodigano baci. E uomini alti e bassi, con neri cappotti, giovani o vecchi, difficile dire dietro occhiali e ceroni e coppie che, per un istante, si dividono: lui famoso, lei no, lei famosa, lui meno. I senza fama aspettano poco più in là, mentre i famosi sorridono in posa, il petto gonfio di sollievo: per l’urlo che ancora sanno destare prima di scomparire, inghiottiti, nella bocca grande e nera della multisala.
E c’è un vocio tra la folla, un piccolo varco che si apre: sono arrivati il regista Francis Lawrence e il produttore sceneggiatore del film Akiva Goldsman. Sorridono discreti. La folla non li conosce, non è loro che aspetta, i fotografi li immortalano veloci, professionali. I giornalisti fanno cenni, protendono i microfoni da dietro le transenne, e Francis Lawrence, alto, completo grigio, capelli brizzolati ravviati all’indietro, occhi azzurri di ragazzo e Akiva Goldsman testa rasata, sguardo vivo dietro gli occhiali tondi si avvicinano e rispondono alle voci concitate che cercano di farsi sentire al di sopra del frastuono. Le conoscono già le domande della passerella: “riportare sullo schermo un caposaldo della fantascienza, con un finale tanto diverso, è un segno di pessimismo o di speranza?”
“Di speranza” sorride Francis Lawrence, con i suoi occhi azzurri, nonostante le creature infette in agguato nel buio, il film non avalla il nichilismo del romanzo. C’è New York, città vuota, abbandonata, e un uomo, unico sopravvissuto, che si aggira nelle strade deserte. Di cosa vivrà? A cosa si aggrapperà? Questa è la domanda del film. Spiegano regista e produttore, cortesi e garbati, nella notte buia, finché dalle figure assiepate, trepidanti, nella piazza d’un tratto si leva un boato. L’uomo nero, l’ultimo sopravvissuto, scende dalla macchina, alto, solare, luminoso. Will Smith, protagonista quasi esclusivo del film, ride, urla, si avvicina alle braccia che si protendono verso di lui, che lo cercano. Occhi lo guardano commossi, imploranti. E lui si ferma, parla e ride con tutti.
“È sempre così?” chiede qualcuno al regista e al produttore, guardando la folla che inneggia impazzita e loro sorridendo, annuiscono. Sempre così: a Berlino, Parigi, Londra, negli Stati Uniti, in ogni parte del mondo, in ogni sala di cinema.
Stamattina alla Conferenza stampa Will Smith era un vortice che scuoteva la sala assopita nel grigiore di gennaio, in un torpore senza tempo, più insidioso di ogni infezione. La sua figura di cartone, ai lati delle file di sedie, avanzava nella città deserta, mitragliatore in spalla e cane al fianco. Ma dal vivo del podio Will Smith, in giacca di velluto verde, mentre il moderatore parlava degli alti incassi ottenuti dal film negli Stati Uniti, lanciava le sue grida: svegliatevi gente, svegliati mondo, e il mondo si stiracchiava sulle sedie, muoveva piedi e gambe a disagio in cerca di una prima domanda. La fatale domanda. Perché riproporre oggi un adattamento del capolavoro di Richard Matheson Io sono leggenda (I Am Legend, 1954 uscito dapprima in Italia nella collana Urania classici): la storia degli ultimi mesi di vita di Robert Neville, che ogni notte si chiude in casa, spesso ubriacandosi e con musica a volume altissimo per non sentire i vampiri che fuori cercano di eludere le barriere che lui stesso ha costruito alle sue finestre. (Nel film è stata la mutazione di un virus volto a debellare il tumore a trasformare gli umani in una sorta di licantropi)
Will Smith è pronto, non sta più nella pelle, incalza regista e produttore seduti ai suoi lati “Chi risponde? vai tu?” “Bene. Vado io” dice ad un loro cenno. E la sua voce risuona incontenibile, una musica potente. Spiega che il fascino della storia risiede in due paure fondamentali evocate dal romanzo: che farei se fossi da solo al mondo, senza nessuno da amare, nessuno da accudire e che mi accudisca e cosa farei se ci fossero presenze in agguato nel buio pronte a farmi del male. Sono paure che anche un bambino riesce a capire. E poi c’è stato il loro lavoro brillante e incredibile, ripete felice, sorridendo sempre, proteso a destra e a sinistra verso i suoi angeli custodi. Che sorridono sotto la sua ombra dirompente.
Will Smith continua: tu hai fatto il lavoro brillante, rivolto al produttore e tu, al regista, il lavoro incredibile.
Nella mattina bianca e incerta di gennaio, il pubblico assorbe l’energia che traborda dal podio, dalle urla, dalle risate, dal ritmo incalzante della voce del principe nero. L’idea brillante di Francis è stata di spostare l’azione da Los Angeles a New York. È impressionante New York vuota: non è la città fatiscente, ma la città abbandonata dagli umani e invasa dalla natura. Gli stessi scienziati lo dicono: in una città abbandonata le acque sarebbero limpide, l’aria pulita, le piante si insinuerebbero ovunque. Fa uno strano contrasto il ricordo delle strade vuote di New York e l’energia che pulsa in ogni angolo della sala. Tanto che qualcuno, quasi a difendersi da tanta energia, una vitalità per qualcuno più pericolosa e inquietante del deserto, gli chiede se la sua euforia oggi dipenda dalla vittoria di ieri di Hillary Clinton nelle primarie del New Hampshire (sapendo del sostegno di Will Smith a Barack Obama), ma Will non è tipo da prendersela e ride, ride di gusto alla presunta battuta e si butta a capofitto sulla seconda domanda : il romanzo contiene una riflessione su quale sia la vera natura del mostro: il protagonista del romanzo si accorge della sua parte mostruosa. Questo si perde nel film, a vantaggio della speranza del finale. Ride ancora Will Smith poi d’un tratto si fa serio, ma lo sceneggiatore è più pronto di lui nella risposta: il film si ispira alla sceneggiatura del 1971: 1975 occhi bianchi sul pianeta terra (The Omega Man). Negli anni ’70 c’era più speranza rispetto agli anni ’50. Noi volevamo una fine più positiva: muoiono tutti, ma lasciamo una speranza. In una narrazione spogliata di dialoghi, fatta di pura recitazione, il protagonista intuisce il suo lato mostruoso, senza che questo diventi però il perno del racconto.
Will Smith ascolta attento e poi, come un predicatore esclama, ridendo: “Sono sorpreso, non mi capacito. Nel film io muoio, la mia famiglia muore, io stesso uccido il mio cane. Non era rimasto nessun altro che potessi uccidere…” Ride Will Smith ride: “E questa voi la chiamate speranza? L’unica speranza è che nella natura se qualcosa muore, qualcosa d’altro nasce.”
“Lei di persona è divertente, travolgente, così allegro, non le costa interpretare ruoli così cupi?”
La risata di Will Smith echeggia nella sala: “Questo è il mio spazio emotivo naturale, mi piace divertirmi, stare bene.” Ride, allarga le braccia. “La mia felicità è una forma di egoismo: per lavorare ho bisogno di energie positive.” D’un tratto si fa serio e racconta di quando, molti anni prima, ha lavorato nel film Sei gradi di separazione, un film pauroso per un attore. Si è smarrito nell’umore cupo del suo personaggio. Il fallimento del suo primo matrimonio è legato all’umore di quel film, al pozzo nero in cui era caduto e da cui non riusciva ad uscire. Da allora cerca sempre di tenere altissime le sue energie.
Gli chiedono come sia stato lavorare con Gabriele Muccino, gli chiedono del futuro degli Stati Uniti e dei suoi figli piccolissimi già di casa sul set. E lui risponde entusiasta di Gabriele Muccino e del fratello Silvio che lo accompagna in giro per Roma. E dei suoi figli e di ciò che avverrà nel suo Paese. Risponde con foga, con passione. Il tono si fa sempre più alto, impetuoso, un fiume travolgente, il produttore ridendo gli bisbiglia all’orecchio di abbassare la voce. Lui l’abbassa stupito e racconta incessante, incessante riversa la sua energia in sala. Quando, in un istante di silenzio, squilla un cellulare, si porta la mano a megafono attorno alla bocca, agita un braccio in aria: telefono, telefono. Ridono tutti, lentamente come, una creatura dotata di vita propria, la sua esuberanza sta contagiando la sala, le spalle sono più dritte, gli sguardi arditi, il lascito degli anni ’50 nel nuovo 2000 arretra nel buio.
Rovescia le domande insidiose: c’è molto Romero nel film, dicono, e lui: è Romero che si è ispirato a Matheson; e i suoi progetti, i suoi prossimi film? Will Smith accenna ad un nuovo personaggio, un supereroe alcolista, in una commedia nera. Poi un pensiero lo coglie, si ferma sornione: ma non è un film Warner (che distribuisce I am legend in Italia) e quindi non ne parliamo. E i video giochi, in che misura, hanno influenzato la cultura di Hollywood? Qualcuno dice di aver avuto l’impressione di giocare con il joystick in sala, Will sorride, brandisce il dito in aria in segno di ammonimento: non sono cose da farsi, giocare con il joystick in sala, con i bambini nel pubblico. Ride, lentamente la sala coglie il doppio senso della domanda e qualcuno arrossisce.
Regista e produttore parlano dello sciopero degli sceneggiatori, in corso negli Stati Uniti, è a rischio anche la notte degli Oscar e il lavoro è bloccato. I tre appoggiano lo sciopero, la rivendicazione alla base è la protezione della proprietà: gli sceneggiatori hanno il diritto, anche economico, di veder riconosciuta la paternità della loro opera. Will dice che non c’è nessuna energia negativa da attribuire allo sciopero, l’America è una terra di giustizia, lo sciopero fa parte del tessuto americano. È una cosa positiva e darà un segnale positivo.
“Come ha reagito la gente a New York quando avete chiuso le strade?” la gente ha apprezzato, dice Will, si sbracciavano, gli facevano gesti: sei grande Will, sei grande, sei il numero uno. Poi Akiva gli ha dato un’altra interpretazione, molto diversa di quei gesti. Il regista sorride. Non gli pesa l’ombra di Will. Più tardi in una saletta appartata si diffonderà sorridendo sulla procedura adottata per svuotare le strade di New York, hanno chiesto i permessi e giravano nei fine settimana. Le strade di New York sono quasi tutte a senso unico e quindi bastava mettere un blocco in un punto da dove le macchine non potevano risalire. C’era una persona della troupe a bloccare l’ingresso di ogni palazzo. Nessuno poteva uscire, ma ovviamente non si poteva tenere bloccata la gente per più di dieci minuti. Chiudevano, giravano per dieci minuti, poi si fermavano, lasciavano defluire e ricominciavano. E spiegherà, nella sala appartata, che l’esperienza dei video musicali, dove si è fatto le ossa per anni, gli ha insegnato a girare sulla base del ritmo, tenendo conto dell’energia trasmessa da un pezzo più che dalle parole. Gli è servito molto in un film dove i dialoghi sono ridotti all’osso. E quando gli chiederanno come sia stato lavorare con Will Smith, che pare non prenda ordini da nessuno e, anzi, vuole disporre ogni cosa a suo modo, risponderà che contrasti non ce ne sono stati perché Will Smith è entrato da subito nel progetto, nella stesura della storia, si è seduto attorno al tavolo e ha detto la sua. Altro non è dato sapere.
Francis Lawrence sorride, l’energia che Will Smith richiama dalle viscere della terra, lui la possiede a fior di pelle, un’energia controllata, pacata “Passeggiavo con mia moglie nelle pause delle riprese e le dicevo: il prossimo film che girerò sarà un film piccolissimo, senza migliaia di licantropi che si riversano nelle strade, ponti di New York che crollano… Ma poi a pensarci bene, grande o piccolo il film, l’impegno è sempre enorme, sempre lo stesso.”
C’è tempo per un’ultima domanda “In un’epoca come la nostra non è pericoloso il messaggio del film: la scienza che perde contro il disegno di Dio?”
Tutte le indagini svolte, risponde Francis Lawrence, portano sempre allo stesso risultato: coloro che sopravvivono alle esperienze più traumatizzanti sono quelli che mantengono la speranza, che hanno qualcosa, un futuro davanti a cui guardare. Sono loro gli ultimi uomini del film e in loro non c’è contrapposizione tra fede e scienza. Will Smith sorride serio, impettito, aspetta che Francis finisca di parlare, è il suo turno adesso, prende un foglio di carta, intenzionato a non lasciare la sala finché il messaggio non sarà arrivato chiaro. “Potremmo parlarne per ore, ma basterà la menzione dell’autore più interessante, meraviglioso che ho letto al riguardo: Fritjof Capra dice che noi siamo abituati a porre la scienza e la fede sui versanti opposti di una linea divisoria.” Will traccia il disegno sulla carta, la presunta posizione sul foglio. “E non vediamo che fede e scienza si collocano sulla circonferenza di un cerchio. Chi, sul fronte della scienza e della fede, si spinge sulle posizioni più estreme, si incontra: i mistici ed i fisici subatomici”
Sventola in aria il foglio dove ha tracciato il suo disegno, mostra il punto dove scienza e fede si congiungono, dove si abbracciano fisici e mistici, poi sorridente Will Smith si alza, esce dalla sala, una folla lo circonda, ammirata, irretita dal suo vigore, dalla sua presenza imponente che spazza via dubbi e incertezze. Abbraccia tutti, caloroso stringe mani, sorride, diffonde attorno la sua energia infinita.
Di cui tutti hanno bisogno come stanotte nel buio cielo romano. Per tutti ha una battuta, una carezza e la gente lo guarda fiduciosa, anche i fotografi per un istante ossequiosi dismettono i loro ghigni, la loro ricerca di carne umana. C’è speranza nel film, le donne si sporgono dalle transenne, si torcono le mani, ammirano le scarpe di vernice rosso scuro e nera, gli splendidi pantaloni con la bandella laterale, la splendida giacca, gli splendidi gesti, lo splendido sorriso. “Noi bianchi queste cose non le sappiamo fare, non sappiamo vestirci così, non sappiamo giocare”. mormora qualcuna. “Questa audacia, questa vita, solo loro ce l’hanno” Will Smith tiene tutti in pugno. E se lui non ha paura, vorrà dire che le ombre della notte non sono poi così minacciose. Finché lui è qui, finché il sogno della sua fama popola la notte. Scompare oltre l’ingresso e gli ultimi famosi si affrettano sulla passerella vuota, i volti nel buio come maschere, protesi davanti agli obiettivi, le luci spente, il silenzio dietro le transenne. Si alza il vento, qualcosa serpeggia nella notte, nella piazza spazzata dall’aria umida, un lamento, una presa misteriosa che accarezza la gola nel buio.